Girlhood. Identità e conflitti nel cinema di Céline Sciamma
“Je fais ce que je veux!”: Marieme e le sue amiche, adolescenti di colore delle banlieue parigine, se lo ripetono a vicenda come un mantra. Ma Marieme non sa cosa vuole: i sogni sono un lusso che solo pochi (forse) possono ancora permettersi. Sa solo quello che non vuole. Non vuole fare la donna di servizio come sua madre, non vuole andare alla scuola professionale, non vuole tornare a casa dal fratello violento, non vuole diventare “une fille bien” sposandosi. Marieme fa tabula rasa di tutto ciò che potrebbe frapporsi tra lei e un progetto che non ha.
Nonostante l’importanza fondamentale della fase della “gang” che dà il titolo originale al terzo film di Céline Sciamma (Bande de filles) e che sembra costituire la sola isola felice nell’esistenza di Marieme, infatti, è chiaro che il fulcro della narrazione è sempre l’esperienza di quest’ultima. Ma questo non significa che l’ottica attraverso la quale la narrazione è filtrata sia psicologica o che l’intenzione sia banalmente quella di “raccontare una storia” individuale. Nonostante il titolo dal sapore vagamente “coloniale” (e imbarazzante) scelto dalla distribuzione italiana di Teodora Film, ovvero Diamante Nero, Sciamma gioca con grande intelligenza sul filo della dicotomia esemplarità/universalità, e sceglie una figura marginale e subalterna – una di quelle invisibili al cinema o visibili solo come esplicito oggetto d’indagine in film “di denuncia” sul genere che Matt Collins ha definito “poverty porn” –, per parlare di qualcosa di molto più generale e importante.
Il tema con cui Sciamma si misura fin dal suo esordio Naissance de pieuvres, purtroppo ancora inedito in Italia, è quello dell’identità. In particolare l’identità di genere, come accade in Tomboy, seconda opera dell’autrice sulla scoperta della propria identità di genere da parte di una bambina. È questo il tema principale anche di Diamante Nero, ma mentre in Tomboy l’attenzione era rivolta in particolare alla psicologia dell’indimenticabile protagonista, il tema qui è trattato con toni decisamente più sociologici, e Sciamma osserva le tappe dell’adolescenza come se fossero consequenziali al confronto con il contesto esterno.
Come ha sostenuto la regista in diverse interviste, la scelta di suddividere la narrazione in quattro capitoli significativamente irrelati tra loro equivaleva a consentire di presentare in ciascuno una nuova Marieme, che indossa i suoi nuovi panni quasi fossero “il costume di un diverso supereroe, a ciascuno dei quali corrispondono diversi poteri”. Così possiamo vedere in successione Marieme (interpretata dall’ottima Karidja Touré) nelle vesti di adolescente timida e remissiva, con le treccine tradizionali e in abiti sportivi e poco appariscenti; Marieme, finalmente membro della gang, che viene ribattezzata “Vic” (come in “Victoire”), i lunghi capelli piastrati e i vestiti alla moda rubati nei centri commerciali di periferia; Marieme “femme fatale” che con parrucca bionda e minigonna rossa si infiltra per spacciare alle feste dei bianchi (i primi a comparire nel film a mezz’ora dalla fine); e infine Marieme che rifiuta la sua femminilità e inizia a vestirsi (e comportarsi) come un uomo. Si tratta di un percorso non privo di ripensamenti e incertezze, in cui le fasi si mischiano tra loro, ma che ha tutto meno un carattere di necessità. Nessuna fase è una conseguenza della precedente, quello che osserviamo è un coming of age molto atipico perché non è affatto un romanzo di formazione, semmai il contrario. Marieme in qualche modo è già formata da principio, è adatta al mondo in cui si muove in virtù della propria adattabilità, della propria abilità nel cambiare. I momenti in cui la vediamo opporre resistenza al cambiamento (come quando torna a casa con la sorella che cerca di imitarla), sono gli ostacoli che, come in un videogioco, vanno superati per passare al livello successivo. In questo senso Sciamma coglie una grande verità, forse ovvia oggigiorno: l’identità, in primis quella sessuale, è performativa. Ogni adesione identitaria a un ruolo è una mascherata, una messa in scena. Quello che è più interessante però è che Sciamma constata e rappresenta questa circostanza senza celebrarla automaticamente come una liberazione.
