Fondazione Prada, una mostra sul fare mostra / POST ZANG TUMB TUUUM: arte, politica, potere e remake

31 Marzo 2018

Con Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918 1943 Germano Celant firma una mostra-evento per raccontare il rapporto tra arte e politica in Italia tra le due guerre mondiali. In un momento di stasi post-elezioni e in un clima di tifoseria calcistica nazionalpopolare applicato alla tenzone politica, si tratta di un’occasione importante per assistere a una mostra di alto profilo che offre l’opportunità di riflettere sul presente della pratica curatoriale e della società. Con Post Zang Tumb Tuuum ci troviamo di fronte a una operazione destinata a far discutere, una mostra sul fare-mostre sontuosa e affascinante nella sua esibita freddezza.

 

Dinanzi all’imponente allestimento, la domanda legittima è perché la Fondazione Prada abbia deciso di spingersi su un territorio così problematico, proponendo un’esposizione che per metodologia e struttura – consta di oltre seicento lavori – sarebbe idealmente destinata un museo. Le ragioni sono molteplici, in primis il desiderio di consolidare il proprio ruolo di polo d’eccellenza milanese, realizzando una operazione fuori scala, che non sfigurerebbe in una grande istituzione internazionale, scegliendo come firma il curatore italiano più noto al mondo, una figura che con arte e politica intrattiene una relazione di lungo corso. Sembra lecito ipotizzare che anche il clima odierno di confusione politica e i venti revanscisti che soffiano sul paese possano aver giocato un ruolo non accidentale nella volontà di costruire un’esposizione dall’indiscutibile appeal mediatico. Infine, la mostra aggiunge un capitolo importante alla pratica del reenactment che Prada ha già sperimentato con successo nel caso di When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, a cura dello stesso Celant, remake della mostra seminale di Harald Szeemann tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1963.

 

 

Celant propone un allestimento che rinuncia all’estetica del white cube, modello che per decenni ha dominato le scelte dei curatori offrendo una matrice formalista fertile e plasmabile, optando per un metodo di ricostruzione scientifico-storiografico, che privilegia la messa in luce dei punti di contatto tra le figure artistiche, la società civile e la politica, concentrandosi sul contesto in cui le opere sono maturate. Il focus della mostra è quindi il display, inteso come sistema in cui lo spazio, l’artefatto, il contesto concorrono a creare un ganglio di senso. 

Non è la prima volta che la Fondazione Prada ospita un’operazione di reenactment: la riproposizione differente – e differita – di una mostra storica è ormai un fenomeno conclamato e costituisce una pratica espositiva orientata a una riflessione “raffreddata” sull’arte. Il remake ha spesso come oggetto la rimessa in scena di performance, proprio per la natura transitoria dei fenomeni, come Ebrea, lavoro di Fabio Mauri del 1971 riproposto dalla galleria Hauser & Wirth di New York per la mostra With Out, o Seven Easy Pieces di Marina Abramovich vista al Guggenheim di New York nel 2007. Celant, già autore al Madre di Napoli di Arte povera più azioni povere nel 2011, la celebre rassegna tenutasi ad Amalfi nel ’68, porta avanti l’analisi sul dispositivo-mostra moltiplicando i reenacts, creando una specie di bolla museale, un organismo espositivo all’interno del quale vengono ricollocati eventi e oggetti appartenenti a un preciso arco temporale: non più una ma numerose le ricostruzioni dei contesti d’epoca, a partire dalla sala dedicata a Felice Casorati nella Biennale del 1924 o l’appartamento di Léonce Rosemberg, con La scuola dei gladiatori, Il combattimento (1928) e Gladiateurs au repos (1928-30) di Giorgio De Chirico, o ancora la meravigliosa sala di Arturo Martini alla Biennale del ‘31, con le terrecotte La veglia (1931), L’aviatore (1931).

