Le immagini, luoghi antropologici
Un uomo nascosto e protetto da una veste. Un cingolo di lana bianca che gli chiude la vita. Le mani nascoste alla vista e al mondo. Solamente il viso emerge da questa tanto leggera quanto insondabile armatura religiosa. Si tratta di un volto mai visto, mai incontrato, universale. Nel profondo dello sconosciuto, balugina un frammento di immediata e condivisa conoscibilità. San Francesco dipinto da Francisco de Zurbarán. Il corpo del santo, dipinto come vivente, si staglia su di un fondo scuro e anonimo, mentre gli occhi si levano al cielo e, contemporaneamente, si eclissano dietro le palpebre. Un paradosso visivo si infiltra negli occhi del santo. La visione necessita della cecità per vedere.
Francisco de Zurbarán, San Francesco d’Assisi, 1659 circa, olio su tela, Lione, Musée des Beaux-Arts
Una visita in un museo offre molti incontri, e tra questi, quello con i “luoghi” che affiorano e che si spaziano al suo interno apre molte questioni. Quando si sta di fronte a un dipinto non si è certo davanti ad una semplice cosa, ma a un intricato sistema di relazioni e di risonanze.
Un’altra scena, un altro luogo. Un volto. Marmoreo, indefinito, antico. Emerge delicatamente da un fondo vellutato e, chiuso in una teca, resta lontano da noi. L’installazione museale non lo violenta, ma lo conserva insistendo sulla componente storicistica. Il volto continua a sorgere, ad ogni nostro sguardo, ripresentandosi come nuovo, anonimo. Masque de femme, recita una didascalia poco utile. Percorrendo le linee eleganti che donano un rilievo alla realtà, l’occhio si sorprende cullato da una liscezza che lo accompagna sempre all’esterno, che lo fa scivolare via, verso il velluto che nessuno riesce a vedere. Ma se percorso deve essere, esso inizia allora sempre in un punto, là dove l’occhio accarezza inizialmente la scultura, dove la pizzica, cercando di farne un luogo sicuro, di ritorno e di ancoraggio. Questo contatto si situa esattamente all’incontro tra il momento dell’ispirazione e quello dell’espirazione, nella sospensione che si trattiene tra vita e morte. Francesco Laurana ha fissato nel marmo i dolci tratti di una giovane donna, frutto di un’invenzione o, molto più semplicemente, di una realtà naturale lavorata ed ingentilita.
Francesco da Laurana, Masque de femme, ultimo quarto XV sec., marmo, Chambéry, Musée des Beaux-Arts
Il museo è, per antonomasia, luogo di immagini culturali sedimentate e che necessitano di una riattivazione per sopravvivere. Ma le stesse immagini sono “luoghi”, pellicole visive che tremano e si tendono, donando profondità a ciò che il mezzo fisico supporta.
Il San Francesco di Zurbarán diventa così un luogo geologico ed esistenziale. Se è pur vero che l’opera è stata ideata in un certo momento storico (verso la fine degli anni Cinquanta del XVII secolo) e con una certa finalità (forse dipinto per un convento di Madrid e successivamente donato dalla regina Maria Teresa di Spagna al convento francescano di Lione), l’opera si presenta all’incrocio di tempi che differiscono e che provengono da lontano. Allo stesso modo, la maschera di Francesco Laurana, che forse è un frammento di un’opera più grande, probabilmente una maschera funeraria (ma quegli occhi non completamente chiusi lasciano un dubbio), attraversa i tempi, prima ancora di attraversare i secoli.
Due scene, due momenti. Due immagini nelle quali l’identità delle singolarità rappresentate intercetta tempi in continuo divenire, tempi provenienti da lontano e tempi strettamente contemporanei a noi spettatori. Vi è il tempo del personaggio raffigurato, quello dell’artista che lavora l’immagine, quello della stasi dell’immagine, quello del continuum temporale che quell’immagine incontra. Si insinua, come percezione incisoria, il nostro tempo, battito vivificante, ma anche quello lontano del futuro. Un’immagine rappresenta molto di più della somma di questi istanti: è vera temporalità complessa, condensata. Anacronismo delle immagini, dove il senso viene tratto da un tempo e da un luogo lontani dall’artista e dalla sua contingenza. Eppure quel volto e quel corpo vivono in quell’immagine, in quella visione e sono, eminentemente, viventi. San Francesco è dipinto in vita; nell’immagine nulla lascia intendere una mortalità. L’estasi avviene davanti ai nostri occhi poiché essa è incarnata nell’immagine vivente che si rinnova senza fine.
L’essere umano fa parte integrante di queste immagini poiché esse non lo lasciano mai, lo avvolgono in anticipo rispetto alla prima occhiata, lo tengono già al suo interno, per esplodere in seguito ad ogni sguardo. L’immagine riguarda l’uomo e non può lasciarlo tranquillo: la lunga riflessione di Georges Didi-Huberman non è altro che un continuo emozionarsi davanti ad ogni immagine, come confessato in un’intervista rilasciata a Pierre Zaoui e Mathieu Potte-Bonneville (il titolo originale francese recita “S’inquiéter devant chaque image”[1]dove il verbo “inquiéter” dichiara tutta la preoccupazione, l’inquietudine che rappresenta il sentimento pieno dello spettatore). L’immagine segue l’uomo, lo abita, lo ossessiona e diventa necessariamente qualcos’altro. Poco importa se questa insistenza può essere attenuata, divenendo cosa utile o se, al contrario, vi si soccombe senza via di scampo. L’uomo ha bisogno di immagini.