La parte più consistente del film riguarda l’irresistibile “bande de filles”. Le ragazze di Sciamma sono irriverenti, “toste”, volitive, incorporano una filosofia radicalmente “girl power” secondo la quale o sei dentro o sei contro, che le porta a episodi di bullismo e di violenza ma che al contempo crea un sodalizio inscindibile e assoluto fatto di identificazione, cooperazione e protezione reciproca. Ragazze forti, con tutta una serie di riti tribali che fondano la comunità degli uguali, tra i quali è possibile autentica solidarietà (lo dimostra l’abbraccio di Lady a Vic quando questa le “ruba” il ruolo di leader in un combattimento), mentre l’amore è possibile sempre solo rivendicando in ogni momento la propria autonomia (è solo dopo un combattimento che Vic può diventare donna, e il primo rapporto sessuale avviene secondo le sue regole). Sciamma mette in scena con inedita maestria il legame omosociale tra le ragazze ma indaga anche i loro rapporti con l’altro sesso, evidenziando tutti i meccanismi in opera in una società che è una giungla, inclusa la dinamica per la quale è possibile accettare, per ottenere rispetto e protezione, di fare parte di un’organizzazione in cui si ha un ruolo attivo ma non di sottomettersi a un’autorità, che è sempre inevitabilmente rappresentata dai maschi. Anche il sesso va vissuto come un gioco di ruolo, in cui deve essere chiaro chi comanda. La macchina da presa di Sciamma, che indugia sul corpo nudo del ragazzo di Marieme e taglia nel momento in cui è questa a spogliarsi, esibisce la sua parzialità in una sequenza che rispetta la rivalsa messa in atto dalle ragazze. A testimoniare la solidarietà di Sciamma con le filles della sua banda ci sono anche sequenze di chiara e riuscitissima improvvisazione, come quella già iconica del videoclip nel film, vale a dire il lip-sync di Diamonds di Rihanna (che ha ceduto i diritti gratuitamente), in cui evidentemente la messa in scena obbedisce all’autorappresentazione delle ragazze. Ma a parte questi momenti dall’estetica molto riconoscibile e che accomunano in parte lo stile della regista ad altri suoi coetanei “enfant terribles” – o forse piuttosto “savants” – del cinema degli ultimi anni (in primis Xavier Dolan), la regia di Sciamma è quasi sempre piuttosto oggettiva, quasi distante. Osserva le contraddizioni di cui è testimone, lascia che queste si manifestino e suggerisce molto raramente una soluzione interpretativa o un’immedesimazione totale. La stessa identificazione nel gruppo delle ragazze non è mai acquisita o data per scontata: ogni volta Marieme obbedisce a un contesto e si cala nella parte. Così se inizialmente vediamo le ragazze infastidite ribellarsi al cat calling dei coetanei maschi, nel finale Marieme sceglie senza apparente contraddizione l’altra parte della barricata e fa comunella con i ragazzi che molestano una sua coetanea. Inoltre, più la struttura narrativa si fa rarefatta e più il film dimostra la propria maturità ed esplicita il proprio significato.
In particolare, indagando la costruzione dell’identità femminile attraverso una serie di fasi fortemente contraddittorie tra loro, Sciamma riesce a evidenziare la caratteristica tipica e più fondante nell’educazione (non solo sentimentale) dell’individuo femmina, vale a dire la sua schizofrenia. Susan J. Douglas, nel suo libro del 1994 Where the Girls Are: Growing Up Females with the Mass Media, osservava come le donne siano “a bundle of contradictions” perché l’immaginario mediatico e culturale in cui crescono è a sua volta fatto di immagini e messaggi assolutamente inconciliabili tra loro riguardo a quello che una donna dovrebbe fare per aderire al proprio ruolo nella società. È qui che si inserisce la tematica dell’integrazione: ai messaggi contraddittori riguardo l’identità femminile di cui è colma la cultura occidentale si deve aggiungere la pressione esercitata dalla cultura tradizionale, altrettanto ambigua. È in un combattimento in cui taglia il reggiseno alla rivale (poi esibito come uno trofeo) che Marieme si guadagna il rispetto del fratello, subito pronto però a rimetterla violentemente al suo posto non appena scopre della sua perdita della verginità. Il continuum tra le due culture risiede proprio nella scissione dell’individuo femminile, confuso tra la serie di strettissimi e contraddittori diktat da cui è circondato, che lo rendono a tutti gli effetti il paradigma dell’identità instabile e fluida richiesta oggi dalla società.
Lo spettro d’indagine di Sciamma infatti va ancora oltre, e non si limita a tratteggiare i confini della “girlhood” (come recita l’appropriato titolo scelto per la distribuzione internazionale). La scelta di rappresentare la figura di un subalterno per parlare dell’attualità tutta, allora, diventa una scelta politica che va oltre l’intento nobilitante di dare una voce ai vinti: vuol dire, attraverso un caso limite, rappresentare una condizione comune, nella sua dialettica, a tutti gli individui della società contemporanea. E ancora, scegliere di rappresentare la periferia e non il centro, scegliere il “secondo sesso” e non il primo, scegliere la minoranza e non la “norma”, vuol dire insinuare il dubbio che i privilegi su cui si fondava l’ordine precedente stiano via via scomparendo, e che la subalternità riguardi tutti perché nell’universo neoliberale, che richiede una costante rinuncia all’identificazione identitaria, di autentiche garanzie di successo non ne esistono più. Il punto in cui si trova Marieme in conclusione non dipende dalle sue scelte o dalle sue esperienze precedenti. Marieme si adegua semplicemente, come un camaleonte, al contesto in cui vuole inserirsi. Non c’è alcuna accumulazione esperienziale possibile, né costruzione di un progetto. La libertà ottenuta da Marieme è una vera e propria precarietà, una libertà puramente negativa, e l’identità che arriva a crearsi è un’anti-identità, vuota di contenuto. Quello che le si apre davanti è indifferentemente la vittoria (come lo spettatore spera di poterle augurare, almeno in virtù del nome di battaglia che si è scelta) o la disfatta, così come la sua libertà è allo stesso tempo disperazione e solitudine, e ciò che accadrà dipenderà dalle circostanze esterne più che dalla sua volontà. Sciamma non ci offre il ritratto glorioso di un’emancipazione riuscita – né economica, in stile The Millionaire di Boyle, né morale, come in Due giorni, una notte dei Dardenne –, né, tanto meno, una tragedia esemplare che punti all’indignazione dello spettatore. Ci offre invece uno spunto di riflessione onesto, proprio grazie alla sua apertura finale, sulle “disavventure dell’identità” nella condizione postmoderna. E ci ricorda una volta di più con schietta lucidità che purtroppo non basta dirsi: “do the right thing”.