L'Avversario

4 Giugno 2014

Racchiudere il tema più antico del mondo in centoquaranta pagine rappresenta già, di per sé, un’hybris che s’immagina quanto piacere procuri a uno come Arturo Mazzarella. Chi legge penserebbe di potersene sbarazzare con un’alzata di spalle; eppure, una volta concluso Il male necessario (Bollati Boringhieri, 2014), non potrà far altro che ammettere come la scommessa dell’autore – se non vinta – risulti ancora aperta. E, davvero, non è poco. Se una posta di tale portata resta in gioco, è in virtù di uno di quei “tagli” crudeli (è il caso di dire) cui negli ultimi suoi lavori – da La grande rete della scrittura a Politiche dell’irrealtà (a suo tempo presentato su questa sede) – egli ci ha abituato. (Va annotato, intanto, che l’apodittica perentorietà con cui queste risolute scelte di campo vengono operate rappresenta ormai, nella sua scrittura saggistica, una figura stilistica: che fa, di questo nuovo libro, un punto d’arrivo. La portata di detti “tagli” – che, ove riaperti, darebbero vita a non meno di dieci saggi di pari estensione, l’uno rispetto all’altro perfettamente alternativi – si può misurare già dalla bibliografia conclusiva, che va molto oltre i “casi” trattati dal saggio.)

 

Arturo Mazzarella, Il male necessario

 

C’è infatti, nella storia infinita del pensiero che ha pensato il Male, una «rivoluzione copernicana» dalla quale Mazzarella sceglie di prendere le mosse, deliberatamente mettendo da parte quanto la precede. È il 1793 quando Kant, nella Religione entro i limiti della sua ragione, opera questo capovolgimento-chiave: se per tradizione ci si è interrogati sulla natura del Male (giungendo a ipostatizzarlo in un Avversario persino iconograficamente connotato, un principio esterno e immensamente alieno: si pensi solo alla mitologia gnostica e al suo carsico influsso sulla cultura moderna e contemporanea) e sulla sua provenienza, sulle sue cause e sulle sue motivazioni (unde malum?, appunto, per dirla con Agostino o Boezio), Kant ci dice che il Male in realtà non arriva da “fuori”, da qualche agente esterno e inconoscibile (secondo una dinamica psichica riflessa oggi dal mito della Catastrofe, il Ce qui arrive di Paul Virilio – magari nella forma del mostro, del terrorista, dell’alieno appunto: l’irriducibilmente diverso, cioè), ma è prodotto unicamente dall’uomo. Il Male alberga dentro di noi, non fuori.

 

Anche se poi, aggiunge Mazzarella, Kant non porta sino in fondo la sua intuizione: la «tendenza al male» affonda le sue radici dentro di noi – per questo Kant la definisce «male radicale» – ma non, come voleva il filosofo, solo in alcuni: essa è invece connaturata a ciascuno di noi: alla natura umana nel suo complesso: all’uomo e alla sua volontà di sapere: al proprio implacabile confronto con se stesso. Baudelaire e Dostoevskij sono i primi grandi autori a porre questo confronto al centro della propria opera: e da quel momento non si torna indietro (in questo senso davvero si può dire che il male – il pensiero del male – è necessario: che rappresenti cioè, per pervertire un altro Kant, la «legge morale dentro di me»… strano che Mazzarella, che ne è sempre stato un fine lettore, tenga al margine della sua trattazione Leopardi, che in questo senso precede entrambi). In Senza scampo (L’irrémédiable) Baudelaire compie un giro di vite decisivo, quando riconosce quella che chiama «la coscienza nel Male» (così Raboni traduce la conscience dans le Mal) nel «colloquio limpido e oscuro / d’un cuore di sé fatto specchio»: cioè appunto nello sguardo che il soggetto osa gettare nell’abisso di sé, nel proprio cuore di tenebra. Il genitivo, in quella che Mazzarella opportunamente parafrasa come coscienza del male, è dunque tanto soggettivo che oggettivo (esattamente come sarà nella Cognizione del dolore di Gadda, che non a caso si fonda sul «male invisibile»): esplorando le nostre tenebre interiori noi incontriamo (e anzi, in un certo senso, compiamo) il Male; ma solo attraverso la conoscenza del Male, solo avendo con esso commerci delicati e anzi appunto dolorosi, potremo dire di aver conosciuto noi stessi.  

 

Eppure anche nell’autore delle Fleurs du mal – in ciò ambivalente figura di raccordo e snodo fra due epoche – permane un’oggettivazione, un’ipostasi esterna del Male: per esempio quando scrive che «È il Diavolo a tirare i nostri fili!» o che «Angoscia, dispotica e sinistra / va a piantarmi sul cranio la sua bandiera nera». Quando poi scrive che «la grazia dell’orrore non seduce che i forti», fonda quello che sarà nel corso della modernità (e in fondo fino a ora) lo stereotipo del Male come Trasgressione: frisson, moda hip o “avanguardia” che dir si voglia (si capisce come, per reagire a questo stereotipo, Mazzarella faccia un altro “taglio” doloroso, escludendo dalla sua prospettiva autori come Bataille, Breton, Leiris, Artaud, Genet e tutta la «funzione Sade»…).

