Martha Nussbaum, Orgoglio tossico

10 Aprile 2023

Nell’ottobre del 2017 un’ondata di denunce per molestie e abusi a sfondo sessuale si è scagliata contro Harvey Weinstein, produttore della Miramax, generando un effetto domino tra moltissime donne che si sono riconosciute come vittime. Quello che è successo dopo è un fenomeno noto su scala globale. Il movimento del #MeToo è già entrato nella storia come una delle più grandi rivoluzioni culturali e mediatiche degli ultimi decenni, eppure ancora oggi la percezione di molti resta quella di un’accanita caccia alle streghe, una capitolazione di teste, una guerra aprioristica delle donne contro il genere maschile. La verità è che per me – come per molte altre donne e ragazzine più giovani – il discorso iniziato da un semplice hashtag ha significato l’inizio di un cammino di consapevolezza spesso doloroso ma sempre necessario. A riconoscere abusi subiti, per esempio, o a sottrarci da quelli che avremmo potuto subire in futuro.

A parte la vulgata di insinuazioni generaliste, revisioni a posteriori sul #MeToo tra le stesse frange femministe non sono mancate, in particolare relative alla modalità della denuncia, troppo spesso bloccata alle sole istanze individuali. Il libro di Martha Nussbaum Orgoglio tossico. Abusi sessuali e gerarchie di potere portato in Italia dal Saggiatore si inserisce proprio in questa fase di riflessione sul movimento, arrivando in libreria con tempismo significativo. Lo scorso 23 febbraio infatti il tribunale di Los Angeles ha condannato Weinstein a sedici anni di reclusione, in aggiunta ai ventitrè che l’ex produttore sta già scontando come esito di un primo processo concluso a New York nel 2020. 

Nussbaum scrive da una posizione di estrema autorevolezza, autrice di numerosi saggi interdisciplinari su diritto e femminismo, attualmente occupa una cattedra di etica e diritto all’Università di Chicago. “Questo è un libro sulla giustizia” scrive l’autrice nell’introduzione “una giustizia che però mira alla riconciliazione e a un futuro condiviso”. La necessità di questo saggio nasce dal fatto che secondo Nussbaum “il movimento del #MeToo ha portato con sé la sua buona dose di casi in cui la punizione non è stata né sfumata né calibrata, e in cui il fatto di puntare l’indice sulla massa umiliando la persona additata si è sostituito alla giustizia procedurale” (p. 12). Se la punizione potrebbe servire come deterrente all’atto stesso dell’illecito e quindi come strumento educativo circa il comportamento sociale adeguato, ecco che raggiunge il suo scopo solo quando fondata sulla legge, e non sulla semplice esposizione del carnefice sulla pubblica piazza. Lo scopo del saggio diventa dunque quello di descrivere “gli ambiti rilevanti del diritto e la loro storia” (p. 13) affinché qualsiasi lettore desideri fare appello alla legge in seguito a una molestia o a un abuso sappia come muoversi o quantomeno da dove partire. Il compito della legge (e più avanti di istituzioni e reti di supporto come i sindacati o le federazioni sportive) secondo Nussbaum è quello di trasformare il “trionfalismo giustizialista” delle singole voci in qualcosa che possa raggiungere risultati per tutte e tutti. Una visione oltre che pratica, anche molto ottimista, perché dovrebbe poter contare su una rieducazione sociale volta al riconoscimento delle dinamiche di potere, dei comportamenti sessisti e discriminanti, ma soprattutto a una critica profonda dei ruoli di genere, non solo a beneficio delle donne.

Nussbaum in effetti tocca la questione in modo indiretto e lo fa proprio nel presentare al lettore i propri strumenti di ragionamento. Gli obiettivi di fatto pratici di questo studio, che in molti aspetti potrebbe anche essere definito un manuale, hanno radici profonde nella visione etica che la sua autrice ha del sessismo endemico nella società occidentale. Il titolo del libro nella sua versione americana è Citadels of Pride, letteralmente cittadelle, enclaves di un orgoglio che ha molto a che fare con il suprematismo. “L’orgoglio gioca un ruolo pericoloso nel razzismo e nella disuguaglianza di classe, come pure nella discriminazione sessuale, esso ci permette di comprendere che una forma di abuso è collegata alle altre e […] ci invita a riflettere su come un’inaccettabile subordinazione razziale e un’intollerabile subordinazione sessuale siano degli aspetti fra loro collegati nell’ambito di una cultura […] malata”. (p. 15). L’eccellente traduzione italiana di Laura Majocchi concentra tutto questo discorso nell’aggettivo “tossico”, che subito rimanda all’idea di una certa mascolinità, ai suoi modelli di comportamento di forza e leadership ostentata, anche attraverso il sesso.

La non raggiunta parità totale di genere nella società occidentale ancora oggi, dopo il 2017, emerge nella sbilanciata ripartizione della cura all’interno delle famiglie, nell’assenza di una paga equa, nei continui ostacoli a una piena rappresentanza politica, ma soprattutto si evince in un atteggiamento di “oggettivizzazione” che Nussbaum descrive come “situazione in cui una persona viene trattata come se fosse un oggetto” e che nell’orgoglio tossico trova la sua ragione. “Chi ha una personalità pervasa dall’orgoglio tratta gli altri come se fossero degli oggetti perché vede unicamente se stesso” (p. 14).

