Il metodo e il reale / “L'immagine e la parola” – Locarno, 10/12 marzo

31 Marzo 2017

«Scrivere fiction non significa aggiungere svolazzi di fantasia alla realtà, significa togliere, sottrarre, selezionare parti del reale». Con queste parole di Edoardo Albinati riesce a catturare e riassumere il focus de L'immagine e la parola  di quest'anno (Locarno, 10-12 marzo 2017). Giunto alla sua quinta edizione, lo spin-off primaverile del Festival del film Locarno fin dai suoi esordi si propone di indagare, con ospiti prestigiosi e autorevoli, il rapporto che intercorre tra parola scritta (letteratura, poesia, sceneggiatura) e immagine (cinema, ovviamente, ma anche serialità e fumetto). La manifestazione di quest'anno ha fatto emergere con più decisione del solito l'inevitabile convitato di pietra, vale a dire il reale

 

A codirigere l'edizione di quest'anno, i due curatori Carlo Chatrian (da cinque anni direttore del Festival) e Daniela Persico hanno chiamato proprio Albinati, scrittore e sceneggiatore, vincitore nel 2016 del Premio Strega con l'imponente La scuola cattolica; il quale, a sua volta, ha voluto con sé due registi con cui dialogare: Marco Bellocchio (con il quale ha cosceneggiato il recente Fai bei sogni) e Cristian Mungiu, vincitore della Miglior Regia a Cannes 2016 con Bacalaureat – Un padre, una figlia). Nel corso dei tre giorni, fra masterclass per studenti di cinema e incontri con il pubblico, il filo rosso che ha legato gli interventi è stato soprattutto il “discorso sul metodo”. Il metodo con cui il reale può essere adattato alla finzione, sia essa scritta o filmata. E il rapporto con la realtà (punto di partenza o punto di arrivo) è stato proprio il cuore della riflessione, indagato attraverso metodi molto diversi.

 

Edoardo Albinati con Anna Bonaiuto.


Fluviale, impulsivo, sregolato e istintivo, Albinati ha affrontato il tema della verosimiglianza e dell'oggettività. L'aderenza al reale, ha spiegato, è il contrario della mimesi: qualunque mezzo si scelga per farlo, non si tratta di registrare il reale, bensì di selezionarlo impartendo una gerarchia e un legame tra elementi del tutto casuali. In quanto selezione, infatti, la finzione è necessariamente un'interpretazione, riflette lo sforzo di mettere in relazione, donandogli un senso, fatti e accadimenti che di per loro ne sarebbero privi. «La realtà è sempre sotto i nostri occhi, perché dovrei andare a vedere persone che recitano una parte, se tanto quelle stesse parti posso vederle semplicemente alzando gli occhi dal libro o dallo schermo?», si domanda lo scrittore romano, riferendosi a quella finzione che non ci parla di mondi lontani o immaginati, ma di quella realtà che ci riguarda, del nostro mondo, con i suoi problemi quotidiani, banali, e che però continuano in parte a sfuggire alla nostra comprensione nella loro illusione di inevitabilità. Calarsi nel reale attraverso la finzione assume quindi il carattere della demistificazione, della creazione di una distanza tra noi, lettori e spettatori, e l'ideologia in cui siamo immersi, che, come l'ossigeno che respiriamo, è indispensabile e inevitabile, eppure invisibile. Creare una storia, specie se coinvolgente, vuol dire allo stesso tempo creare una distanza tra il lettore e se stesso, selezionando dei dati della realtà e donandole, grazie all'unità formale di tempo e spazio, un senso compiuto. Per farlo, spiega Albinati, bisogna partire dalla creazione di personaggi ambigui, interessanti, il più possibile umani.

 

La storia si sviluppa poi seguendo le loro volontà che si intersecano. La necessità dell'intreccio che ne consegue riflette la parallela necessità di selezione che l'autore opera fin dall'inizio, scegliendo quali sono le storie individuali che intende indagare, più che banalmente “registrare”. La coesione, la coerenza, la necessità, sono una forma di tradimento del reale, che invece è caotico, casuale, imperscrutabile e che spesso eccede la coscienza umana: Albinati, che ha esperienze nel reportage giornalistico oltre che come traduttore, lo sa bene. Eppure è solo tramite questo tradimento, proprio come nella traduzione, che la comprensione diventa possibile. Partire dal reale, tradurlo/tradirlo in fiction, come unica via d'accesso al ritorno a questa realtà. Non è un deficit di informazioni, specie in un presente in cui siamo bombardati di notizie, a frapporsi tra noi e la comprensione del mondo: è l'assenza di una capacità organizzativa, la mancanza di un'abitudine ad adattare queste informazioni in forma umana, cioè a spiegare la realtà. È probabilmente questo ad affascinare tantp uno scrittore come Albinati, caotico ma efficacissimo nella sua sensibilità di storyteller, capace di dosare momenti di tensione e di calma apparente (sapienza che tanto deve anche al cinema noir, come dimostra la sua scelta di proiettare qui a Locarno Grisbì di Jacques Becker), quanto due autori apparentemente distanti da lui come Mungiu e Bellocchio. 

