Milano / Paesi e città

30 Settembre 2011

Non so bene perché, ma il quartiere dove sono nato mi ha sempre fatto pensare all’America, agli Stati uniti d’America per essere precisi. Il quartiere dove sono nato. O, per meglio dire, dove fui condotto, quando avevo solo pochi giorni di vita, dalla clinica Villa Igea.

La mia prima casa, e qui non parlo della clinica, risponde all’indirizzo di via Ada Negri 2. A quel tempo, tuttavia, alla futura via Ada Negri non era stato ancora concesso il privilegio di un’identità onomasticamente riconosciuta e così io mi trovavo ad abitare in via Antonini 51/2. Via Antonini. Uno stradone che separa in parte, ma ancor più nettamente separava allora, la città dalla campagna. La città stessa, d’altronde, della campagna non pareva aver assunto in quei luoghi un controllo troppo stabile. Un villaggio della frontiera sorto in quello che solo dieci anni prima era territorio apache. Palazzi simili a scatoloni messi di sbieco, l’uno accanto all’altro, a formare mezza lisca di pesce. Sul lato opposto della strada, una fila di case e negozi, la scuola elementare e, subito dietro il sottile paravento, campi, cascine, corsi d’acqua. La metà degli anni Cinquanta. All’incirca.

Abitavo al secondo piano. Secondo ma in un certo senso terzo, il pianterreno essendo sostituito da un piano rialzato, cui si accedeva con una rampa di otto gradini. Alcuni miei coetanei li saltavano con un balzo tutti quanti assieme. Un po’ più cacasotto, io non mi spinsi mai oltre il quarto. C’era, lungo quelle scale, un odore, ruvido, di cemento, cui si aggiungevano, perentorie verso l’ora dei pasti, testimonianze di cibi poveri perlopiù meridionali, frittata, peperonata. Una base culinaria che, appena oltre la soglia di una qualsiasi di quelle abitazioni, mentre esplodeva come vicina alla propria scaturigine si scontrava con l’odore della cera per pavimenti, immancabile come un sussulto di decoro piccolissimoborghese insieme con le canzoni di Renato Rascel e Nilla Pizzi a fiotti riversate da quelli che ancora si usava chiamare grammofoni.

 

 

In realtà il cancello d’ingresso dell’intero caseggiato dava su uno spiazzo vuoto che la futura via Ada Negri si limitava a lambire e l’antica e rurale via dei Fontanili delimitava frontalmente, subito prima del complesso sportivo Forza e coraggio, con il campo da calcio, la pista per la corsa, la palestra, i campi da tennis. Nel silenzio di certe domeniche di tarda primavera giungevano, nitide, le voci dei giocatori, insieme con gli schiocchi delle palle colpite dalla racchetta, più o meno slabbrati e gonfi d’aria a seconda della distanza. Ovunque l’odore di una torrefazione. S’insinuava nei vicoli, fino a incontrare i veleni di qualche tintoria. In questi spazi angusti, strade private o semplici camminamenti fra un palazzo e l’altro, capitava di vedere bambini dedicarsi al gioco delle biglie o al salto della corda, o sgambettare tra incerte mappe tracciate col gesso sopra il marciapiede.

Se dalla via dei Fontanili scendevi lungo la via Gallura, costeggiando prima e poi lasciandoti alle spalle il languore da provincia americana del campo sportivo, ti ritrovavi accanto alla piccola pasticceria e infine sulla via Ripamonti, oltre la quale era tutto un susseguirsi di uffici e fabbriche. Ciminiere, rade costruzioni, larghi squarci di cielo. La nera sagoma di un gasometro in lontananza.