 

In una certa misura, con questa operazione ingegneristica le opere esposte passano in secondo piano rispetto all’articolato sistema di forze che compone l’insieme-mostra, e Celant fa in modo che nessun singolo pezzo funzioni in maniera autonoma, ridimensionandone la possibilità di significazione in sé. Ponendo enfasi sul sistema, in opposizione al frammento, nel tentativo ambizioso di avvicinarsi filologicamente alla realtà in cui le opere presero vita attraverso una minuziosa ricostruzione degli ambienti, degli studi, delle case e dei luoghi pubblici è un’ambizione stimolante ma il cui risultato pone lo spettatore di fronte a delle domande, e non sembra offrire una filosofia espositiva in grado di esaurire la problematicità della materia. Cambiando prospettiva, si può leggere però questa non-risoluzione come un punto a favore del lavoro del curatore, capace di edificare una imponente architettura espositiva e concettuale, impossibile da liquidare con letture pacificanti. La stessa mole della mostra respinge ogni possibilità di fruizione istantanea o di lettura schematica, pop-up, ponendo lo spettatore in una condizione immersiva e a tratti ammaliante, a cui difficilmente riuscirà a sottrarsi.

 

 

Celant, lavorando come uno storico dell’arte che ha incenerito l’Accademia, procede in un vertigine di accumulazione di opere, nel tentativo cosmogonico di ricostruire un mondo, quel mondo percorso da energie telluriche e lampi di guerra che fu l’Italia tra il ‘18 e il ‘43. Per farlo predilige l’utilizzo della fotografia rispetto alla parola scritta, identificandola come strumento capace di maggiore efficacia nel testimoniare il reale, nello specifico i rapporti esistenti tra l’oggetto d’arte e il contesto, e soprattutto per riportare alla luce con evidente immediatezza le modalità con cui l’oggetto d’arte è transitato nei luoghi e nel tempo d’appartenenza. 

Eppure, qualcosa scricchiola. L’inseguimento del reale attraverso l’operazione del remake si traduce nella sensazione di assistere a un intervento finzionale. Per la stessa logica per cui, osservando una mostra realizzata in un preciso momento storico noi guardiamo a un mondo intero e non solo a un evento conchiuso nel tempo, formalmente autonomo, così osservando la lussuosa e ipercontrollata mostra alla Fondazione Prada di dipana dinanzi a noi, prima di tutto, un modo di fare curatela nel 2018, un mostra che parla dell’immediata sensibilità contemporanea e non aggiunge necessariamente qualcosa alla comprensione storica del periodo analizzato. Possiamo anche affermare che Post Zang Tumb Tuuum si attesterà come una case history nell’ambito degli studi curatoriali, ma probabilmente, voltando lo sguardo a ritroso, ciò che leggeremo sarà un testo che ci parlerà più della realtà a noi prossima che del mondo tra le due guerre, una specie di elegia dell’archivio e una straniante forma di augmented reality analogica.

 

Dal punto di vista delle opere, sembra quasi pleonastico precisare che in mostra siano raccolti pezzi straordinari, frutto di oltre due anni di lavoro, prestiti prestigiosi e di un lavoro raffinato di cernita: partendo dai futuristi, è visibile La città che sale (1910-11) di Boccioni, uno dei suoi capolavori, il Marinetti temporale patriottico (1924) di Depero, il poemetto che dà il nome alla mostra Post Zang Tumb Tuuum di Marinetti e poi riviste, materiali,carteggi, documenti. La prima parte dell’esposizione si apre con la figura iconica di Filippo Tommaso Marinetti: colto, dandy, appassionato di Zola, Mallarmé, Baudelaire, Wagner, il suo Manifesto del Futurismo del 1909 segna la sua agnizione e l’inizio della prima, vera avanguardia italiana di inizio secolo. La temperie culturale di quei vorticosi anni vede come protagonista assoluto – e non potrebbe essere altrimenti vista la prepotenza del loro portato e la loro attitudine vitalistica – il movimento dei futuristi. A nove anni di distanza dalle mostre ospitate da Palazzo Reale e dal Centre Pompidou di Parigi per celebrare i cento anni del movimento, ancora oggi stupisce cogliere la ricchezza di quell’esperienza e la profondità delle intuizioni di Marinetti, che si fece portavoce di una rinascita dell’arte italiana riuscendo a fondere il Simbolismo europeo e in particolare francese, il superamento dell’Impressionismo attraverso una riflessione originale sulla forma, alimentata dalle scoperte scientifiche rilette in chiave poetica, e la capacità di utilizzare il futuro come territorio di possibili per costruire il presente. Malgrado la mostra si apra in medias res, osservando le opere si rivelano i portati dell’esperienza divisionista e impressionista, con Medardo Rosso e Gaetano Previati come presenze in absentia. I futuristi raccolgono su di sé le correnti energetiche che percorrono la società intera. Nauseati dal passatismo, rifiutano con determinazione la componente nostalgica ottocentesca e alcuni portati del Modernismo, per fare spazio all’azionismo. Proprio l’idea avanguardistica di superare il perimetro dell’arte per intervenire sulla vita stessa e il desiderio di fare tabula rasa della tradizione, collocano il futurismo in una posizione di divergenza rispetto al movimento modernista e pongono le basi di tanta sperimentazione contemporanea, dalla performance art alle installazioni multimediali.

