Antonioni nello Spazio. Ferrara omaggia il suo Maestro
“Ho lasciato Ferrara molti anni fa con un bagaglio di affetti e di immagini che ho portato sempre con me ovunque sono andato”.
È finalmente aperto e visitabile a Ferrara lo Spazio Antonioni, luogo interamente dedicato agli straordinari materiali, oltre 47mila pezzi, che la città aveva acquisito dal Maestro nel 1995 con l’idea di farne un museo e che per varie vicende non erano mai stati esposti, con la sola eccezione di una meritevole mostra a Palazzo dei Diamanti, nel 2013, che poi fece il giro d’Europa (Lo sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti). Appena entrati, ci si trova immersi nel mondo del regista, come se si entrasse in una sua casa-laboratorio o nella sua mente, precocemente affetta da una passione smisurata per il cinema e a contatto con il mondo letterario ferrarese: fogli di album con cartoline di attori e attrici che Antonioni collezionava da giovane, da Stan Laurel e Oliver Hardy, da Louise Brooks a Audrey Hepburn, da James Dean a Marlon Brando, da Anita Ekberg a Sophia Loren; la racchetta con cui Antonioni sfidava Giorgio Bassani e Lanfranco Caretti nei campi del Tennis club Marfisa e i risultati del torneo vinto con loro e altri da Antonioni; un suo ritratto a matita di Greta Garbo; una copia del romanzo d’esordio di Bassani, Una città di pianura, pubblicato con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, con dedica dell’autore a “Nino” – nomignolo di Antonioni – del 12 agosto 1940; una lettera in cui Luchino Visconti chiede a Antonioni di raggiungerlo in Sicilia, quando era appena uscito La terra trema (1948).
Lo Spazio Antonioni contiene tesori che scatenano in chi li guarda itinerari immaginari potenzialmente infiniti perché ricostruiscono in maniera mirabile il multiforme percorso intellettuale e artistico del regista di Blow-Up e il suo rapporto con i principali protagonisti della cultura italiana e internazionale del Novecento. Intanto, attorno, sugli schermi, scorrono le immagini dei documentari della fine degli anni Quaranta: Gente del Po (1947), N.U. Nettezza urbana (1948), L’amorosa menzogna (1949), Sette canne, un vestito (1949). Il primo Antonioni, dunque, il documentarista, che parte dalla vita della povera gente delle sue terre d’origine nell’immediato secondo dopoguerra, nell’alveo del neorealismo da cui si allontanerà presto con decisione, prendendo altre strade. Sono gli anni anche di I vinti (1953), la cui sceneggiatura originale è accompagnata, in una delle vetrine dello Spazio, da una lettera di Federico Fellini che si dice commosso dal film. Si trova poi la copia di Tra donne sole di Pavese, da cui Antonioni trasse liberamente il soggetto d Le amiche (1955); una lettera di Lucia Bosè, interprete dei primi due lungometraggi di Antonioni, Cronaca di un amore (1950) e La signora senza camelie (1953), che il 31 maggio del 1950 rassicura il regista sulla sua salute e conclude che per settembre sarà “talmente bella, che anche tu ti innamorerai (Facile!)”; una cartolina di Cesare Zavattini che parla di Cronaca di un amore come di “una prova magnifica”; un disegno a china di mano di Antonioni che ritrae Lucia Bosè appoggiata al muro con un ingombrante vestito a balze e piena di gioielli. Proseguendo nel buio, si cammina con Antonioni attraverso la sua carriera: le foto di scena del Grido (1957), la colonna sonora di La notte (1961); una lettera di Giorgio Morandi con riflessioni su fotografia e arti figurative; una lettera in cui Giulio Carlo Argan spiega perché ritiene La notte uno dei film più importanti per la costituzione dell’idea di spazio nell’uomo moderno; la lettera in cui registi, critici e giornalisti esprimono solidarietà e ammirazione a Antonioni dopo i fischi ricevuti da L’avventura a Cannes nel 1960, tra questi, primo firmatario, Roberto Rossellini; una lettera di Alain Delon che informa di non poter recitare in L’eclisse (1962), di Antonioni, e nel Gattopardo (1963), di Visconti, perché impegnato in Lawrence d’Arabia (1962) poi invece reciterà in entrambi i film italiani e non in Lawrence d’Arabia, sostituito da Omar Sharif; una lettera di Elio Vittorini e una di Franco Fortini che si complimentano per L’eclisse; il Leone d’Oro per il miglior film a Il deserto rosso (1964); gli straordinari video dei provini di Monica Vitti, vestita in verde, in azzurro, in nero, con le sue smorfie, il suo modo di toccarsi i capelli, che le “fanno male”; la serie delle Montagne incantate, acquerelli realizzati da Antonioni negli anni Settanta e poi sviluppati su grande formato con tecniche di ingrandimento fotografico, così affini alle inquadrature dei film girati dal regista in quegli anni e alle vicende raccontate in Blow-Up (1966), le cui fotografie delle riprese ci fanno improvvisamente atterrare in una Londra eterna, così legata all’atmosfera degli anni Sessanta e insieme ancora così influente sul nostro immaginario presente. Leggiamo una lettera di Italo Calvino a cui Antonioni aveva chiesto di collaborare alla sceneggiatura di Blow-Up e un biglietto dove Marcello Mastroianni definisce Blow-Up “straordinario, moderno e purissimo come da tempo non ne vedevo” e ancora una cartolina di Umberto Eco che si dice emozionato per Blow-Up. Guardiamo una fotografia di Julio Cortázar spedita dallo scrittore argentino a Antonioni dalla Death Valley californiana, di fianco al cartello Zabriskie Point con su la scritta a penna di mano dell’autore di Le bave del diavolo, racconto di Cortázar da cui era nata l’ispirazione per Blow-Up: “Blow up meets Zabriskie point”. Siamo ormai partiti da Ferrara e dall’Italia e ci scopriamo immersi nello Spazio a ripercorrere, nelle teche, le colonne sonore dei film che Antonioni realizza negli anni Sessanta e Settanta: i dischi di Five Live degli Yardbirds e di Inventions & Dimensions e Takin’ off di Herbie Hancock, il disco di The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, colonna sonora di Zabriskie point (1970) insieme a Jerry Garcia dei Grateful Dead e molti altri (suggerimento non richiesto ai curatori dello Spazio: sarebbe interessante, in futuro, riprodurre tali musiche durante il percorso espositivo).
