Marco Belpoliti. La canottiera di Bossi
Esce in questi giorni il volume di Marco Belpoliti dedicato a Umberto Bossi (Guanda, pp.112, già disponibile su ibs.it in versione cartacea e su amazon.com in versione kindle) di cui anticipiamo di seguito il capitolo dedicato alla Voce del Capo.
L’autore rilegge il capo leghista attraverso i suoi gesti, esplorandone l’origine e il significato, mostrando come il suo eloquio e i suoi atteggiamenti abbiano profondamente condizionato il comportamento morale dei politici e degli italiani in genere.
Da queste pagine emerge il “vitellone”, per dirla con Fellini, il cantante rock e non solo capo di partito, il predicatore scomposto piuttosto che sottile tessitore: un ragazzotto di paese che
arriva in Parlamento e incarna quello che Sciascia chiamava “l’eterno fascismo italiano”,
acquattato nel grembo stesso della provincia, al Nord come al Sud, e di cui la nostra cultura è impregnata. Fa parte di noi, per quanto ce ne distanziamo, lo rinneghiamo, cerchiamo di strapparcelo di dosso.
Umberto Bossi, Manifestazione della Lega Nord, Novembre 1993 (ANSA).
La voce del Capo
C’è un altro aspetto che bisogna mettere in luce, e su cui in diversi hanno già scritto: la voce di Umberto Bossi. Una voce cavernosa, profonda, strascicata; meglio: rauca. Una voce che esprime una sorta di animalità e fa vibrare negli ascoltatori corde segrete; che suscita reazioni emotive, in quanto tocca tasti che appartengono all’aspetto ancestrale, non razionale, di chi ascolta; profonda, ma anche ruvida; che agita e contiene evidenti tratti isterici, e insieme anche il contrario: calma e tranquillizza. Detto altrimenti: una voce che eccita mentre rassicura. Secondo Lynda Dematteo, un’antropologa che ha condotto un lavoro sul campo tra i leghisti stessi, durante i comizi la folla vibra in sintonia con la voce del leader: “Il fascino che esercita va oltre le parole, passa per il timbro di voce e la cadenza”. Il Capo dà voce alla loro collera segreta.
Fatte le dovute differenze, possiamo pensare al tono di voce e alle vibrazioni che produceva, in coloro che ascoltavano nei comizi e alla radio, la fonia di Adolf Hitler, così diversa dalla voce calda e dall’eloquio tradizionale, risorgimentale, di Benito Mussolini, fondato invece – ecco la novità – sui movimenti del corpo e sulle pause, l’enfasi del fiato, le parole scandite e le sottolineature. Carl Gustav Jung ha sostenuto che la voce nel capo della Germania altro non era che l’inconscio del popolo tedesco, l’altoparlante che amplifica “gli inudibili bisbigli dell’anima tedesca, fino a renderli percettibili all’orecchio stesso dei tedeschi”. Che sia accaduto qualcosa del genere, almeno negli anni Novanta del XX secolo, e oltre, nelle popolazioni del Nord del paese, o almeno in alcune fasce sociali e culturali?
Al riguardo Lynda Dematteo fa un paragone illuminante; partendo dal fatto che i discorsi di Bossi sono così difficili da seguire sul piano delle argomentazioni razionali, ipotizza che il suo modo di procedere evochi la glossolalia di alcuni malati di mente “che costruiscono un idioma personale sulla base di neologismi organizzati secondo una sintassi rudimentale”. Fatto che spiegherebbe come mai il suo discorrere, le sue invenzioni verbali, e lo stesso tono di voce producano un effetto tanto incantatorio sul pubblico: parla un linguaggio che esorbita dalla sfera razionale andando a toccare corde segrete, quello che Jung definisce l’inconscio collettivo di un’intera popolazione in un momento particolare della sua storia. Il che ovviamente è del tutto disgiunto dal contenuto del messaggio, dalla follia delle proposte razziste e megalomani, com’è accaduto nel caso di Hitler, che ha prodotto l’eccidio immane del suo stesso popolo, o le idee di separatismo e di frantumazione dell’Italia, oltre alla xenofobia, che sono il contenuto più evidente dell’eloquio di Umberto Bossi.
