La sostanza della realtà / Westworld e la teoria del tutto
In un futuro non troppo lontano, un parco a tema riproduce il vecchio west nei minimi dettagli. Cowboys, prostitute, baristi: i turisti si mescolano alle attrazioni, e gli uni sono indistinguibili dagli altri. La sola differenza tra questi, è che i turisti sono umani, e le attrazioni, anche se lo sembrano in tutto e per tutto, non lo sono: sono robot, androidi, veri e legittimi nipoti dei replicanti di Dick. I turisti possono fare tutto ciò che vogliono ai robot. Possono ucciderli, possono violentarli. Alle attrazioni è impedita, viceversa, ogni reazione, secondo una versione adattata delle tre leggi della robotica di Asimov. L'esperienza per i turisti è entusiasmante, quanto terribile per le attrazioni, che ogni giorno vengono rattoppate e ricominciano a interpretare il ruolo scritto per loro, senza ricordo delle migliaia di morti già vissute, dei dolori già provati, dei ruoli diversi recitati. I robot non hanno accesso al proprio passato, solo a tratti affiorano immagini che assomigliano a reminiscenze di vite passate, simili a sogni.
Il segreto di Westworld, e dell'incredibile grado di realtà che caratterizza il parco, è dunque che le attrazioni non solo sembrano reali, ma provano vero dolore, vera paura. E questo, ovviamente, fa dei turisti degli aguzzini altrettanto terribili. Intorno alle attrazioni si muovono le centinaia di persone che lavorano per il parco. I tecnici, gli sceneggiatori, i chirurghi, i manager. Una factory, diremmo.
Dal punto di vista filmico e narrativo, la serie vive momenti alterni. Alcuni l'hanno accusata di utilizzare cliché, di essere prolissa e a tratti ripetitiva. Ma tutti le hanno riconosciuto un’ambizione inusuale in un prodotto mainstream, e hanno apprezzato un finale di stagione all’altezza delle migliori premesse.
Westworld è una serie stratificata, con decine se non centinaia di rimandi possibili. Da dove cominciare? Da Alice nel Paese delle Meraviglie, forse, di cui sarebbe alter ego la stupenda Rachel Wood. Le citazioni da Carrol ci suggeriscono di interpretare l'intera serie come una metafora, un rompicapo basato sui ribaltamenti di prospettiva. Allo stesso modo, potremmo leggere la serie partendo dagli omaggi alla fantascienza classica. Potremmo trovare in essa rimandi biblici, un po' di mitologia, una manciata di richiami espliciti al rinascimento, alle teorie di abduction, alla reincarnazione.
Ovviamente, uno dei temi principali è il rapporto uomo-macchina, questione su cui il cinema si interroga dai tempi di Metropolis. Il contributo di Westworld alla questione è brillante: le macchine sono (saranno) umane nel momento in cui soffriranno come noi soffriamo, e gli daremo la possibilità di ricordare il dolore vissuto. Blade Runner, ovvero Dick, tracciò una strada, suggerendo i ricordi come discrimine tra vero e falso. Westworld va oltre, individuando nel dolore la sostanza stessa dei ricordi (ciò che più non è, oppure ciò che è stato e non può essere cambiato) e quindi della verità ultima su ciò che è animato. Colui che non soffre, ma soprattutto non ricorda di aver sofferto, è povera terra, dotata di semplici capacità cinetiche, come il Golem di Meyrink. “Il passato è la sola realtà umana, tutto ciò che è, è passato”, diceva Anatole France.