Dalle atmosfere psichedeliche su cui Antonioni era stato tanto esigente fino a rifiutare quasi tutto quello che i Pink Floyd gli avevano proposto, arriviamo in Cina, con le foto di scena di Chung Kuo, Cina (1972), documentario commissionato a Antonioni da nientemeno che Mao Tse-tung e poi da quest’ultimo censurato e infine bloccato. E torniamo a leggere le parole di una lettera scritta a penna blu da Fellini il 5 aprile del 1975, in cui il regista definisce Professione: reporter (1975) “il più compiuto, il più puro, il più essenziale tra i film di Antonioni”, fino a giungere in India, con le immagini di Kumbha Mela (1989), dove Antonioni riprende il pellegrinaggio Hindu con il rito dell’immersione di massa nel fiume sacro. E ancora leggiamo una lettera di Andrej Tarkovskij del 1979; un biglietto di auguri natalizi di Akira Kurosawa con un disegno del regista giapponese; un telegramma del 1988 in cui Martin Scorsese scrive ad Antonioni di essere felice di lavorare insieme a un nuovo progetto; e ci mettiamo ad ammirare la Nikon di Antonioni e la sua cinepresa Beaulieu e i suoi dipinti degli anni Duemila e i tanti riconoscimenti al suo cinema: la Palma d’oro per il miglior film a Cannes per Blow-Up; il Leone d’oro alla carriera del 1983; l’Oscar alla carriera del 1995.
Questo e molto altro si può dunque vedere ora, a Ferrara, allo Spazio Antonioni, esposizione permanente dedicata all’opera di Michelangelo Antonioni e alle sue influenze, che ricostruisce la carriera del maestro mettendo a disposizione dei visitatori straordinari materiali documentali appartenenti al fondo del regista, costituito da decine di migliaia di lettere, appunti, fotografie di scena, sceneggiature originali, dischi, locandine, articoli di giornale, oggetti personali e opere d’arte.
Lo Spazio Antonioni si trova nelle scuderie di Palazzo Massari, a metà strada tra quella che all’origine si chiamava piazza Nova, su cui svetta ora la statua di Ludovico Ariosto, e il Quadrivio degli Angeli, fulcro, con Palazzo dei Diamanti, della rinascimentale addizione erculea con la quale l’architetto di corte Biagio Rossetti aveva raddoppiato la città tra 1492 e 1510, ai tempi del duca Ercole I d’Este. Proprio lì, alla fine di quella via degli Angeli (oggi corso Ercole I d’Este) che, “lunga e dritta come una spada”, come la descriveva Bassani nel Giardino dei Finzi Contini, collega il Castello Estense alla cinta muraria, Antonioni aveva girato scene del suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore, con l’investigatore privato Carloni (Gino Rossi) che indagava sul passato amoroso (e, forse, delittuoso) di Paola Molon (Lucia Bosè) e Guido Garroni (Massimo Girotti). Il detective si aggirava nei pressi di Palazzo Prosperi-Sacrati, lo stesso dove Antonioni tornerà, nel 1995, per il suo ultimo film, Al di là delle nuvole, nel primo episodio, Cronaca di un amore mai esistito, per rappresentare il momento culminante del desiderio inappagato – e dunque eterno – tra Silvano (Kim Rossi Stuart) e Carmen (Inés Sastre). Di quest’ultimo film troviamo traccia in Quel bowling sul Tevere, raccolta di idee, spunti, nuclei narrativi pubblicata nel 1983 per Einaudi, dove Antonioni annota: “Era la prima volta che mi lasciavo tentare dal passato (…). Mi attirava l’idea di trattare Ferrara secondo una cronologia immaginaria, in cui gli avvenimenti di un periodo si mescolassero con quelli di un altro”.