Nel caso della voce del capo leghista, siamo in presenza di qualcosa di assai differente dalle voci che si erano udite sino all’inizio degli anni Ottanta sulla scena della politica italiana. La voce di Bossi sembra perfetta per l’amplificazione elettrica del microfono, che fa vibrare in modo più sensibile nelle orecchie degli ascoltatori aspetti che senza questo mezzo non si coglierebbero, poiché il fondo rauco della voce tende a rendere cavernosa e non intellegibile l’aggressività che vi si cela, mentre il microfono e le casse di amplificazione la moltiplicano rendendola, nello spazio del comizio, totalizzante.
Come ha notato Gabriele Pedullà nel suo approfondito esame dei discorsi dei politici italiani, da Cavour a Silvio Berlusconi, prima dell’introduzione dell’amplificazione elettrica occorreva una voce potente e una dizione chiara per chi voleva parlare in piazza davanti alle folle. Questo condizionava il ritmo del parlato, le pause, poiché le parole venivano trasmesse dal pubblico stesso dalle prime file verso le ultime, data l’ampiezza dei luoghi e delle folle di ascoltatori.
Bossi è figlio dell’amplificazione, come altri oratori della seconda metà del XX secolo, ma probabilmente più di tutti, grazie al particolare tono, al timbro e alla qualità roca della sua voce.
Somiglia più a un cantante, l’abbiamo detto, che usa il microfono avvicinandoselo molto, entrandoci quasi in rapporto fisico, stando tuttavia attento alla modulazione della voce, allo scopo di ottenere l’effetto desiderato, ossia il forte riverbero, se non proprio virulento, sui fan che stazionano sotto il palco. Un inglese, studioso della voce e in particolare del fenomeno del ventriloquio, Steven Connor, sostiene a ragione che “una voce non è una condizione, e neppure un attributo, ma un evento”; riprendendo un pensiero di Maurice Merleau-Ponty, filosofo francese, Connor ci ricorda che nell’atto del parlare vive una sorta di atto corporale del mondo, per cui “la parola è un gesto”.
Da : Marco Belpoliti, La canottiera di Bossi, Ugo Guanda Editore, Parma 2012
Il discorso dei bicipiti. Breve lettera a margine de La canottiera di Bossi
La canottiera chiama il bicipite: è fatta apposta per esibirlo, mostrarlo, magnificarlo. Bruce Banner la mette come abito-filtro tra la sua identità umana e quella dell’incredibile Hulk, che diventa enorme e verde facendo saltare le spalline. Brad Pitt, tra le star di oggi, è forse quella che ha maggiormente favorito questo capo che permette l’esibizione di pettorali e deltoide. Tra Marlon Brando e Umberto Bossi corre un filo che identifica il secondo come un perfetto wannabe (citando una antica canzone delle Spice Girls). Un uomo propenso all’imitazione, che in provincia guarda i film provenienti dal centro dell’impero e cerca di imitarne gli stili, a proprio modo. D’altra parte tutta la politica post ’77 in Italia è all’insegna del riciclaggio di segni di spettacolo: Berlusconi cantante da crociera e showman, Bossi, che con il nom de plume di Donato, si cimenta con un repertorio da cantante scanzonato (in stile Gaber-Jannacci), siglando una canzoncina surreale intitolata Col caterpillar, raccontano la stessa storia. La famosa foto del leader leghista realizzata in Costa Smeralda nel 1994, in cui il nostro si presenta al suo elettorato e all’Italia tutta in tenuta estiva, è in primo senso celebrazione dell’assenza del bicipite, assunzione di un immaginario decisamente decontestualizzato. Un impiegato magrolino, in posa dopolavoristica, si propone come symbol del sex, in una versione domestica. Il fatto stesso di puntare su questa visione gli conquista senz’altro un pubblico, sdogana un comportamento che fino a poco prima sarebbe stato ritenuto solo improbabile. La canottiera era infatti il capo di vestiario più tipico del ragionier Ugo Fantozzi, con mutanda ascellare di contorno. Quel personaggio tragicomico, ha lasciato i casermoni di periferia, per arrivare al centro del potere, portandosi dietro il suo abito-talismano. La canottiera trionfa come simbolo di un potere che fa di tutto per mantenere le proprie origini iconografiche. E se i bicipiti proprio non ci sono, basta che l’elettore se li sogni o che la rappresentazione gli vada proprio bene così.
Luca Scarlini