Qualcos'altro – Galleria Giò Marconi, Milano / Mario Schifano: pre-figurazione
Camminando verso la Galleria Giò Marconi per visitare la mostra Qualcos’altro, mi sono chiesta che senso possa avere oggi visitare una mostra di monocromi. La prima ragione è evidente: per uno studioso o un appassionato, una mostra di questo stampo ha un valore documentale indiscutibile, permette di inquadrare l'esperienza di un artista in una prospettiva situata, testimoniando una fase specifica della sua produzione. Ma per un visitatore che non abbia un’urgenza di studio, quale può essere la ragione, il senso di visitare una mostra di monocromi degli anni '60 nel 2020? Non si tratta forse di un momento pienamente documentato delle avanguardie del secondo Novecento, analizzato sin nei minimi dettagli e in un certo modo ormai cristallizzato, inchiodato sulla carta come una farfalla da uno spillo?
Il nucleo di opere presentate in mostra da Alberto Salvadori, in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano di Roma, è compreso tra il 1960 e il 1962, quando l’artista ha già alle spalle alcuni esperimenti informali. Gli smalti su carta intelata selezionati da Marconi alternano monocromi e opere a due tinte: alcuni di questi risalgono alla celebre collettiva 5 pittori del 1960 alla quale partecipano Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini, tenutasi presso la galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, all’epoca punto di riferimento della scena informale.
Lo stesso gruppo di artisti aveva già esposto alla galleria Il Cancello di Bologna con una presentazione curata da Emilio Villa, mentre la mostra a La Salita è accompagnata da un testo di Pierre Restany, teorico del Nouveau Réalisme vicino a Yves Klein e Jean Fautrier. Si tratta di un passaggio storicamente significativo perché la collettiva rappresenta un momento seminale nella produzione dei cinque artisti e li attesta come gli alfieri della nuova scuola romana. Restany, già critico verso un movimento informale che ritiene ormai stanco, restituisce un ritratto dei cinque artisti in divenire, sospesi tra il Neo Dada e, appunto, il Nouveau Réalisme, un ritratto di “nuovi pragmatisti”, liberi dal gravame sentimentale dell’informale e orientati verso una nuova concretezza. Ed è proprio Restany che propone a Liverani i lavori di Schifano, che nel 1960 ha ventisei anni e lavora in uno studiolo su una terrazza di Piazza Scanderberg: è lì che lo vanno a trovare la gallerista Ileana Sonnabend, Leo Castelli e Robert Rauschenberg, vicino a Piazza del Popolo e a quel Caffè Rosati che è il luogo di ritrovo dell’avanguardia intellettuale durante una breve, luminosa stagione di fioritura culturale che non avrà eguali nella storia della città. Roma è finalmente una piazza di respiro internazionale (con epicentro Burri, in pieno dialogo con la Milano di Lucio Fontana) grazie alle produzioni hollywoodiane che hanno colonizzato Cinecittà, e diventa meta del turismo colto statunitense: Roma e New York si scoprono all’improvviso allineate, accomunate da intuizioni simili e da ricerche che si muovono verso un deciso superamento dell’astrazione, alla spasmodica ricerca di nuovi modi di fare figurazione.
La mostra alla Salita è la prima mostra importante di un giovane Schifano, figlio di un archeologo, restauratore del Museo Etrusco di Valle Giulia e artista posseduto dalla pittura. A differenza di altri, è un artista che procede in maniera individualistica, seguendo una traiettoria autonoma, refrattario a qualsiasi vincolo. Schifano vede il lavoro di Jasper Jones e Rauschenberg sulle riviste dell’epoca che circolano tra gli artisti, è già consapevole del valore delle proprie ricerche. Nel biennio ‘60 – ‘62 la sua produzione è intensa e radicale: realizza degli “schermi” sui quali stende la pittura, una vernice sonora, grezzamente vitale, tutta di superficie. Sono opere che arrivano dopo i lavori con la terra e le pitture-cemento, ed emergono in una fase di rapida evoluzione, segnata dal richiamo del colore che lo guiderà verso la successiva figurazione. Schifano “l’irregolare” procede in maniera libera, apparentemente casuale, cerca qualcosa che è nella superficie del dipinto, incastrato nelle piccole irregolarità delle campiture di colore, nel dialogo gestaltico tra primo piano e lo sfondo, nei segni, nelle campiture e colature. Trova ciò che sta cercando guardando attraverso l’obiettivo di una Rolleiflex che chiede in prestito proprio a Uncini. La visione attraverso il filtro della macchina fotografica è una folgorazione che lo accompagnerà per tutto il resto della carriera ed è lì che si innesca, lì che trova una prima incarnazione nelle carte verniciate che anticipano alcune istanze ancora in nuce: "Prendere sul serio il ruolo che la fotografia ha avuto per l'astrazione pittorica, vuol dire parlare di riquadro o visore monocromo. Dal quadro al riquadro, dalla visione al visore: ecco riassunta in una frase la rivoluzione compiuta in pochi anni da Schifano", scrive Riccardo Venturi nel testo che accompagna la mostra, a proposito di " un occhio meccanico che Schifano adotta senza remore".