 

Nella sua vocazione turbolenta, irriverente, iconoclasta, qui perfettamente rappresentata, il futurismo apre le porte a uno scenario di innovazioni creative che giungono fino ad oggi, rappresentando uno dei momenti più fertili del Novecento italiano. Ecco allora Guerra-festa (1925) e Rissa (1926) di Fortunato Depero, emblematici di un azionismo di stampo ardito tradotto in pittura, la riproposizione dell’esposizione dei futuristi alla Terza Biennale di Roma del 1926, con la tela Fascisti/Antifascisti di Balla, che sembra anticipare tanta street art odierna, e il pattern ironico di Canaringatti Gatti futuristi (1923-1924) precursore di un gusto per il design che avrebbe trovato piena espressione solo molti anni dopo.

Ma se il futurismo rappresenta uno dei cardini della sperimentazione culturale della parentesi tra le due guerre, la mostra offre uno spaccato ben più ampio e ha il merito di cercare di restituire tutto il fermento creativo che anima il paese, percorso da inquietudini profonde e diviso tra la memoria della peggior guerra di sempre, quella del ‘15-18, che ha annientato una generazione, e le ombre incombenti dei totalitarismi nascenti. E soprattutto è l’occasione per accostarsi ad artisti straordinari e parzialmente dimenticati, come Felice Casorati, di cui si può ammirare una parete splendida che è la ricostruzione della Moderne Italienische Kunst alla Kunsthalle di Berna del 1938, o l’opera dello straordinario Adolfo Wildt: di quest’ultimo, scultore linee cosmiche e virtuosismi insuperati, campione del simbolismo lombardo di ascendenza mitteleuropa, sono raccolti così tanti pezzi da comporre quasi un’antologica, compresa la sala della Biennale del 1922 e il Pio XI proveniente dai Musei Vaticani.

 

 

Accanto ai Futuristi è ben rappresentata l’altra grande matrice concettuale rappresentata dal ritorno all’ordine di Valori Plastici, il cui primo numero esce nel 1918, e da Novecento, il gruppo la cui mentore fu Margherita Sarfatti. Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Mario Sironi e Ubaldo Oppi, sono gli alfieri di una pittura che ritorna ai valori di chiarezza, sintesi e concretezza delle forme. L’antitesi all’avanguardia di Novecento passa dalla ricerca di un’idea di modernità che si fonda su una precisa identità storica e nazionale, rivolta verso la tradizione della grande pittura e scultura italiane e di nuovo interessata a temi quali il paesaggio e la figura umana, allontanandosi sia dai dinamismi sperimentali cari ai futuristi, sia dalla frammentazione tipica dell’impressionismo. Di tutti i primi associati, Sironi è l’astro più oscuramente rilucente: già futurista, lascia poi spazio alle inquietudini metafisiche con la sua pittura colta, dal solido impianto plastico, influenzata dal Quattrocento, dal cubismo e dall’espressionismo e intrisa di una classicità declinata attraverso il filtro una sensibilità tragica. La sua parete alla 18esima Biennale del 1932 è una delle cose per cui vale la pena pagare il biglietto. Sironi è anche l’unico artista del gruppo apertamente fascista, che arriverà a teorizzare un’arte del popolo, “sociale per eccellenza”, antica e contemporanea allo stesso tempo e mai propagandistica, nel Manifesto della Pittura Murale del 1933. Più di tutti, sarà colui che pagherà lo scotto della sua identità politica, tanto che la sua opera per decenni verrà ostracizzata. 