Un saggio come questo, principalmente incentrato sul contesto americano e sul suo specifico sistema di giustizia, risulta più accessibile quando la trattazione abbandona l’ambito giuridico per abbracciare il tema della molestia e dell’abuso sessuale nel mondo delle arti, dello spettacolo e in quello dello sport. A risultare interessanti in questo caso sono le ricostruzioni minuziose di famose casistiche di abusi che dopo il 2017 e grazie all’ondata di denunce incoraggiate dal movimento #MeToo hanno trovato giustizia.
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Harvey Weinstein, Bill Cosby, Placido Domingo, James Levine sono tutti colpevoli d’abuso e molestie sessuali che oltre al reato hanno in comune anche un’altra cosa: il fatto di essere stati denunciati e puniti solamente alla fine della loro carriera. Come fa notare Nussbaum, “Weinstein, benché abbia solo sessantotto anni, è malato e stenta a camminare; Cosby, è cieco e malato, e la sua carriera televisiva appartiene ormai al passato; Levine, che ha settantasette anni, era arrivato al punto di non essere più in grado di dirigere un’orchestra a causa del morbo di Parkinson, prima che la direzione della Metropolitan Opera decidesse di credere alle voci che giravano sul suo conto fin dagli anni ottanta […]” (p. 210). Il momento della capitolazione è arrivato quando il potere di queste figure era già fortemente in declino. Come si potrebbero allora ottenere risultati migliori per prevenire o punire in tempo abusi in un settore tanto precario come quello dell’arte, per esempio, senza aspettare che persone tanto influenti smettano di contare qualcosa per le carriere precarie degli altri?

Questa è una domanda fondamentale, che riporta la trattazione su una questione che mi sembra ancora troppo poco sottolineata, ovvero la connessione tra lavoro precario e reticenza alla denuncia. In ambienti lavorativi fluidi come quello delle arti, della musica e della letteratura (che Nussbaum non considera, ma che mi sento di aggiungere) si creano situazioni in cui il luogo di lavoro spesso sono le nostre case, i contesti non sono ben delimitati e gli eventi sociali e lavorativi spesso si sovrappongono creando forti ambiguità tra impiegati e datori di lavoro potenziali o effettivi. Le modalità stesse del lavoro creativo – sempre meno protetto da tutele di tipo contrattuale, saltuario, a breve termine – inibiscono le vittime di abusi o molestie a farsi avanti per paura di vedersi impedire future possibilità di carriera.

Eppure Nussbaum aiuta a mettere a nudo dei preconcetti che è importante scardinare, come quello per esempio che a un artista sia concessa la trasgressione, un mito che riguarda nello specifico in modo schiacciante la creatività maschile. Questo è il caso di James Levine, “uno dei più grandi musicisti del nostro tempo” (p. 232) che ha diretto l’orchestra del Metropolitan Opera di New York dal 1976 al 2017. L’artista difendeva il connubio tra sesso e musica presentandolo come punto focale della sua concezione olistica dell’arte. Stando ad alcune testimonianze riportate da Nussbaum, l’eccitazione sessuale avrebbe dovuto aiutare i musicisti a esercitare l’autocontrollo e al tempo stesso a liberarsi dalle inibizioni; nel caso di Placido Domingo, invece, la sua reputazione da “donnaiolo” arrivava a giustificare atteggiamenti impropri e molesti nei confronti delle colleghe, mentre il tenore veniva costantemente coperto da un management principalmente interessato ai profitti. Le storie raccolte da Nussbaum in Orgoglio tossico sono tante. In esse si riconoscono dei pattern fin troppo familiari la cui frequenza conferma che non si tratta solo di poche “mele marce” ma di un’intera piantagione con radici ben fondate in un terreno avvelenato. Uno studio come questo aiuta a vedere con chiarezza quali sono le concrete risposte che la società americana sta portando avanti nei confronti del sessismo, degli abusi e delle molestie, ma per chi lo legge dalla periferia dell’Impero – un’area in cui le istanze sollevate dal #MeToo restano ancora troppo poco comprese nella loro organicità – l’effetto è doppiamente straniante. Da un lato si percepiscono certi provvedimenti come troppo lontani da noi, mentre dall’altro ci si chiede come sia possibile parlare di conseguenze di un movimento, se il movimento in sé sul territorio italiano solo con difficoltà è riuscito a raggiungere obiettivi concreti. 

Nel 2021 la giornalista Giulia Siviero ha scritto un articolo molto completo su Internazionale dal titolo È vero che in Italia il #MeToo non c’è mai stato?, in cui si ricorda come Asia Argento, Miriana Trevisan e altre donne dello spettacolo siano state attaccate ed umiliate su molteplici media per aver denunciato troppo tardi, o per aver parlato pubblicamente ma non nei tribunali. La percezione che il movimento in Italia non sia mai arrivato pienamente, come fa notare Siviero, deriva dal fatto che “nel paese non siano state rilevanti le conseguenze per i singoli uomini coinvolti, né dentro né fuori dei tribunali” nonostante il lungo impegno della critica femminista nei confronti dell’esercizio maschile della giustizia. Quello che tuttavia non può essere riavvolto come un nastro e poi cancellato, è la consapevolezza che esperienze del genere siano molto più comuni di quanto non si credesse prima. Basta imparare a riconoscerle e a chiamarle con il giusto nome. Come più volte ha ripetuto la scrittrice Giulia Blasi, era importante dimostrare quanto il problema degli abusi e delle molestie sul lavoro interessasse l’intero sistema, prima di cominciare a lavorare a una palingenesi sociale che lo rovesciasse. A tal proposito, nonostante il focus sulla questione americana, il recente studio di Nussbaum riesce a parlarci da vicino nei suoi ragionamenti più etici, soprattutto nel connettere il problema del sessismo alla rigidità dei ruoli di genere che ancora oggi regolano le dinamiche di potere dentro e fuori l’ambiente di lavoro.

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