I monocromi rappresentano il punto sorgivo di quella linea ascendente che porterà l'artista a brillare come una stella cometa, assunto nel cielo della sua mitologia, e poi lo condurrà lungo una traiettoria di caduta, giù nel delirio da tossico e delle opere buttate via, le copie, i falsi e tutta l’incredibile vicenda esistenziale che per anni ha messo in ombra il valore di una produzione che non ha equivalenti ma solo epigoni.
Tornando al punto originario, Giuseppe Uncini racconta della comune idea di lavorare sul monocromo: «non importava più il disegno, non importava più niente. In un certo senso io c’ero già arrivato, già lavoravo con il cemento. Lui, più pittore di me, faticò parecchio ad abbandonare l’idea del colore, del disegno, del quadro, però lasciò tutto e ricominciò con una piccola tela. Sì, iniziò con un piccolo quadretto, stese dello smalto nero e nella stesura lasciò alcune parti leggermente scoperte. Era una pittura un po’ tirata via, molto disinvolta, quasi una strafottenza, un “me ne frego”.» (Luca Ronchi, Mario Schifano, Una biografia, Johan & Levi Editore, 2012, pag. 25-26)
Il monocromo è quindi il punto di azzeramento, il grembo da cui nasce il corpo pittorico di Schifano, ed è un tentativo di assumere una prospettiva che offra un’apertura a nuove germinazioni. Non si tratta però di una novità assoluta: è stato esplorato da Yves Klein, Piero Manzoni, Alighiero Boetti, Piero Dorazio, Tano Festa, Enrico Castellani, Lucio Fontana, Fabio Mauri e poi Ad Reinhardt, Barnett Newman e gli americani. Nel giornale che accompagna la mostra in corso da Marconi, è riportanto un passo che in parte chiarisce le intenzioni dell'artista in relazione ai monocromi:
I primi quadri soltanto gialli con dentro niente, immagini vuote, non volevano dir nulla. Andavano di là, o di qua, di qualsiasi intenzione culturale. Volevano essere loro stessi, così come fossero spezzoni di... [...] Fare un quadro giallo era fare un quadro giallo e basta. Le perplessità sono nate quando i critici ci hanno steso sopra le loro motiviazioni e un'intera letteratura. Ma io mi muovevo con autonomia. Il possesso di quel che facevo ce l'avevo soltanto io" (Enzo Siciliano, Nancy la fotografa, in "Il Mondo", 16 novembre 1972)
Schifano cerca quindi una propria strada, che si concretizza in una serie di opere già distanti dall’informale ma anche dalla pittura gestuale, che pure rimane una componente del suo lavoro. In queste opere il dinamismo, la velocità sono presenti ma allo stato solido, testimoniano l’istante prima che l’azione si compia. Mantengono ancora una relazione con la materia, una matrice culturale radicalmente europea e italiana che non si perderà mai del tutto e che segnerà una via tutta italiana alla pop art. Il colore coprente talvolta lascia spazio a delle aree nude, rimanda a un’idea dello schermo ma senza ricorrere alla tautologia: Schifano cerca un’evidenza, un’immediatezza propria dell’immagine fotografico-pubblicitaria ma per tradurla in un linguaggio personale, modellando pittoricamente una forma ancora in fieri. La sua è un’affermazione che non dice, è un paradosso. Sempe Venturi ne parla nei termini di "Una liberazione alla logica del progetto propria dell'avanguardia e del modernismo. Finalmente il monocromo si darà senza il fardello di un programma ideologico e utopico che lo riduce a poco più di un passo intermedio, per quanto necessario, verso una meta prefissata. E che, una volta raggiunta, farà inevitabilmente scomparire la singolarità di quell'opera."
Da quella frattura con il passato recente si irraggia una domanda che non si esaurisce con il passare del tempo e non riguarda l’assenza di figurazione. Non tutti i monocromi sono uguali, anzi ogni monocromo lo è a modo suo, per parafrasare Tolstoj, e i lavori di Schifano sembrano gravidi di tutto quello che verrà dopo: le palme, l’utilizzo delle scritte e dei loghi, le stelle, le foto dipinte, i paesaggi anemici, le tele emulsionate, i deserti, i televisori, i film impossibili. In fondo, in queste carte è già contenuta in potenza tutta l’iconografia che l’artista partorirà successivamente, quella urgenza espressiva che lo rende un artista bulimico, capace di bruciare tutto fino ad arrivare a negare la pittura stessa in favore di un’immagine meccanica, svuotata di sé, per poi giungere a una inaspettata rinascita negli anni ‘80, fino agli ultimi, misteriosi quadri scuri, che rappresentano una meditazione conclusiva sulla pittura e chiudono idealmente il percorso inaugurato proprio con i monocromi.
