Learco Pignagnoli e/o Daniele Benati: un artigiano della narrazione
“Quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma” (Karl Kraus, 17 dicembre 1908)
Nonostante i pochi libri all’attivo (solo quattro nell’arco di un ventennio), Daniele Benati è uno dei migliori scrittori italiani contemporanei. Solo che nessuno lo sa. Forse nemmeno lui. Questo perché Benati vive e lavora istintivamente, non ideologicamente, in aperta controtendenza rispetto alle peggiori abitudini della nostra epoca, che investono purtroppo anche la cultura e l’editoria.
Benati non si pubblicizza, non appare in video, non ha profili social di alcun tipo, non esprime il proprio giudizio sull’argomento del giorno. E tutto questo non per falsa modestia, per disinteresse o disimpegno, né per misantropia o tantomeno per assumere i panni, falsissimi, del Salinger o del Pynchon italiano (scrittori che pure ammira). Lo fa perché gli viene così, perché detesta le parole ammiccanti. Scrivere per lui è un’attività minima e onesta, pratica e artigianale, come costruire un muretto, intagliare il legno o cucire un vestito. È un artigianato che può diventare arte, ma anche questo non so se a Benati interessi: è già una grande conquista che la narrativa sia artigianato; che diventi arte forse è pure troppo, adesso non esageriamo.
E come per ogni artigianato che si rispetti, nella scrittura di Benati si vede tutta la perizia, la pratica, lo studio: nelle scelte stilistiche e lessicali e, soprattutto, nel tono di voce che decide di assumere come narratore e per i suoi personaggi. Un’abilità che gli viene sia dalla lunga esperienza come traduttore (in molti ricorderanno le sue versioni di Flann O’Brien e James Joyce, ma anche di Ring Lardner e, più di recente, di Miriam Toews), sia dai molti anni dedicati allo studio e all’insegnamento negli atenei di mezzo mondo, dal MIT di Boston alle Università di Galway, Cork e Budapest. Naturalmente, lui preciserebbe d’aver insegnato anche “nelle peggiori scuole di Reggio Emilia”. Ma proprio in questa mescolanza “dantesca”, tra apparentemente alto e apparentemente basso, c’è tutto Benati.
Questa lunga ma necessaria premessa è per dire che non sono poche le affinità tra Benati e il suo eteronimo Learco Pignagnoli. Nato, si legge nel risvolto di copertina, “a Campogalliano e a San Giovanni in Persiceto” e tutt’ora impiegato presso una non meglio specificata ditta Scoppiabigi e Figli, “dove tiene dietro al loro lupo”, Pignagnoli è scrittore, aforista, filosofo e, come ha ricordato Giulia Sarli, anche pittore. Fondatore e primo esponente dell’assenzialismo (il movimento che “sceglie il non esserci come pratica quotidiana”) è l’autore di questa seconda edizione delle ormai introvabili Opere complete di Learco Pignagnoli, uscite per la prima volta per Aliberti nel 2006.
Un libro che è un paradosso fin dal titolo: Opere complete di Learco Pignagnoli e altre Opere complete. Le “Opere complete” sono tali per definizione: cosa ci sarà dunque da completare ancora? Interpellato in proposito, Benati non è di alcun aiuto, continuando a sostenere che lui, in questo libro, non ha scritto niente. La cosa non ha comunque impedito a Quodlibet di farne una riedizione, oltretutto accresciuta e quasi raddoppiata (425 opere contro le precedenti 245), a cui si aggiungono il romanzo autobiografico Giacomo, un gruppo di poesie e un testo teatrale.
Il libro di Pignagnoli-Benati esprime la propria dimensione comica proprio nelle forme del paradosso, del nonsense, della battuta arguta, del surreale che ribalta il quotidiano campionario di frasi fatte dietro cui ci trinceriamo e su cui proliferano intere professioni, istituzioni, burocrazie. E allo stesso tempo ogni “opera” è un romanzo breve o brevissimo, quasi un appunto che potrebbe ampliarsi all’infinito. Ciò produce in chi legge uno scatenamento dell’immaginazione potenzialmente senza fine.
Per ogni opera, c’è da restare di stucco: si rischia, calmato il riso suscitato dalla storia, di rimanere per ore a fissare la pagina che va sgranandosi alla vista, pensando ai molti romanzi, alle molte storie che ogni piccola opera suggerisce, in quella sintesi perfetta tra delirante saggezza e abissale profondità che mostra la maestria del Benati scrittore e restituisce tutta la sua capacità liberatoria, in questo continuo scardinamento dei luoghi comuni e delle scorciatoie del pensiero.
Gli aforismi di Pignagnoli colpiscono in particolar modo l’industria culturale, con i suoi riti, le sue cerimonie, i suoi premi, la sua autoreferenzialità. Pignagnoli mette alla berlina la cattiva coscienza degli scrittori, il continuo ricorso all’autobiografismo, l’appiattimento sulla realtà (il “tratto da una storia vera”), fino alla foto in bianco e nero che ammicca dalla quarta di copertina, con l’autore (preferibilmente maschio e brizzolato), che di regola vive “tra New York e Parigi”.
La comicità di Pignagnoli nasce dagli accostamenti imprevedibili, tra ragionamenti che non vanno da nessuna parte e altri talmente lineari da far paura. È un tipo di comicità che ricorda i ragionamenti mattoidi del Don Chisciotte di Cervantes, ma anche le modeste proposte di Swift e il Leopardi delle Operette morali, a cui il libro sembra ammiccare fin dal titolo (dico “sembra” perché non so che cosa ne penserebbe l’autore, si tratti di Pignagnoli o di Benati). La voce dietro queste Opere complete e altre Opere complete è però inconfondibile: è il tono di uno strumento accordato a orecchio nelle forme di un dialetto che si è mescolato nel tempo alle frasi dell’inglese e del gaelico, producendo un arricchimento linguistico e immaginativo che si nota soprattutto quando si ha la fortuna di ascoltare queste opere lette ad alta voce in pubblico.
Ma, più di tutto, leggere Pignagnoli è una liberazione e una goduria. Questi suoi sproloqui, pensieri strampalati, pistolotti, sono così esilaranti e inarrestabili, così dissacranti e volgari, da provocare sconcerto in chiunque possa ritenersi serio e rispettabile. Perché Pignagnoli prende di mira tutto e tutti, persino se stesso. È un affronto al nostro mondo attuale, un potente antidoto alle frasi fatte, al pensiero che si fossilizza nella chiacchiera, al nostro sano e rassicurante conformismo. Alla fine si è come pervasi da un senso di smarrimento e, insieme, di sollievo, perché all’improvviso la nostra “ordinata” e “giusta” società, con tutte le sue regole, ci appariranno d’un tratto completamente prive di senso.
Insomma, verrebbe quasi da mettere in guardia lettori e lettrici: fate attenzione a dove vi trovate mentre leggerete queste Opere complete di Learco Pignagnoli e altre Opere complete. Il rischio è quello di scoppiare a ridere da soli a ogni pagina e di ricevere di conseguenza occhiatacce e rimproveri dalle persone serie che vi circondano, che non capiranno cosa ci sia di tanto divertente. Se, ad esempio, siete in treno o in sala d’attesa, oppure in biblioteca, nel silenzio generale, vi capiterà spesso di produrre risate fragorose e incontenibili, certo di grande disturbo per la quiete generale. Ed è inutile trattenersi, perché è anche peggio.