 

Da Sironi si passa a Carlo Carrà, di cui è visibile la sala 22 della XVI Biennale del 1928, che lo consacra come uno dei punti di riferimento della sua generazione, e poi Fausto Pirandello, Romolo Romani, Corrente e la Scuola Romana con Mario Mafai e Scipione, di cui è visibile l’allestimento del 1941 di Franco Albini per la mostra a Brera, Carlo Levi, Fausto Melotti, la serie satirica dei Dux di Mino Maccari; ancora, Marino Marini, Giorgio Morandi, Alberto Savinio, le sperimentazioni fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, i ritratti fotografici di Elio Luxardo, dall’allure divistica, e quelli di Ghitta Carell, la ritrattista più celebre dell’epoca, i cui scatti contribuirono a edificare l’immagine patinata dell’aristocrazia dell’epoca, il design di Bruno Munari e Giò Ponti, le arti decorative e soprattutto la pubblicità, che in quegli anni visse un momento di pieno splendore. Infine, un capitolo a parte meriterebbe l’architettura, per il ruolo centrale che assunse nella relazione con il potere e per il grado di innovazione cui giunsero i progetti architettonici di Giuseppe Terragni, Giovanni Muzio e Antonio Sant’Elia. Da vedere anche le carte delle impressionanti bonifiche che cambiarono il volto dell’Agro Pontino e le nuove città Littoria (poi Latina), Sabaudia e Pontinia. Così tanti sono i percorsi che si potrebbero tracciare e i profili artistici, che lo spettatore è travolto da una vertigine di possibilità, tra percorsi storici già definiti e incontri imprevisti, accostamenti, punti di contatto tra sensibilità distanti e opere germinali, in anticipo sui tempi.

 

 

Accanto alle opere e ai materiali d’archivio, viene proposta anche una selezione di ventinove cinegiornali d’epoca che documentano le inaugurazioni di alcuni tra gli eventi fondanti della vita culturale di quella stagione, come la Mostra della Rivoluzione Fascista di Roma del 1932 o la Biennale del giugno del 1938. Vedere le immagini dei cinegiornali, a cui si aggiunge la navata impressionante dove vengono proiettate le fotografie dell’Archivio Centrale dello Stato, fa correre un brivido lungo la schiena. L’atmosfera lugubre del regime fa oscillare lo spettatore tra un motivato senso di angoscia e la percezione della straordinaria abilità persuasiva dell’apparato propagandistico del Fascio. Visitando le sale si viene colti da una sensazione di inquietudine ma anche da un entusiasmo per il genio italico che tende a tratti a far passare in secondo piano il contesto tragico in cui le straordinarie sperimentazioni degli artisti presero forma, e fa riaffiorare l’ambiguità che segnò le scelte della maggioranza degli artisti, oscillanti tra l’aperto sostegno al regime o una muta accondiscendenza, in nome di una autonomia creativa che li rendesse liberi di poter esercitare la propria arte senza rischi: d’altronde, l’alibi di molti fu ad impossibilia nemo tenetur. Ma anche laddove l’arte si fa più lontana da posizioni dichiarate e si richiude su se stessa, coltivando uno spazio privato in cui i venti di guerra non soffino, la mano longa del curatore giunge per reinserirla nell’arena politica e storica da cui non può prescindere.

 

Osservare la dialettica tra avanguardia e modernismo, tra potere e arte, tra sostenitori di regime, oppositori, “agnostici”, rimanda inevitabilmente a una dinamica di spaccature sociali che sembra riprendere corpo a seguito di anni di ottundimento politico. La rilevanza che l’arte ha avuto nella costruzione dell’identità di un paese è una dimensione che sembra ormai smarrita, senza possibilità di appello, dopo l’esperienza delle neoavanguardie e con la linea di confine del ‘68. Sebbene l’arte non abbia mai smesso di essere politica, il suo ruolo appare determinato dal capitale, che ha innescato un processo di assorbimento e neutralizzazione delle sue componenti problematiche, riducendola per lo più a intrattenimento o a bene di lusso. Anche per questo motivo, l’arte italiana tra le due guerre merita di essere guardata con un occhio analitico e appassionato, senza temere, da spettatori, di rivendicare un punto di vista e di sporcarsi le mani. Proprio oggi che lo sfondo politico è completamente mutato e lo spazio in cui le forme contemporanee si configurano, modellato dalle tecnologie digitali, è giustapposto, privo di punti cardinali, in continuo divenire e atemporale, forzatamente post ideologico. 

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