Tra gli Untitled e le opere dai titoli poetico-ironici come Vero amore incompleto, Qualcos’altro, Tempo moderno (tutte del 1962) scorre una palingenesi pittorica. Il rapporto con Marconi risale proprio agli anni ‘60, quando il gallerista vede i suoi lavori e lo mette sotto contratto in esclusiva, ma il menage si rivela subito complicato: Schifano non rispetta gli impegni, vende i quadri in autonomia, è imprevedibile; alle spalle ha già la brutta rottura con la Sonnabend, che gli chiede continuità produttiva proprio sui monocromi. Nel 1963 la mostra Tutto Schifano alla galleria Odyssia segna l’approdo alla pop art e dal 1965 realizza con Marconi una serie di mostre importanti, un ciclo che si interrompe nel 1970 dopo una fuga nel sud est asiatico dell’artista. Fa tutto parte della leggenda, di un’esistenza senza misura, nei fatti completamente votata al lavoro. Cosa rimane oggi di quella vicenda, di tutte le singole fasi della storia pittorica di un artista larger than life, e andando a osservare con la lente d’ingrandimento, cosa rimane di un solo biennio, il ‘60 – ‘62, quando l’artista è affacciato al successo, scattato come un corridore dai blocchi di partenza?
Forse una possibilità di risposta è nelle opere ostese nello spazio asettico della galleria. Silenziose, illuminate con una certa crudezza, ritmate dai blocchi di colore che avanzano verso lo spettatore, sembrano chiuse in sé stesse e invece sono germinative: in quello spazio-tempo che salda ciò che è prima e tutto quello che viene dopo, in quella condizione privilegiata di virtualità, risiede ancora un senso per chi guarda oggi. È il qualcos’altro che parla, come una memoria che agisce sul presente – una rammemorazione –, è quello che rimane fuori dall’opera e che non trova spiegazione. È come osservare una cellula da cui nasceranno altre cellule e poi una forma di vita complessa: nello spostamento dal sé a un sé potenziale, in un’evidenza che rimane permeata di mistero, è possibile rinvenire un’energia, una forza pristina, ancora intatta, che parla al dì là del tempo e dello spazio contingenti.
Oggi l’idea dell’immagine che vive attraverso uno schermo assume un valore completamente diverso da ciò che fu negli anni ‘60 ma l’intuizione originale risulta, se possibile, ancor più significativa. Se nella prima visione di Schifano il filtro dei media modellava le forme e intratteneva con esse un rapporto dinamico, oggi non vi è più distinzione tra le immagini e i dispositivi che le producono, così come si è dissolto il confine percepito tra immagine e realtà fattuale. Lo stesso artista ha indagato l’idea del flusso visivo per tutta la propria carriera, abbandonandosi volontariamente alla corrente delle immagini prodotte dai mass media, a tratti smarrendosi per poi riconquistare il controllo delle proprie visioni attraverso l’esercizio della pittura. Lo salva una forma di grazia che si manifesta come un balenare di luce nelle sue opere, e che fa sì che Schifano riesca a danzare con le immagini senza esserne mai fagocitato, senza annegare in un oceano di fantasmi. Tornando ai monocromi, a quelle composizioni dense ed elementari appartiene un modo di guardare che oltrepassa il corpo delle cose da parte a parte e riesce a restituircene il senso. In quell’apparente stallo che si traduce in un istante dilatato, che continua infinitamente ad accadere, si pongono le condizioni affinché le forme vengano separate dal flusso indistinto del visibile e tornino a vivere non come simulacri ma restituite al mondo con una nuova presenza, rinate. Uno spazio che avvolge l’accadimento della visione e che congiunge l’inizio e la conclusione dell’esperienza pittorica di Schifano. Lì ha ancora senso guardare, anche oggi.
«Là dove la luce che dà forma ai volti e alla vita e alle immagini fotografiche e mentali del mondo si presenta finalmente per quello che è. Dove c’è solo questo plasma di luce e tutti i volti e le persone e le cose e le forme e le loro immagini stanno dentro quel bagliore che cancella le forme e le identità delle forme. Non si vedrà più niente, ci sarà solo la catastrofe della luce.»
(Antonio Moresco, Lo sbrego, SEM, 2019).