Vertigine, riti e rituali a Parigi
Fino al 25 marzo, la Maison Européenne de la Photographie di Parigi presenta un blocco di cinque mostre, distribuite nelle sale dell’edificio posto in Rue de Fourcy, nel quarto arrondissement della città.
Nella Vitrine, locale tanto esposto ai passanti, quanto intimo all’interno, è possibile incontrare Les quatre saisons, piccola esposizione di cinque lavori del 2010 che colgono istanti ed incroci di Parigi sostenendosi sul fattore T. Nonostante la semplicità dei luoghi, Götz Göppert sveste i cliché del fare fotografico, riallacciandosi fenomenologicamente alla visione percepita dall’occhio umano. Immagini concepite da un occhio solo (si tratta pur sempre di fotografie “classiche”) che donano, però, una forte sensazione di prospettiva umana, non scientifica o geometrica, ma vissuta, corporale. Un centro, quasi bifocale, e un collegamento che diviene sempre più marcato verso gli estremi (le spalle o le cosce si allargano formando degli archi deformati). Göppert coglie l’attimo ma lo fa riportando tutta l’intensità del vissuto, smarcandosi dalla bellezza orientale dell’istante di Cartier-Bresson. Fotografie pesanti che non sono altro che visioni che chiunque tra di noi potrebbe avere di Parigi, ma che terremmo preziosamente custodite senza condividerle con nessuno, proprio per paura di perdere la loro insita specificità.
Götz Göppert, Automne, Paris, 2010
Götz Göppert, Été, Paris, 2010
Götz Göppert, Printemps, Paris, 2010
Götz Göppert, Hiver, Paris, 2010
Qualcosa di ritualistico abita invece le opere di William Ropp. Le sculpteur d’ombres occupa i locali della sala Hénault de Contobre, offrendo una rassegna di momenti rubati (o salvati, riproposti) da bizzarre e dimenticate pratiche ancestrali. Merli stretti da giovani mani ed alzati al cielo (o, a noi, osservatori privilegiati ed anonimi), anatre coccolate e possedute, colme di terribili sguardi. Bocche: spalancate in ispirazioni demoniche, oppure pronte ad assalire il proprio partner (in un bacio che sa più di morte che di amore), ma anche bocche ermeticamente chiuse che diventano invisibili, dimenticate, prive di qualsiasi interesse, fuorché quando si tratta di bocche femminili. Queste ultime non scivolano via, ma si ancorano a qualche appiglio memoriale, proprio perché sono bocche feconde, aperture che mantengono una ricchezza che mai potrà essere utilizzata.
William Ropp, Claire, 1994
William Ropp, Garance, 2000
William Ropp, Micha, Prague, 1994
William Ropp, Orphelinat, Russie, 2008
William Ropp, Sans titre, 1993
La personale di Dominique Issermann viene, invece, totalmente consacrata a Laetitia Casta. La meravigliosa attrice francese viene talmente spogliata dall’occhio e dal desiderio del fotografo al punto di obbligare questi due dispositivi al racconto di una storia. Un racconto di un bagno sensuale dove tutto è perfetto: l’avvicinamento, la preparazione, l’abbandono. Un momento di intimità che non viene disturbato da alcunché e che si appresta rapidamente a terminare. Ma il vero abbandono interviene proprio quando la doccia si conclude. La Casta si stende, si lascia andare, si apre. Si gira più volte su se stessa per poi cascare dal sonno. Punto liminale: i suoi capelli (che formano onde, riflessi, allucinazioni). Si incontra qui il sogno ma ciò che manca è proprio l’aspetto sognante. Il corpo si ritrova, infatti, immerso in una grande quantità d’acqua ed esso sente il proprio peso come, d’altro canto, la mancanza d’aria. Gioca, inizialmente, per poi cercare una via di fuga dall’insopportabile pressione idraulica, dalla perdita di presa della realtà onirica. Il sogno fallisce, la preda scappa, ritrovando la luce, l’aria e i riferimenti spaziali. Un ultimo bacio ed un’immagine finale che svela, forse, che di sogno non si trattava. L’acqua scorre, secca.
