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Diario (6) / Dovete morire!
“Dovete morire!”. Così ha risposto un’adolescente, senza pietà, a una signora anziana che rimproverava lei e i suoi compagni di non portare la mascherina e di stare abbracciati. La signora anziana, dall’alto del balcone, si lamentava guardando i giovani lì in basso che non rispettavano le regole, “non siete responsabili!”, gridava. I ragazzi sono stati per un poco ad ascoltarla, sorridendo tra loro, poi la più sfrontata, una testa di riccioli biondi e il dito puntato verso il balcone: “Dovete morire!”.
La scena è avvenuta a Ravenna, non lontano dalla tomba di Dante Alighieri, quella tomba di cui abbiamo raccontato domenica scorsa le tumultuose vicende, legate alle ossa del poeta. Sempre di morte si tratta…
Già. Le regole, il covid: tutto giusto. Dobbiamo essere responsabili, e figurarsi se non debbono esserlo i più giovani, e ascoltare la voce della ragione che li sgrida dall’alto di un balcone del centro storico. Ma anche chiederci: cos’è la “responsabilità” che chiediamo agli adolescenti, in un mondo di adulti sciagurati e irresponsabili? Cos’è la “responsabilità” in un mondo che, a parole, predica e proclama i grandi “valori”, ma nella pratica idolatra il denaro e il potere, permette ingiustizie e diseguaglianze atroci e spinge il pianeta verso la distruzione? Lo scioglimento dei ghiacciai va di pari passo con lo scioglimento dei cervelli. Cos’è la “responsabilità” in una Nazione dove la corruzione da decenni la fa da padrone, dove tanta economia è in mano alla criminalità organizzata, in un’Italia ancora “serva”, come la definiva Dante sette secoli fa? Ma come possiamo chiedere “responsabilità” ai più piccoli? Loro ci guardano e ci giudicano, e se la ridono delle prediche ipocrite. Come d’altronde hanno sempre fatto, gli adolescenti, ricordiamoci il Padre Ubu di Alfred Jarry, caricatura feroce del mondo adulto e “responsabile” fatta da una classe del liceo di Rennes, in Bretagna, alla fine dell’Ottocento.
Come possiamo chiedere “responsabilità” quando, da decenni, la politica ha scientemente azzoppato il ruolo della scuola e dell’università, “nell’indifferenza più o meno generale, in cui tutto si è fatto routine e burocrazia”, come ha lucidamente scritto Anna Stefi su queste pagine, quella scuola che i padri costituenti definivano “pilastro della Nazione”, quell’architrave che abbiamo sostituito con la Grande Maestra, la Televisione, esaltando la competitività e la prestazione e l’eliminazione dell’altro a colpi di Amici e di X Factor. Uno su mille (o un milione) ce la fa: e gli altri? Tutti falliti? Tutti sprofondati negli inferni della depressione e dell’invidia? Questo è il messaggio che passa attraverso i nuovi canali di “formazione”, i social, attraverso il diluvio di pubblicità che ormai consideriamo “naturale”: è “naturale” che l’imperativo quotidiano sia “fai soldi, compra e consuma”, se puoi, e se non puoi “consùmati”?
