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Leggere "Il sentiero dei nidi di ragno"

11 Ottobre 2023

«Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia». Si apre così, con un ritratto di famiglia, uno dei tanti profili biografici che Calvino ha tracciato nel corso della sua vita, presentandosi come uno di quegli errori che la natura commette quando una forma nuova e inedita si affaccia alle soglie del mondo, come uno scarto rispetto alla regola, un’accidentale deviazione di percorso. L’ambiente in cui Calvino cresce e si forma, dai primi anni trascorsi a Cuba dove il padre dirigeva una stazione sperimentale di floricoltura, fino all’adolescenza trascorsa nel giardino popolato da piante esotiche della Villa Meridiana a Sanremo, lascerà inevitabilmente traccia nel suo percorso di scrittore fin dai testi di esordio, le storie resistenziali ambientate nei boschi dell’entroterra ligure, i racconti d’osservazione, il primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, che segue le vicende di un ragazzino coinvolto suo malgrado nella vita avventurosa dei partigiani sulle colline attraversate da sentieri che lo scrittore aveva imparato a conoscere fin da bambino, seguendo il padre e imparando da lui i nomi e le caratteristiche delle piante.

C’è in questa parziale ricostruzione del suo retroterra culturale anche il desiderio di indicare l’origine della sua attenzione per gli aspetti del mondo naturale, per la varietà delle specie botaniche che sa nominare con precisione. Una vocazione illuministica, si è spesso detto a questo proposito, evidente nella registrazione quasi enciclopedica dei diversi aspetti del paesaggio naturale, che riflette una profonda conoscenza della botanica e della zoologia, ma che rivela, allo stesso tempo, una straordinaria curiosità e uno stupore rimasto intatto negli anni per la meravigliosa varietà del mondo. Negli anni Settanta, intervistato nella sua casa di Parigi, dirà di essere sempre stato affascinato dalla possibilità di suddividere, catalogare e raccogliere sotto le rubriche più diverse gli oggetti che altrimenti ci si presenterebbero in una forma caotica.

Guardando le espressioni del suo volto mentre elenca gli aspetti palesi o nascosti della città in cui ha deciso di vivere all’inizio degli anni Settanta si può comprendere qualcosa di quella mescolanza fra vocazione scientifica e meraviglia infantile che hanno guidato Calvino nei suoi percorsi narrativi, con il sospetto che l’una non sia mai riuscita a spegnere l’altra: non è un caso che il protagonista del suo primo romanzo sia un ragazzo di strada, sbandato e incolto, capace di vivere la guerra come un’avventura piena di sorprese emozionanti e crudeli. 

La propensione all’impegno politico e l’ambiente familiare avevano avvicinato Calvino agli ideali antifascisti e alla Resistenza, a cui ha partecipato attivamente, assimilando l’esperienza di uomini appartenenti a una generazione precedente, come Antonio Gramsci e il filosofo Felice Balbo, esponente di quella sinistra cattolica che ha avuto un ruolo cruciale nel lavoro culturale della rivista «Il Politecnico» diretta da Elio Vittorini. Inoltre, la collaborazione con la casa editrice Einaudi, avviata nel dopoguerra e proseguita per un oltre un trentennio, l’amicizia con Cesare Pavese, profonda e decisiva, la frequentazione di un ambiente in cui i letterati e gli scrittori si confrontavano con gli storici, i filosofi, i sociologi, gli urbanisti, gli antropologi, hanno contribuito a formare la figura di un intellettuale poliedrico, con uno sguardo aperto pur nella fondamentale coerenza del suo approccio alle novità del mondo culturale.

Per Calvino le questioni propriamente letterarie si legano sempre a interessi che abbracciano direttamente o indirettamente la vita politica e sociale, le arti figurative, l’urbanistica, l’antropologia, il cinema, la cosmologia, il giornalismo, la cronaca e altri numerosi percorsi che Calvino esplora senza pregiudizi, interrogandosi e mettendo ogni volta in discussione i presupposti ideologici da cui prende le mosse la sua indagine. D’altra parte è significativo quanto dice in riferimento alla trilogia dei suoi romanzi fantastici, a proposito del ruolo che le influenze culturali hanno sulla narrativa d’invenzione: «Così accetto che i tre libri vengano letti in chiave esistenzialista oppure strutturalista, in chiave marxista o neokantiana, in chiave freudiana oppure junghiana, ma sono contento soprattutto quando vedo che nessuna chiave apre tutte le serrature».

Quando Calvino esordisce con il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), il Neorealismo sta attraversando la sua stagione più feconda: sono gli anni in cui gli scrittori raccontano nelle loro opere l’esperienza della guerra o dell’immediato dopoguerra e in ambito cinematografico grandi registi creano opere straordinarie, Sciuscià, Ladri di biciclette, Roma città aperta, Paisà, inaugurando uno nuovo modo di rappresentare il Paese ferito dalle vicende belliche, ma capace di trovare l’energia per avviare il difficile processo di ricostruzione. Calvino, che ha partecipato alla Resistenza nelle Brigate Garibaldi e si è formato a stretto contatto con l’ambiente culturale torinese che ruota attorno alla casa editrice Einaudi, pensa alla letteratura come a uno strumento conoscitivo non disgiunto dall’impegno politico (fino ai «fatti di Ungheria» Calvino fu un convinto sostenitore del Partito Comunista Italiano) a una narrativa orientata verso modalità di rappresentazione che risultano in piena sintonia con la poetica neorealista. 