Westworld è quindi serie (la prima forse, almeno in maniera evidente) che espone una “teoria del tutto”, e come tale si nutre di, e strizza l'occhio, letteralmente, a tutto. Dell' idea crichtoniana originale (Westworld, 1973) rimane poco, se non lo spunto. Il parco a tema, feticcio di Crichton, resta, come l'attesa della catastrofe: sin dalla prima puntata aspettiamo che qualcosa si rompa, nella complessa struttura creata per far divertire gli esseri umani. Quello che cambia sono le somme, e qui l'ambizione di Jonathan Nolan si rivela altissima, se non luciferina. Nolan non si accontenta di dare agli uomini una lezione, ci vuole parlare niente meno che della realtà. Prende un parco divertimenti, la cui massima ambizione sia sembrare, appunto, “reale”, poi arretra il punto di vista fino a farne meta-teatro. Poi suppone un creatore, ed infine (per questo luciferino) lo sottopone a giudizio. Non completamente, a dire la verità. Nonostante il pessimismo insito in una visione che vede il robot (l'uomo) come semplice mezzo di intrattenimento, in balia di numi capricciosi, crudeli e fatui almeno quanto quelli di Omero, Nolan non riesce, curiosamente, ad affondare la lama nel cuore del Demiurgo: al fondatore Ford-Hopkins viene riconosciuta comunque un’intenzione più alta, che lo riscatta ma in ultima analisi lo rende, dal punto di vista narrativo, indecifrabile. Il personaggio è consegnato di diritto alla schiera delle divinità insondabili, e più specificamente delle divinità gemellari.
Ford e Arnold, i due fondatori originari, sono infatti un unico personaggio con intenzioni solo apparentemente antitetiche, una sorta di Giano bifronte, antichissimo Dio latino delle soglie, e per estensione, guarda caso, degli inizi delle cose.
Inoltre, la questione del doppio ideatore rimanda alla interessante Teoria della Mente Bicamerale (Il Crollo della Mente Bicamerale e l'Origine della Coscienza, Julian Janes, Adelphi, 1976), citata nella serie come principio-base su cui è stata costruita la mente dei robot. Secondo questa teoria, i due emisferi del cervello comunicavano anticamente in modo diverso, e soltanto alla fine di un processo millenario abbiamo avuto la formazione vera e propria di una coscienza. In sostanza, per molto tempo e ancora in epoca biblica, la voce di un emisfero sarebbe stata percepita dall' altro come esterna a sé, e questo avrebbe portato a credere nelle divinità. Noè sentiva distintamente la voce di Dio nella sua mente, Abele pure. A Caino la voce di Dio si negò. La scomparsa progressiva di questa caratteristica avrebbe traghettato l’uomo dall’ antichità all’ era moderna. È probabile quindi che tutta la macro-metafora Westworld riguardi la mente in sé, e forse una mente in particolare, di cui Ford e Arnold potrebbero essere gli emisferi gemelli. Arnold dopotutto è il socio scomparso, e per metà della serie è, appunto, solo una voce.
Ad ogni modo, il divertimento, le sparatorie, le bizzarrie distopiche e le cacce al tesoro in salsa western sono solo un pretesto. Dietro tutto questo si cela il tentativo dell’autore di portarci a riflettere su questioni affilate. “La bellezza è un'esca”, ripete spesso la protagonista, Rachel.
Westworld si spinge a discutere della sostanza della realtà. È in buona compagnia, diranno gli attenti lettori, dato che la questione è qui tra noi, da sempre... Shakespeare, Calderon, Ende, Philip Dick, Jonathan Lethem e Joe Lansdale sono solo alcuni degli artisti che si sono spinti, nei secoli, a intravedere nel paesaggio i segni di una quinta dipinta. Matrix e The Truman Show sono tra i film che han raccolto la sfida, e sono arrivati a trattare l’argomento con successo. Ma la questione è diventata davvero attuale, di recente, quando persino alcune realtà imprenditoriali han cominciato a interrogarsi sulla questione, vedi Elon Musk, l'astrofisico deGrasse Tyson e una manciata di startup, che letteralmente cercano di trovare un indizio concreto sul fatto che questa cosa che chiamiamo vita sia “vera”, qualunque cosa significhi.
Il paradosso è sempre lo stesso: la vita è strana, disse qualcuno, ma rispetto a cosa?