Ma non le sentiamo le grida disperate dei nostri adolescenti? Quel “dovete morire!” non va letto come un cinico sputo. Dietro quella “cattiveria” c’è il segno atroce di una condizione psicologica in cui vita e morte contano poco. C’è lo sberleffo di chi fatica a credere in qualcosa perché le parole dai balconi gli risuonano in testa come “perle false”, se non sono accompagnate da azioni coerenti. Non vi crediamo, questo il rimbombo di quel grido. Per quanti giovani vanno in piazza con Greta Thunberg e i Fridays for Future, impegnati a far luce sul presente, ve ne sono altrettanti, se non di più, che ci appaiono stanchi, annoiati, demotivati. E certo la pestilenza ha aggravato ancor più questa condizione, generando inedite forme di depressione. Ma non è vero: non sono così come ci appaiono. Ci metto la mano sul fuoco, e insieme alla mano trent’anni di laboratori teatrali con gli adolescenti di mezzo mondo. Ne ho incontrati migliaia, a tutte le latitudini, da Scampia a Nairobi, da Lamezia Terme a New York, da Venezia a Mazara del Vallo. Credetemi: non sono così. Hanno un disperato bisogno di essere presi sul serio. Di essere amati. Come ce l’avevamo noi alla loro età, come ce l’abbiamo ancora oggi, perché non c’è età della vita in cui il centro, il centro più profondo del nostro io, non sia l’amare e l’essere amati, quel punticino attorno a cui ondeggiano tutte le nostre instabilità, le nostre incertezze, i nostri terremoti.
Essere davvero guardati: questo solo conta. E attorno a quel “centro”, a quel “punticino” invisibile, si misurano i veri genitori, i veri insegnanti, i veri artisti che ancora fanno veleggiare la barca della martoriata Nazione. L’attenzione, questa l’arte più importante: non sei invisibile, ti guardo e ti ascolto perché non sei un numero, un like sul cellulare, tu sei unico! Per quanto fragile e mortale, sei un mondo irripetibile che si specchia nel mio, e proprio tu mi interessi, mi interessano le tue ferite e i tuoi desideri. Il tuo destino, la tua destinazione: sei il germoglio che diventerà pianta, e darà ossigeno all’universo. E il canto della tua anima rallegra la mia esistenza di genitore, di insegnante, di artista.
Non ho parlato di verso Paradiso? Al contrario. Non solo gli adolescenti, anche Dante Alighieri dovremmo prenderlo sul serio, e onorare la questione che pone con la sua Commedia. Che non è affare di estetica e bello stile e convegni e premi letterari, è la questione: inferni e felicità. È un grido nella notte, dal profondo della “selva oscura”. Ho scritto il poema, dice Dante nella XIII epistola a Cangrande della Scala, per “allontanare i mortali dallo stato di miseria e condurli alla felicità”. Se queste parole, citate in una miriade di manifestazioni nel presente settecentenario dantesco, fossero davvero prese sul serio! Nel ricordarle, dovrebbe tremarci la voce. Se guardassimo a ogni nostro singolo ragazzino o ragazzina come l’everyman smarrito nel bosco, se sapessimo che è proprio di quel ragazzo timido o di quella ragazza scontrosa che ci racconta il poema, e che proprio per loro il profugo, il condannato a morte Dante Alighieri ha composto il suo poema, allora, solo allora, potremmo permetterci di suggerire ai nostri ragazzi la via, che è appunto quella da millenni, quella di un lavoro responsabile su se stessi. Perché la felicità non è merce che si acquista all’iper: è il frutto di un impegno quotidiano, di una disciplina gioiosa. “Ca’ Zoiosa”, appunto, così aveva chiamato la sua scuola Vittorino da Feltre, pedagogista geniale del Rinascimento.
L’altra sera, alle Artificerie Almagià, a Ravenna, un magazzino dello zolfo convertito in teatro alla fine del secolo scorso, ha debuttato lo spettacolo Infernoparadiso delle compagnie Drammatico Vegetale e Teatro del Drago. Entrano i quattro musicisti, si siedono, mettono a posto gli spartiti, accordano gli strumenti. Come fanno di solito: due soffi, il pizzicare di due corde. Finiscono, e nel silenzio una bambina in prima fila prorompe in un convinto “Sono davvero bravi!”, che suscita il sorriso della sala intera. Sembrava il plauso autorevole di una regina d’altri tempi, alla fine della prima esecuzione di una sinfonia di Mozart. E non si era che all’inizio, anzi, prima dell’inizio. Mai dichiarazione sulla necessità di riaprire i teatri è stata così limpida e sintetica.
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro. Irina Wolf è critica teatrale e giornalista.
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