 

Saranno due uomini del Novecento, in ogni caso, a fare il passo ulteriore e definitivo, nella rivoluzione kantiana messa a fuoco da Mazzarella. Il primo è Kafka, quando scrive che «solo il male ha coscienza di se stesso»: la ricerca di una risposta circa la sua colpa, da parte di Josef K., è appunto la sua colpa. La coscienza del male, come in Baudelaire, consiste appunto nella coscienza stessa (quella che già per Shakespeare – si ricorderà – intorbidava la «risoluzione», paralizzava la volontà, rinviava l’azione all’infinito; sulla riflessione kafkiana sul Male, e su come è stata ripresa dal pensiero novecentesco, è appena uscito un saggio assai notevole – a dispetto del titolo sbarazzino – di Carmelo Colangelo: Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi, Edizioni d’If, pp. 208, € 18,70). E allora non ha più senso, nel nostro tempo, cercare l’essenza del Male nelle figurazioni dell’Inferno – dalla Shoah ai CIE –: poiché esso, a ben vedere, è ovunque (e in nessun luogo). Ha ragione Mazzarella, in questo senso, a intitolare un suo capitolo «Il diavolo non esiste»: l’Avversario siamo noi. Come dice Ingeborg Bachmann commentando Proust, «il dimorare nell’orrore rende superflue le immagini dell’orrore». Lo dimostrano l’intera opera di Beckett, dove il male – la catastrofe – si presenta sempre come già avvenuto (secondo la dinamica psichica che Winnicott ha spiegato meglio di tutti); o quella di Ballard: dove esso s’innerva nel corpo, nella fisiologia dell’individuo come della società, al modo foucaultiano d’una microfisica del male.

 

Non lo dimostra affatto, invece, l’opera sopravvalutatissima di Michel Houellebecq (cui Mazzarella dedica ahimè decine di pagine entusiaste). La sua per me inspiegabile fortuna deriva proprio dalla banalizzazione cui sottopone la tradizione “avanguardistica” del Male come trasgressione “gratuita” (e la torsione cui Gide, Genet e Camus hanno sottoposto le intuizioni dostoevskiane): deprivandola peraltro dell’aggressività linguistica, formale, che di questa tradizione è correlato indispensabile (in quanto performativo). La lucidità sociale di libri come Le particelle elementari o Piattaforma è erede diretta della fenomenologia gelida, entomologica del primo Perec, quello delle Cose: il quale però si guardava bene dall’identificare, negli anni Sessanta, un qualche «Diavolo». Mentre Houellebecq (o, peggio ancora, Jonathan Littell: che applica il medesimo pantografo semplicistico al cuore di tenebra del Novecento) non fa altro che rovesciare il purismo, il conformismo del Bene – diciamo il Benismo – nel purismo, nella prevedibilità meccanica del Male – diciamo il Malismo. Lo si vede molto bene in un passo delle Particelle elementari fra quelli riportati da Mazzarella: quando Bruno, all’amante Christiane – dopo aver fatto sesso con lei, sconosciuta, in una Jacuzzi durante una partouze – sospira: «è stato qualcosa di purissimo». Capovolto a significare il suo contrario (il «desiderio sessuale allo stato bruto»), a venire impiegato è il più vieto lessico sentimentale e “buonista”.

 

È questo il punto più delicato del ragionamento di Mazzarella; nonché, a dispetto delle apparenze, il più attuale: il punto in cui si salda a quelli svolti da libri strettamente coevi, e solidali, come Critica della vittima di Daniele Giglioli e I Buoni di Luca Rastello (che idee non così dissimili, appunto, declina in una forma romanzesca aduggiata, però, proprio dal suo visibile essere “a tesi”). All’indomani del 1945, scrisse negli anni Sessanta Carl Schmitt, s’è assistito all’instaurarsi di una Tirannia dei valori – quelli che si sarebbero poi codificati come political correctness – che, estromettendo dal concerto sociale ogni pulsione contraria, finisce per attivare «punti di resistenza» (aggiunge con Foucault Mazzarella) che ci fanno provare attrazione per i loro inversi simmetrici: la pulsione per il Male, appunto, che si riscontra, endemica, nella cultura contemporanea – e il non meno stucchevole politically incorrect (bisognerebbe aggiungere sempre, in questi casi, che di cultura occidentale stiamo parlando). Un male «atonico», “debole”, inoggettivato e inessenziale – ma non per questo meno pericoloso e micidiale –, come quello rappresentato da Gus Van Sant in Elephant: che ha macchiato di un sangue senza senso, e senza oggetto, le cronache di paesi come gli Stati Uniti e la Norvegia. È insomma proprio in nome del Bene, conclude Mazzarella, che il nostro tempo concepisce – e talora realizza, purtroppo – il Male. Si potrebbe dire, capovolgendo la celebre formula con la quale Mefistofele si presenta a Faust in Goethe (e che Bulgakov pose a esergo del Maestro e Margherita), che oggetto della critica di questo saggio è quella forza che vuole sempre il bene – ma produce sempre il male. È l’ironia, sferzante, che in un’occasione memorabile impiegò Philip K. Dick: quando nel romanzo Eye in the Sky, del 1957, i personaggi si trovano prigionieri del Paradiso sognato da uno di loro, e ciascuno scopre che esso coincide, per sé, esattamente con l’Inferno.