Le lettere scritte nei mesi che seguono la Liberazione contribuiscono a delineare il ritratto del giovane Calvino attraverso gli interessi, le preoccupazioni, i sogni di quegli anni: a Eugenio Scalfari scrive il 17 giugno del 1945, riassumendo per sommi capi la sua vita: «a) ho fatto il partigiano fino al giorno della liberazione passando peripezie di ogni genere; b) sono comunista; c) ora faccio il giornalista». Vive a Torino, collabora al «Politecnico» di Elio Vittorini, studia per gli esami di letteratura francese e di storia moderna alla facoltà di Lettere, mangia alla mensa, racimola qualche soldo vendendo l’olio dei suoi poderi, torna a Sanremo in camion con un conoscente per risparmiare sul viaggio. Vorrebbe comprarsi un vestito e un paio di scarpe, ma deve rinviare la spesa a tempi migliori. Al padre chiede di mandargli «qualche cibaria, pane o altro». Nei primi mesi del ’46 ha un colloquio con Giulio Einaudi per un impiego in casa editrice: gli viene proposto di fare il propagandista culturale nelle fabbriche, nelle associazioni e negli uffici, con un contratto breve e una retribuzione modesta. È sempre in movimento, ma si definisce un pigro e un timido. Ha scritto un racconto, Liguria magra e ossuta, che spera di pubblicare presto: è il suo desiderio più grande, come confida a un amico: «Poi racconti, perbacco! […] a me interessa più farmi pubblicare i racconti».

Alcuni escono in una rivista romana e sul quotidiano «l’Unità». Non ha molto tempo per dedicarsi alla scrittura: «Perché io, – scrive – cosa poco allegra, sono ancora studente e bisogna che sgobbi a smaltire esami arretrati per poter liberarmi di quella odiosa formalità della cultura che è la laurea». Va particolarmente fiero di un suo racconto, Uomo nei gerbidi, ma vorrebbe scriverne altri: «Io vado faticosamente cercando la mia maniera, – confessa a Silvio Micheli – fabbricando i miei mezzi narrativi. […] Gli è che sono ora in periodo di riposo, dopo mesi di studio e lavoro intenso e affrettato, e preferisco girarmene con un moscone intorno agli scogli rastrellando ragazze. Ma vorrei fare tante cose in questa estate: mettere insieme una ventina di racconti belli che Einaudi mi ci faccia un volume» (Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori, «I Meridiani», 2000). 

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Primo lettore di quel nucleo di racconti scritti fra il 1945 e il 1946 sarà Cesare Pavese, che tuttavia delude in parte le sue aspettative, o per lo meno le dirotta in altre direzioni: lo sprona, infatti, a scrivere un romanzo, vincendo le resistenze di Calvino che si sente più tagliato per la misura breve, per i racconti «belli stringati, che come li cominci così li porti a fondo, li scrivi e li leggi senza tirare il fiato, pieni e perfetti come tante uova» e teme le insidie della narrazione distesa, i punti morti, la convenzionalità della costruzione “a trama”. Tuttavia Calvino segue il consiglio dell’amico e inizia a scrivere Il sentiero dei nidi di ragno, che terminerà nel gennaio del 1947 e che a Pavese piace moltissimo.

Il protagonista del romanzo è Pin, un ragazzino orfano, cresciuto nei vicoli di una piccola città affacciata sul mare che per molti aspetti ricorda Sanremo, con la sorella che si vende ai fascisti mettendo a rischio la sua vita e quella del fratello. Il ragazzo dovrà fare presto i conti con il mondo degli adulti, per lui rappresentato dai partigiani, con i quali vivrà un’avventura memorabile, dopo aver rubato la pistola a un marinaio tedesco e averla nascosta in un punto del bosco che conosce solo lui, un posto quasi magico che vorrebbe tenere segreto. La vita con i partigiani nel distaccamento del Dritto mette il ragazzo di fronte alle crudeltà e alle miserie della guerra, ma gli occhi di Pin restano sempre quelli di un bambino e contribuiscono a creare un clima fiabesco. Questa è la novità cruciale apportata da Calvino nella narrativa neorealista: la rappresentazione della realtà è sempre situata sullo sfondo di un mondo immaginato o trasfigurato. D’altra parte, anche la scelta di offrire un’immagine della Resistenza immune da ogni sfumatura retorica è senza dubbio anticonvenzionale. I partigiani di Calvino non sono eroi, ma vagabondi, ladri, figure che vivono ai margini di un mondo di cui per molti aspetti non capiscono il senso, sebbene la presenza del commissario Kim, uno studente, faccia da contraltare a una storia che ha i caratteri della vicenda picaresca: il suo lungo discorso sulle ragioni della Resistenza, esplicita e consapevole presa di posizione politica, sarà sentito da molti lettori e segnalato all’autore come un’incongruenza strutturale. Calvino tuttavia ha sempre difeso la sua scelta e non ha voluto privare il testo, a cui ha apportato nel tempo alcune varianti, di una parte che riteneva assolutamente necessaria.