Cristian Mungiu (a destra) con il direttore artistico del festival, Carlo Chatrian.


Il regista romeno sembra infatti agli antipodi rispetto ad Albinati quanto a metodo di scrittura e di regia: metodico, ossessivo, minimalista, la sua ricerca – ha spiegato – parte sempre da un tema che gli sta a cuore e che intende illustrare in modo emblematico attraverso i suoi film. L'attualità del suo Paese e la sua storia sono sempre il punto di partenza nella creazione di personaggi che anche lui, come Albinati, segue pedissequamente, addirittura, in fase di scrittura, scrivendo un diario della stessa vicenda dal punto di vista di tutti, anche quelli più marginali. La vicenda che li vede implicati fornisce l'unità che si spacca da subito in una serie di percezioni individuali sullo stesso evento. La necessità che ne consegue è contenuta nello stile registico minimale fatto perlopiù di piani sequenza: eliminare il montaggio e la musica extradiegetica, espedienti considerati troppo ovvi e rifiutati quasi in toto da Mungiu come dagli altri esponenti della recente nouvelle vague romena (di cui fanno parte anche Puiu, Porumboiu e Sitaru, ad esempio), pone un ovvio problema di ritmo, che il regista tenta di aggirare inserendo un ogni scena una sorta di cliffhanger, un appiglio per la successiva, così che tutto lo svolgimento appaia serrato e consequenziale. È un gioco di astrazione e concrezione continua, di deduzione e induzione: dall'attualità si deduce una storia particolare, da questa si induce una riflessione generale nello spettatore che è chiamato a sentirsi coinvolto e chiamato in causa. È in questo gioco che l'autore stesso si trova “a sorprendere se stesso”: il momento in cui l'imprevisto (il reale) rientra dalla finestra, in cui lavorando alla sceneggiatura e durante la lavorazione avviene qualcosa che sfugge al controllo dell'autore, che scompagina nuovamente i suoi piani di strutturare la realtà da cui era partito. 

 

Marco Bellocchio.


E arriviamo così a un terzo metodo, che si pone a metà tra quello fluviale e istintivo di Albinati e quello maniacale e preciso di Mungiu: quello di Marco Bellocchio. Da sempre impegnato a indagare gli stessi temi (la madre, la borghesia, la decisione, il conflitto tra libertà e necessità, il punto di non ritorno – il trauma – che inevitabilmente ritorna) Bellocchio sembra fare fatica a spiegarli e sistematizzarli, quasi fosse una vittima inconsapevole delle proprie ossessioni. Alle domande degli studenti e dei giornalisti risponde con vaghezza, racconta aneddoti e contingenze produttive. Bellocchio sembra voler ribadire che non decide niente a priori, ma che si lascia guidare dalle circostanze, proprio come se anche lui, il regista, fosse uno dei personaggi dei suoi film. La realtà, che irrompe sotto forma di caso in Albinati e Mungiu, è per lui invece ciò che lo ricondurrà al punto nodale del suo film. Proprio come nell'ultimo Fai bei sogni, ispirato all'omonimo romanzo di Gramellini, l'evidenza (negata) del suicidio materno è la chiave del film, quasi un giallo in cui occorre ricomporre i pezzi per comprendere la storia. È questa fiducia nel reale, non più inteso come punto di partenza da tentare di sistematizzare e comprendere, ma come motore dotato di una sua logica, a rendere il metodo di Bellocchio qualcosa di molto più rischioso ma anche potenzialmente più forte. Come in un salto nella fede kierkegaardiano, Bellocchio crede nel reale, ma non ne fa banalmente un deus ex machina, bensì un personaggio del suo cinema. Sa che di un unico Reale non si può parlare: il reale che interviene e plasma l'arco narrativo dei suoi protagonisti è infatti un singolo reale, quello circoscritto e personale di ognuno di noi, una necessità intima con cui occorre fare i conti se si vuole tradirla restandogli fedele. Necessità e libertà si rivelano così una falsa alternativa. Proprio come il metodo e il reale. 

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