Da questa necessità si dipana quella che viene definita storia dell’arte e che non sembra aver un inizio certo e localizzato. Essa nasce, forse, con l’uomo stesso e con quelle immagini endogene che lo accompagnano nelle caverne (e sulle pareti delle quali egli proietta, con apposite protesi, quelle sue compagne di vita e i propri desideri).
L’uomo, quindi, è “naturalmente” luogo delle immagini. È proprio da questa considerazione che prende avvio il testo di Hans Belting, Antropologia delle immagini (Carocci, 2011, pp. 340, € 32,00) per delineare quella che è la necessità della riflessione contemporanea intorno alla questione dell’immagine: “la questione deve essere urgentemente indirizzata verso una fondazione antropologica dell’immagine nel territorio dello sguardo umano e dell’artefatto tecnico” (ivi, p. 30). Si tratta quindi di ripensare lo statuto delle immagini immergendolo direttamente nell’esperienza percettiva e fattuale che esse creano e veicolano. Non è vero che noi spettatori, spesso statici ed ininfluenti, liberiamo i nostri fantasmi e le nostre fantasie solamente attraverso una proiezione. Il nostro corpo rientra in questa direzionalità creando una triangolazione fatta di tre elementi: l’immagine, il mezzo e il corpo. Ecco che, allora, il nostro sguardo portato su di un’opera crea uno spazio triangolare nel quale i tre agenti vivificano un’arte già mediale, mostrando le reciproche implicazioni in una logica dove la dualità cartesiana di soggetto-oggetto viene a sfaldarsi. Non c’è più un soggetto onnipotente che guarda un oggetto inerte, ma un sistema dove ogni elemento agisce sull’altro, a tal punto che questo complesso non può essere valutato se non nel suo insieme.
Il corpo dell’uomo viene quindi investito da questi movimenti che vedono il corpo coinvolto attivamente e obbligato a recitare un ruolo importante nel lavoro delle immagini. Il corpo, infatti, è “un luogo del mondo […] dove le immagini vengono prodotte, conosciute e riconosciute” (ivi, p. 74). Luogo di ricezione di immagini esterne (concretate nel mondo) e di immagini specifiche (interne, transitorie), il corpo dell’uomo viaggia e si sposta con tutto il proprio portato, veicolando immaginari che emigrano e si scontrano con altri immaginari, portando a supremazie, violenze colonialistiche, sincretismi. Il luogo di immagini che l’uomo è diviene corpo politico e simbolico, portatore di novità e luogo di violenze. Ma anche luogo dove le immagini collettive sopravvivono alla perdita dei luoghi culturali, attivando un lavoro che i sogni e le visioni scolpiscono quotidianamente e personalmente. Ecco apparire uno schermo, tanto personale quanto comune, dove appaiono scene, frammenti di realtà che si rivolgono a noi in quanto siamo già dentro di essi.
Ecco che fare un’antropologia delle immagini significa non sbarazzarsi dei corpi, ma mantenerli all’interno di essa come soggetti e non solo come veicoli. Se il corpo, in un certo periodo, entra in una crisi della rappresentazione, passando attraverso le reliquie, le effigi, il realismo anatomico, esso riesce ad essere tanto corpo, quanto immagine e mezzo. Esso modifica il proprio statuto e le proprie peculiarità fino all’apparizione della fotografia che è “un luogo di immagini incerte, per cui, d’altro canto, è anche un luogo incerto per le immagini” (ivi, p. 260), che ridona al corpo tutta la sua dimensione sospesa, opaca. Se il corpo pittorico di San Francesco è tutto visibile, ed eppure, già partito, non più lì (corpo metafisico) e lo scultoreo corpo della donna di Francesco Laurana è un frammento, tangibile nella sua materialità e sfuggente nella sua lettura (corpo concreto), con la fotografia entriamo in un altro campo. Sulla copertina di Antropologia delle immagini appare un uomo curvato su se stesso a causa del peso di uno strumento fotografico e dell’attenzione che egli dona al lavoro che sta eseguendo. In secondo piano un’altra figura passa senza donare grande importanza a quello che sta per accadere. Il fotografo è Alfred Stieglitz, l’autore dello scatto è anonimo come, d’altro canto, l’uomo che passeggia sul ponte. Stieglitz si è arrampicato su questo corrente del ponte e la sua posizione è pericolante, mantenuta in equilibrio dal baricentro e dal lavorio dei piedi chiusi in scarpe usurate. In questa fotografia tutto è instabile eppure, la certezza di un’istantanea, del suo T0, ci permette di guardarla senza temere per la sua vita. Un breve istante di certezza opaca, al fondo di un’instabilità che parla della nostra condizione umana. Noi, spettatori della scena, ammirati e poco rilevanti al fine della scena. Ma pur sempre partecipi di quel complesso che è l’opera d’arte alla quale apparteniamo.
[1]Georges Didi-Huberman, S’inquiéter devant chaque image,entretien réalisé par Mathieu Potte-Bonneville et Pierre Zaoui, «Vacarme»,37, automne 2006, pp. 4-12 (trad.it Georges Didi-Huberman, Emozionarsi davanti a ogni immagine, intervista a cura di Pierre Zaoui e Mathieu Potte-Bonneville,«Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica», 1, 2007).