Cent'anni senza / Le mani di Rodin
Mai corpo umano è stato così raccolto attorno alla parte più profonda di sé, così piegato dalla propria anima e di nuovo risollevato dal vigore elastico del proprio sangue. E quel lieve staccarsi del collo dal corpo che sprofonda di lato, quel tendersi a levare la testa in ascolto verso il lontano mormorio della vita, è raffigurato con una sensibilità così grande e penetrante che non viene alla mente nessun altro gesto più commovente e più interiorizzato. Colpisce il fatto che manchino le braccia. Rodin le considerò in questo caso una soluzione troppo facile del suo compito, qualcosa di non appartenente a quel corpo teso a ravvolgersi su se stesso, senza aiuto estraneo. Subito si pensa alla Duse, quando, in un dramma di D'Annunzio, dolorosamente abbandonata, tenta di abbracciare senza braccia e di trattenere senza mani.
Quella scena in cui il corpo imparava un abbraccio che trascendeva i propri confini, appartiene ai momenti indimenticabili della sua arte. Riusciva a dare l'impressione che le braccia fossero un qualcosa di superfluo, un ornamento, un lusso da ricchi e da smodati che si poteva gettare lontano da sé per essere totalmente poveri. In quel momento non sembrava una creatura privata di qualcosa di essenziale; piuttosto, uno che regala la sua coppa per bere da un ruscello, uno che è nudo e ancora un po' incerto nella sua profonda nudità. Così è anche per le statue senza braccia di Rodin; non manca loro nulla di necessario. Le si considera come un qualcosa di compiuto, un tutto che non ammette integrazione alcuna. Il senso del non finito nasce da una riflessione puntigliosa, non dal guardare spontaneo: nasce quando una meschina pedanteria rammenta che un corpo non può non avere le braccia, che un corpo senza braccia non può dirsi completo, in nessun caso.
Non è passato molto tempo da quando si criticavano, per lo stesso motivo, gli alberi degli impressionisti tagliati dalla cornice; eppure ci si è rapidamente adeguati a questo effetto, si è imparato a capire e a credere, quanto meno per la pittura, che un tutto artistico non necessariamente deve coincidere con il tutto usuale dell'oggetto e che all'interno de quadro nascono nuove convergenze, svincolate da ogni dipendenza, nuovi accordi, nuovi rapporti, nuovi equilibri. Anche in scultura non è diverso. L'artista ha il compito di trarre da molte un'unica cosa e di creare un mondo dal più piccolo frammento di una cosa.
Nell'opera di Rodin ci sono le mani, piccole mani autonome che senza appartenere a un corpo, hanno vita. Mani che si levano, irritate e rabbiose, mani le cui cinque dita sembrano abbaiare come le cinque gole di un molosso infernale. Mani che camminano, che dormono, mani che si ridestano; mani delittuose, gravate da tare ereditarie, e mani stanche, senza più volontà, che si sono accasciate in qualche angolo come animali malati, e sanno che nessuno verrà loro in aiuto. Ma le mani sono pur sempre un organismo complesso, un delta in cui molta vita confluisce da lontane origini per riversarsi nella grande corrente dell'azione. Le mani hanno una storia, un cultura, un particolare bellezza; si concede loro il diritto di avere un proprio sviluppo, propri desideri, sentimenti, capricci e passioni.
E in virtù dell'educazione che egli stesso seppe darsi e ben sapendo che il corpo consiste unicamente in luoghi di vita, una vita che in ogni punto può divenire grande e individuale, Rodin ha il potere d'infondere in ogni parte di questa vasta superficie vibrante, l'autonomia e la pienezza di un tutto.
Per Rodin il corpo umano è una totalità solo nella misura in cui un'azione comune (interna o esterna) renda vigili tutte le sue membra e le sue forze; d'altro lato, anche parti di corpi diversi, unite l'una all'altra da una necessità interiore, si dispongono per lui in un tutto organico. Una mano che si appoggia su un'altra spalla o su un'altra coscia non appartiene più totalmente al corpo da cui proviene: da essa e dall'oggetto che tocca o che afferra nasce una cosa nuova, una cosa potenziata che non ha nome e non appartiene a nessuno; e il punto è proprio questa cosa, con i suoi rigorosi confini.
Da Rainer Maria Rilke, Rodin, SE 2004.