L’intero versante della strada che guardava verso est, fino alla linea ferroviaria e oltre, presentava l’aspetto tipico di una periferia industriale. Ad allinearsi sul lato opposto erano invece vecchie abitazioni qua e là punteggiate da qualche vecchio negozio. C’era, all’angolo con via Rutilia, una farmacia, la cui penombra medicamentosa una vetrinetta di vetro smerigliato, di un verde intenso, provava a tingere dello stesso colore. E c’era, sempre sul lato dei numeri pari, un’osteria, da cui fuorusciva musica da saloon. Da cui solo una volta, forse, era fuoruscita musica da saloon, dopodiché la fantasia di un bambino di pochi anni aveva dilatato, collegando quel luogo ad altri luoghi, in trasognate testimonianze. C’era, infatti, in via dei Fontanili, un cinema estivo. Un cinema all’aperto. Lo schermo veniva a essere una specie di buco di serratura da cui osservare mondi lontani e, insieme, uno spazio inserito senza alcuna discontinuità nello spazio circostante agreste e acquitrinoso. Pellicole malconce, col sonoro sfasato rispetto alle immagini. Scoppi improvvisi, e, fra uno scoppio e l’altro, lunghi silenzi riempiti dallo stormire dei pioppi, dal lontano ansimante sbuffare di un camion.

 

 

Oggi. (Tra parentesi in ogni senso mettendo i risvolti sociologici. Difficili da verificare se non da lettura dei quotidiani. Un poveraccio di tassista massacrato. L’automobile di un testimone. Bruciata. Quello che io ricordo di quei luoghi è altro. Tutta gente perbene. Qualunque cosa ciò voglia dire. In parti uguali divisa fra Peppone e don Camillo. Al massimo, un innocuo balordo dedito al contrabbando.) Struttura del quartiere non troppo dissimile anzi quasi identica. Identici i viottoli di ghiaia fra via dei Fontanili e via Antonini. Identico o quasi il complesso sportivo Forza e coraggio, così come, all’angolo fra via Ripamonti e via Gallura, la piccola pasticceria Felisi. Tuttavia.

Tuttavia, il concetto di quasi identità, ovvero di somiglianza, rimandando ad alcunché di relativo, ecco particolari per altri forse trascurabili modificare il quadro d’insieme in maniera non secondaria per chi quei luoghi ha vissuto. O almeno per me.

Dunque enumerando. Scomparso il gasometro. Tolto, o forse solo coperto da nuove costruzioni. A meno che non sia stato io a distrarmi al momento opportuno. Il richiedere a sé stessi troppo vigile attenzione, per paradosso, distrae. Al suo posto, invece, la farmacia, ma non il vetro smerigliato che di verde ne tingeva la medicinale penombra. Al suo posto, sempre lungo la via Ripamonti, anche un rigurgito d’acqua, che tuttavia sgorgava allora nera e maleodorante da un fitto di vegetazione e adesso si dipana fra i suoi argini illimpidita e senza stigi richiami. Scomparso il saloon. A occuparne lo spazio, uno dei tanti clonati posti di non ristoro.

Via Antonini. Stessi palazzi, che una velleità di promozione sociale ha provveduto a ridipingere di un sobrio color giallo bruno. Io rimpiango però il chiaro grigio caserma di un tempo e la sua luminosità senza pretese.

Ma è sul lato opposto del viale che le cose hanno subito le trasformazioni più decisive. Quelle trasformazioni che intaccano le stesse coordinate del sistema, fino a destituire di significato ogni domanda intorno a cosa ci fosse qui o . Dei vecchi negozi, della loro tomsawyeriana allegria alacre e mesta, quasi niente rimane. Attraverso chissà quanti passaggi di proprietà, resiste il fruttivendolo. Un posto dove fanno pizza e caffè ha invece sostituito la vecchia latteria, al cui interno ristagnava un vapore acidulo e in cui quella che ricordo come una donna anziana insieme con yogurt e gelati vendeva delle improbabili sorpresine, un microscopico cavallo un cowboy un indiano di plastica non c’era scampo, cui tuttavia la piccola busta che le racchiudeva, facendone appunto delle sorpresine, conferiva un’aura di esoterica preziosità. Scomparsa la drogheria con i suoi odori vittoriani, così come la macelleria. Scomparsa la bottega del salumiere. Una specie di ventilatore a due soli bracci, da ciascuno dei quali pendeva una striscia di carta oleata, dal soffitto velleitariamente tentava, in quel lungo e stretto budello, di disconnettere mosche e salumi. Lui, il salumiere, faceva i conti direttamente sulla carta con cui confezionava la merce, a tale scopo adoperando una matita che riponeva ogni volta dietro l’orecchio. Era sempre indaffaratissimo a impacchettare e annotare e quella matita come una bacchetta magica non stava mai ferma.

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