Riflessioni su #coglioneNO
Quella dei creativi è una realtà che conosco piuttosto bene, avendo scritto su questi temi una tesi di dottorato nel corso della quale ho intervistato un grande numero di professionisti che con quelle logiche convivono ogni giorno. Di più, il mio focus specifico è stato sui freelance, una categoria particolare che più di altre risente di certe storture, come questa campagna evidenzia.
Ci sono alcune cose che mi colpiscono di questa iniziativa e della scia mediatica che ha lasciato, soprattutto in Rete. A questo proposito ho letto molti articoli davvero deprimenti per il pressapochismo e la sufficienza con cui questi argomenti sono stati trattati. Per offrire la mia opinione, non voglio sovrappormi a quanto già scritto dagli amici de La Furia Dei Cervelli e quindi cercherò un’angolazione diversa, meno di rivendicazione e più di analisi sociologica “a caldo”. Provo a riassumere il tutto in cinque punti.
Primo punto: ho letto da qualche parte che accettare o proporre di lavorare gratis è un ossimoro, e che il lavoro gratis non esiste perché semplicemente non è lavoro – e quindi che il lavoro gratuito non esiste. Lasciamo stare che chi scrive queste cose poi magari è lo stesso che richiede ai suoi collaboratori non pagati proprio questo tipo di lavoro. Gratis, ovviamente. Ma lasciamo stare: al di là del sillogismo aristotelico imperfetto, questo messaggio non può e non deve passare illibato. Il lavoro gratuito esiste eccome, e ciò accade essenzialmente perché la dimensione di remunerazione del lavoro o servizio svolto nelle professioni creative si affianca a una remunerazione non misurabile di capitale simbolico e di reputazione all’interno delle reti professionali e non, che deriva dall’aver svolto quel lavoro o servizio.
Si potrebbe dire, ipersemplificando, che il meccanismo funziona più meno così: per farsi pagare bisogna trovare lavori, ma i lavori arrivano solo in presenza di una rete professionale solida nella quale sei stimato/a come professionista. E per costruire e coltivare questa rete bisogna mostrare prima cosa si è capaci di fare. Possiamo chiamarla “economia del dono”, se così va meglio. Perché se si ascoltano davvero i creativi si scoprirà che tra essi le fantomatiche “competenze” non si misurano con il cv, e non conterà poi molto una laurea più o meno prestigiosa. Ciò che paga è mettersi in gioco, direttamente e personalmente con una serie di skills che non sono solamente tecniche, ma anche estetiche, umane, empatiche, relazionali. Questo è ciò che rende questo lavoro “creativo”. Che esiste eccome, anche questo, non in quanto definizione feticcio, ma come discendenza etimologica del verbo “crescere”.
Di conseguenza, secondo punto: il lavoro gratuito è INEVITABILE in un sistema di questo tipo. Chi dice che non esiste, o ha vissuto in un’altra epoca oppure negli ultimi vent’anni ha fatto finta di non vedere e continua a farlo. Affinché il processo di cui sopra si inneschi è infatti necessaria una quota di “lavoro invisibile” che corrisponde largamente all’idea che abbiamo oggi di personal branding. In una ricerca sui freelance britannici (Randle e Culkin, 2009, in McKinlay e Smith, Working In The Creative Industries) un intervistato dice: “Fare il lavoro è divertente. Trovare lavoro è il lavoro”. Ecco il punto. Si fa offline, “facendo rete”, mantenendo relazioni; si fa online, con i molti strumenti ormai a disposizione.
La prima cosa che farà un potenziale cliente è “googlare” il freelance che sta valutando di assumere. Se non lo trova, o non gradisce ciò che trova, lo scarterà. Di conseguenza, sorry, ma il personal branding così descritto è lavoro a tutti gli effetti, è lavoro che serve a creare lavoro. E non è remunerato perché nessuno può remunerarlo, dal momento che il datore di lavoro è il lavoratore stesso.
Secondo: la condizione di sfruttamento, in ragione delle tesi di cui sopra, si combina ad una logica di auto-sfruttamento. Questo è presente in molte professioni (leggi anche: gli stagisti che stanno in ufficio molte più ore del dovuto nella speranza spesso vana di un rinnovo o di un contratto). Eppure, la professione creativa, come direbbero i vari Fumagalli e Bologna, si distingue in quanto ne mette a valore non già il tempo, materialmente quantificabile, bensì la parte più fragile e meno misurabile: la fiducia, il buon nome, come detto: la reputazione. Da qui deriva un sistema individualizzato che induce a non reagire, come il lavoratore rappresentato in questi spot.
Terzo: dove stava il sindacato quando serviva? L’individualizzazione sopra citata è tale oggi anche per ragioni, per così dire, istituzionali. Da una parte lo stato negli ultimi decenni ha emanato leggi spesso schizofreniche il cui unico effetto è stato complicare la già complicata rete di norme e regolamenti che afferiscono la dimensione del lavoro. Dall’altra parte, un sindacato di stampo novecentesco si è addormentato come un ghiro sulla fabbrica e ha ignorato queste dinamiche senza studiarle davvero e quindi probabilmente senza comprendere che esso stesso (il sindacato) era sotto attacco nella sua funzione di tutela, nell’ottica di un “tutti contro tutti” al miglior offerente.
Quarto: la cosa forse più interessante della campagna in sé, vale a dire la proiezione della figura del professionista creativo equiparata in toto a una certa “working class”. L’analogia regge fino a un certo punto, come sostiene di fatto Gianluca Diegoli quando dice che “l'idraulico risolve un problema urgente, immediato, tangibile, di cui tu non sai nulla. Il creativo o il freelance risolve un problema che non è urgente, immateriale e su cui tutti dicono la loro”. La soluzione è, forse, di fare gli idraulici e non i social media manager. Possibile. O forse, al di là delle definizioni e delle rappresentazioni della professione creativa come lavoro intellettuale, qui c’è un problema cruciale più ampio: ma di che classe di lavoratori stiamo parlando? A parere di chi scrive, questo è un punto cruciale, in quanto a essere rappresentata come working class è quella che fu middle class e che oggi è qualcosa di diverso e dannatamente più complesso, che non può essere ridotta e assimilabile all’operaio o all’idraulico o all’antennista, ma è qualcosa di specifico e peculiare.
La disgregazione della dimensione di classe “as we know it” sembra aver riportato a un’idea pre-industriale del lavoro che somiglia alla cottage industry, la produzione tessile nella Gran Bretagna preindustriale dove si lavoravano le stoffe in casa, ritratto di un freelance ante litteram. Tralasciando le teorie sociologiche ritengo che, sulle ceneri delle vecchie definizioni di classe, questo lavoro creativo ci stia facendo vedere la nascita di confini nuovi su questo tema, dove il minimo comun denominatore è la condizione di lavoratore della conoscenza. È tempo di riflettere più a fondo su questo tema, e presto.