La Resistenza nelle colline liguri viene raccontata senza retorica attraverso gli occhi di un protagonista inconsapevole e istintivo, un Pinocchio (il suo nome ricorda quello del burattino di Collodi) a cui si affiancano personaggi bizzarri, Lupo Rosso, Pelle, Cugino, che richiamano, già nella scelta dei nomi di battaglia, le figure a volte rassicuranti, più spesso crudeli e inquietanti attraverso cui Pin si avvicina progressivamente alla vita adulta.

Dopo l’uscita del romanzo Calvino scrive all’amico Silvio Micheli: «I pareri sul romanzo di chi l’ha letto finora sono molto vari: secondo Pavese è bellissimo, secondo Natalia [Ginzburg] anche, secondo Ferrata è sbagliato, senza fantasia, scritto in gergo, pieno di convenzioni e non so cosa altro, secondo Vittorini così così, secondo Balbo il primo romanzo marxista, secondo i miei genitori un insieme di sconcezze che non capiscono come il loro figlio abbia potuto scrivere». Il 3 gennaio del 1947 scrive a Eugenio Scalfari, suo amico e confidente fin dagli anni del liceo: «Ho finito in questi giorni il mio primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, un’esperienza di malvagità e schifo umani, ma con una speranza di redenzione quasi cristiana (terrena però), più dichiarata che raggiunta. Un romanzo terribilmente mio, una rischiosa aspirazione di serenità». E nota anche, in una lettera a Marcello Venturi: «sono sicuro d’aver scritto un romanzo che, qualche punto morto qua e là, corre sicuro dalla prima all’ultima pagina». (Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori, «I Meridiani», 2000).

Nel 1964 uscirà l’edizione definitiva del romanzo, con un’importante prefazione, in cui Calvino fa il bilancio di un’epoca della narrativa italiana che considera ormai definitivamente conclusa. «L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia – vi si legge – fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt'altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l'accento che vi mettevamo era quello d'una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo. […] Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell'aria: quando scrissi questo libro l'avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l'incombere d'una nuova retorica. […] Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n'ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell'inizio» (Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Italo Calvino, Romanzi e racconti, Volume primo, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, «I Meridiani», Milano 2003, pp.1186 sgg.).

Calvino trova così la sua strada: Pavese diventa un punto di riferimento, una guida, un amico che dà aiuto e consigli. A lui deve anche la sollecitazione a tradurre dall’inglese, con l’offerta generosa di rivedere i testi, «parola per parola, per non farmi far brutte figure». Dal 1948 in avanti Calvino entra a far parte stabilmente della «grande famiglia» Einaudi con mansioni redazionali e pubblicitarie: i due lavorano fianco a fianco, traducono a quattro mani, si scambiano opinioni sugli scrittori americani di cui Pavese era un appassionato lettore, scrivono risvolti di copertina e schede editoriali che creano un nuovo stile nell’editoria italiana. Inoltre si leggono e si recensiscono a vicenda: sarà Pavese a scovare la felice definizione di «scoiattolo della penna» per designare, con una sintesi fulminea, la rapidità del montaggio narrativo, l’uso sapiente del tempo, la leggerezza dello stile dell’amico. Quando Pavese decide di dar vita, con la collaborazione di Ernesto De Martino, a una collana dedicata agli studi religiosi, etnologici e psicologici, la storica “Collana viola”, Calvino lo segue – con curiosità e in certi casi con scetticismo – nei suoi interessi, leggendo saggi e studi di cui poi si servirà per scrivere testi cruciali, come il romanzo, iniziato e mai portato a termine, La decapitazione dei capi (1968), il racconto autobiografico La strada di San Giovanni e lo straordinario ciclo incompiuto di racconti dedicato ai cinque sensi, pubblicato postumo con il titolo Sotto il sole giaguaro: un’officina di scrittura e riscrittura – ha scritto Marco Belpoliti in Settanta – da cui «avrebbe potuto emergere un nuovo Calvino, forse il terzo o quarto, dopo il narratore neorealista, quello semiologico e strutturalista o il “narratore narratologo” di Se una notte d’inverno un viaggiatore». 

Questo è il testo della rassegna Alfabeto Calvino, organizzata in occasione del centenario della nascita di Italo Calvino da Doppiozero e dalle Biblioteche di Roma dal 28 settembre 2023 al 20 febbraio 2024.

giovedì 12 ottobre ore 11
Biblioteca Raffaello 

Il sentiero dei nidi di ragno
con Nunzia Palmieri

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