Dominique Issermann, Laetitia Casta
La mostra centrale, Eloge du vertige, si rivela, invece, piuttosto deludente. Supportata da due linee storico-tematiche (il modernismo dei maestri della fotografia brasiliana degli anni Cinquanta-Sessanta e le sperimentazioni “politiche” dei giovani artisti), i curatori Eder Chiodetto e Marie Hippenmeyer vi presentano una selezione estremamente eterogenea di opere provenienti dalla collezione dell’Istituto Itaú Cultural. Le opere, accuratamente centellinate, di Geraldo de Barros, José Yalenti, Georges Radó, German Lorca ed Eduardo Salvatore, mostrano gli effetti del Dadaismo e del Surrealismo trasportati in Brasile, attraverso l’attenzione per la forma, ripetitiva e sensuale, dalla quale fioriscono meccanismi repressivi contrastati da ingarbugli liberatori e sessuali. Ispirandosi e, in alcuni casi, opponendosi al Modernismo, i giovani fotografi brasiliani qui rappresentati si soffermano sulla modernizzazione del loro Paese e sulle vorticose forze che ne intaccano il passato. Il Brasile d’oggi con le sue metropoli esagerate, la varietà sessuale e l’ipercolorismo è la modalità espressiva di Tony Camargo, Marcelo Silveira, Marcia Xavier e Guilermo Maranhão: estetica che eccita l’occhio ma che si stempera lasciando emergere, poco alla volta, la critica degli abusi della tecnica. Ma anche un’altra faccia del Paese, che va dalla fascinazione per la cultura indigena (Mario Cravo Neto) a quella oscura, criptica e comune ad ogni civiltà delle Notas di Breno Rotadori.
Claudia Andujar, Écroulement du Ciel, de la série Rêves Yanomami, 1976-2002
Mario Cravo Neto, Le Dieu de la tête, 1995-2001
Geraldo de Barros, Photoforme, Pampulha, Belo Horizonte, 1951
Cris Bierrenbach, Sans titre [cils], 2008
João Castilho, Sans titre, de la série Tourbillon, 2006
Corteggiare il cinema per destituirlo dalla sua specificità cinematica: Youssef Nabil esige che il suo mondo preferito, quello delle immagini in movimento, gli restituisca l’unicità non riproducibile di ogni volto. Una mostra priva di titolo ma completamente dedicata agli scatti dell’artista egiziano, chiude il percorso espositivo della Maison. Concependo l’arte del ritratto come punta di diamante dell’invenzione fotografica, egli sente la necessità di intervenire manualmente sulle stampe, per dare il colore, restituendo un incarnato perduto. Un passato incastonato che non vuole sentire ragioni di passare, di aggiornarsi. Volti comuni citano icone della storia, mentre universali “nomi” del cinema subiscono un sottile gioco di messe a nudo che impediscono una riconoscibilità iconica ma che, malgrado ogni sforzo, tende sempre a sopravvivere, a fluire come linfa bloccante.
Youssef Nabil / Courtesy Galerie Nathalie Obadia, Paris/Bruxelles, Catherine Deneuve, Paris, 2010
Youssef Nabil / Courtesy Galerie Nathalie Obadia, Paris/Bruxelles, Charlotte Rampling, Paris 2011
Youssef Nabil / Courtesy Galerie Nathalie Obadia, Paris/Bruxelles, CINEMA, self portrait, Florence 2006
Youssef Nabil / Courtesy Galerie Nathalie Obadia, Paris/Bruxelles, Say Goodbye, Self portrait, Alexandrie, 2009
Youssef Nabil / Courtesy Galerie Nathalie Obadia, Paris/Bruxelles, Self portrait, Istanbul, 2009