 

È in questo tipo di ragionamento, sia detto per inciso, che trova la sua ideologicissima giustificazione il programma quietista dell’attuale politica “democratica”, l’ideologia dominante in Occidente (e non sarà un caso, intanto, se proprio Dick finirà per abbracciare un’ideologia quanto meno moderata). Se le “altre” ideologie (le uniche che vengano definite tali, beninteso), quelle che hanno perseguito il bene comune – sino a pretendere di imporlo, ai popoli cui era destinato – non hanno prodotto altro, nel Secolo Breve, che il Male Assoluto – il programma del Secolo Seguente non potrà che farsi bastare, viceversa, il mantenimento, la manutenzione dello status quo. Ogni idea di progresso, di emancipazione e di libertà trova sul suo cammino – da almeno un ventennio ad oggi – questa obiezione radicale. Questo alibi, cioè.

 

Ma siamo proprio sicuri che Mefistofele menta, a Faust, quando di sé dice che è «parte di quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il bene?». Mazzarella conclude il suo saggio citando parole di Lacan: «Non c’è legge del bene se non nel male e attraverso il male». Parole che mi sento di condividere, ma in un senso piuttosto diverso da quello che pare attribuire loro Mazzarella. Sarà allora il caso di rimontare oltre Lacan: di ritornare a Freud. È lui infatti, insieme a Kafka, l’altro grande investigatore moderno del Male. È lui che ci ha insegnato come la Pulsione di Morte sia il lato in ombra, il correlato ineliminabile del Principio del Piacere. Che Bene e Male, cioè (nella prospettiva psichica, coscienziale, di cui sopra), non possono essere disgiunti. Ma se è vero che il Male si affaccia sempre, ironico revênant, dietro ogni nostro desiderio di Bene – è vero anche il contrario. Ipostatizzare l’uno (lo si mostrava sopra, coi casi Houellebecq e Littell) non ha maggior senso di quanto ne abbia, come assai più spesso si fa, ipostatizzare l’altro. E così, in Kafka, le immagini di Bene – sospinto magari in una tormentosa, sisifea irraggiungibilità – si alternano sempre, irridenti, all’immanente, tangibilissima sfera del Male entro la quale conduciamo la nostra esistenza. E il Principio del Piacere (o il piacere del principio, come amava parafrasare Andrea Zanzotto) si alterna – irresistibile Ripresa kierkegaardiana – con la Pulsione di Morte. Si origina da essa, anzi: proprio come, allusivamente, sostiene Mefistofele.

 

Non si può dire, allora, che l’arte contemporanea assuma, come sostiene Mazzarella,  un «radicale disimpegno etico»: è vero esattamente il contrario. Uno dei passaggi più incisivi del Male necessario consiste nella lettura di un film tormentoso di Michael Haneke (quest’altro grande, e kafkiano, indagatore del male contemporaneo) come La pianista. Ma si pensi, per contro, alla parabola esemplare cui si assiste in Amour, dello stesso autore. La concreta, tangibile, quotidiana esperienza del male – la perdita del corpo della persona amata, il silenzio della sua carne – si riscatta da un lato, sul piano del simbolico, col sogno della sua riapparizione (Jean-Louis Trintignant che immagina di ascoltare di nuovo Emmanuelle Riva – paralizzata invece nella sua stanza – suonargli Schubert sul pianoforte di casa) ma dall’altro, sul piano appunto etico, con la scelta lacerante di porre fine al Male Maggiore, la morte in vita, col Male Minore, la cessazione di quella sopravvivenza torturante. Proprio perché conosce – sperimenta intus et in cute, nel concreto della propria stessa materia vivente – la coesistenza, l’intreccio inestricabile di Bene e Male, l’individuo contemporaneo è chiamato a un “impegno” stremante quanto inapparente, sostanziale quanto inesibito e, al limite, inespresso. L’impegno di scegliere – di far prevalere l’uno sull’altro. Ma questo solo, a ben vedere, gli consente di sopravvivere: una volta che abbia preso atto – ma preso atto davvero – del fatto che, così come è impossibile attingere su questa terra al Sommo Bene, l’esistenza umana non si conduce neppure – non si può condurre – nel Male Assoluto.

Né angeli né demoni. Siamo creature impure, informi, mescole di contrari che si attraggono e si respingono, in un ciclo disordinato e furibondo. È questa la vita terrestre, sì; ma un’altra, che la redima, non ce n’è.

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