Il giorno dell’inaugurazione dello Spazio c’erano tutti: Wim Wenders (in collegamento, ma ha annunciato che sarà presto a Ferrara proprio per visitare il nuovo Spazio), Walter Salles, Enrica Fico, vedova Antonioni, e Dominique Païni, già direttore della Cinématèque française e oggi curatore dello Spazio, al cui progetto ha lavorato anche lo studio internazionale di architettura Alvisi-Kirimoto.
Proprio Païni ha voluto sottolineare come Antonioni sia pressoché il solo, tra i grandi cineasti del cinema moderno, a non avere mai fatto ricorso a film storici, in costume (con la sola eccezione, precisa Païni, del Mistero di Oberwald, che però era un film per la tv), come invece hanno fatto Pasolini, Visconti, Rossellini, Chabrol, Rohmer e molti altri. “Il était obsédé par le présent”, dice sempre Païni. Antonioni è il solo, insieme a Godard, a essere sempre coniugato al presente, all’attuale. Come Orfeo, Antonioni pare sentire il bisogno di non voltare mai la testa all’indietro, di non rivolgersi al passato, di essere nel suo tempo per essere fuori dal tempo. Per questo, il cinema di Antonioni è ancora oggi punto di riferimento fisso per il mondo artistico contemporaneo, dall’architettura alla moda (Galliano, Fendi, Prada). La mostra permanente che Ferrara ora gli dedica non poteva dunque essere un museo nella sua accezione più tradizionale, di raccolta statica di pezzi antichi, era necessario che fosse un luogo vivo, dinamico, rivolto ai giovani, al presente e al futuro. L’allestimento segue questi principi, con pannelli mobili che possono trasformare l’esposizione, rendendola inafferrabile: uno spazio che può diventare molti spazi diversi e ospitare proiezioni, conferenze, spettacoli, letture, lezioni, il luogo di un’esperienza multisensoriale che apre mille finestre sul cinema di Antonioni.
Ma è quando Walter Salles prende la parola che si svela tutta l’importanza internazionale di questo luogo che finalmente esiste. Il regista di I diari della motocicletta, Dark Water e On the Road racconta di quando, a 16 anni, era andato al cinema, a Rio de Janeiro, per vedere The Passenger, Professione: Reporter, con Jack Nicholson e Maria Schneider. Alla fine della proiezione, il giovanissimo Salles non era stato capace di muoversi, inchiodato alla poltrona dalla sequenza finale del film all’Hotel Gloria che, ridefinendo le categorie di spazio e tempo nel cinema “definiva quello che il cinema moderno sarebbe stato e definiva anche la mia vita”. The Passenger permette inoltre, secondo Salles, di porre Antonioni alle origini del cinema politico, a partire dalla scena in cui lo sciamano prende la macchina da presa dell’intervistatore, David Locke, e la gira verso di lui, ribaltando il punto di vista tra colonizzatori e colonizzati, sfruttatori e sfruttati: chi ha controllato il linguaggio, non lo controlla più. Salles riporta infine un altro aneddoto: di quando, più recentemente, si era trovato tra Cina e Mongolia, per girare un documentario e sia lui che il cineasta cinese con cui collaborava avevano indicato subito Antonioni come il loro principale punto di riferimento.
Wim Wenders, nel suo intervento di apertura, ha invece ricordato come Antonioni, da visionario quale era, è stato un grande maestro dello spazio, creatore, generatore di spazi. Wenders ha ricordato con emozione il legame con Ferrara che li ha uniti, ai tempi della loro collaborazione per Al di là delle nuvole, concludendo che, dunque, Michelangelo è finalmente “where he belongs to”. E l’auspicio, nelle parole di Enrica Fico, è che tutta Ferrara diventi spazio Antonioni, attraverso eventi e proiezioni anche in altri luoghi della città, ricostruendo così, in maniera diffusa nel tempo e nello spazio, il rapporto col suo più importante cineasta.
Ferrara è stata infatti per Antonioni molto di più della città in cui è nato, il 29 settembre del 1912 e in cui, dal 2007, è sepolto, nel cimitero monumentale della Certosa, anch’esso a pochi passi dal nuovo spazio espositivo. Ferrara è stata per Antonioni la lente attraverso cui osservare il mondo e, dunque, l’origine della sua poetica, della sua attitudine, della sua malinconia. Ferrara è il modo in cui Antonioni ho guardato e ricreato il mondo con la sua arte. Antonioni ha sempre cercato Ferrara altrove – in Cina, a Londra, in California, in India – e Ferrara è stata per lui uno spazio emotivo prima che geografico, un luogo in cui si sommano tutte le epoche e che gli permette di generare storie. Ferrara è il set dell’anima di tutti i suoi film, anche quelli ambientati o girati in altri posti. Ferrara è la lente e l’approccio, l’ideologia con cui Antonioni si è rapportato al mondo, alla vita, alle relazioni, soprattutto a quelle d’amore. E con Ferrara è stata una storia d’amore, la sola che, grazie anche a questo nuovo Spazio, durerà per sempre.