Zygmunt Bauman / Morte di un sociologo della globalizzazione

15 Gennaio 2017

La grandezza del pensiero di Z. Bauman non può essere certamente ridotta all’impressionante grado di diffusione del suo famoso cavallo di battaglia: quella liquidità che egli ha rintracciato in numerose espressioni della vita contemporanea e che, paradossalmente, è servita più a legittimare la trasformazione in atto che non ad arginarne il potere straripante. Per questo motivo proverò qui a ricordarlo attraverso un percorso che va dalla critica generale alla globalizzazione, passando per l’analisi del consumo, fino alle più recenti considerazioni sulla società confessionale e sulle nuove forme di sorveglianza. 

Insieme a U. Beck, morto due anni fa, a J. Tomlinson, A. Giddens, R. Robertson, Bauman è stato uno dei protagonisti del dibattito sulla globalizzazione, fino a raggiungere una popolarità internazionale inaudita tra anni novanta e duemila, proprio quando tale argomento divenne un tormentone capace di affollare gli scaffali delle librerie di tutto il mondo. La sua origine marxista lo colloca in una posizione ben diversa da quella apologetica di Giddens e dei teorici della Terza via, secondo cui la globalizzazione non solo è un processo naturale e irreversibile ma addirittura “desiderabile”. Al contrario Bauman sviluppa un punto di vista molto più critico, secondo cui la globalizzazione s’inscrive nel progetto della modernità ma ne rappresenta al contempo lo stadio parossistico. Ad esempio in Dentro la globalizzazione (1998), testo in cui compare una sola volta la “liquidità” ma è qui riferita alle disponibilità economiche degli imprenditori - egli descrive la modernità, a partire dall’Illuminismo, come un progetto utopico fondato sull’organizzazione razionale dello spazio sociale in funzione di un “centro” (p. 44), mentre la tardomodernità rappresenterebbe il superamento di tale condizione verso una sostanziale perdita del “centro”(p. 67). Per tale motivo Bauman approfondisce il significato della distanza come concetto chiave per lo studio dei fenomeni globali, sottolineando come essa abbia una natura prettamente antropica. La distanza è difatti un’invenzione sociale che tende a definire i confini della comunità in funzione della dicotomia interno/esterno. Essa rappresenta anche un impedimento superabile tramite quel tipo particolare d’attività che chiamiamo lavoro o tramite il ricorso alla tecnica. Entrambi rappresentano il principale strumento di cui l’uomo dispone per superare la divisione tra il contesto locale e quello più ampio nel quale si producono oggetti e si sviluppano relazioni lontane. Il valore aggiunto dell’interazione comunitaria faccia-a-faccia viene dunque svalutato dalla possibilità di interazioni remote, che soppiantano il vantaggio economico e comunicativo della prossimità spaziale, tramite la maggiore facilità d’interazione resa possibile dai media e dalla loro crescente accessibilità. 

 

Le cosiddette comunità ristrette di un tempo sono state determinate e tenute in vita, come possiamo ormai vedere, dalla discrasia tra i modi del comunicare immediato all’interno delle piccole comunità [...] e gli enormi tempi e costi necessari a veicolare le informazioni tra più località [...] le comunicazioni all’interno della comunità non godono più di alcun vantaggio rispetto a quelle tra comunità (Bauman 1998, pp. 18-19).

 

Anche in questo caso le considerazioni di Bauman, che assegnano al sistema tecnoeconomico il potere di stravolgere o di gestire i contesti locali “dall’alto”, non sono del tutto distanti da quelle di Giddens quando sottolinea come la struttura chiusa del contesto locale venga modificata dall’azione dei sistemi astratti che trasformano la quotidianità in funzione del loro progetto razionale ed efficientistico. Il tema del rapporto tra confini e identità è presente in Voglia di comunità (2001) in cui il sociologo sviluppa un’analisi dettagliata del senso d’insicurezza che la forza centrifuga della globalizzazione instillerebbe nei soggetti. Costoro tentano di ridare senso alla propria identità “trincerandosi” entro i confini dell’appartenenza comunitaria. Se il tema dell’insicurezza trova Bauman in sintonia con la nozione di società del rischio di U. Beck, la voglia di comunità invece è sulla stessa linea d’una riflessione storica e antropologica che va dalle comunità immaginate di B. Anderson alle comunità diasporiche di A. Appadurai. Su un altro fronte Bauman vaglia criticamente la questione del multiculturalismo di C. Taylor, che marcava l’ottimismo degli anni novanta grazie alla sua gadameriana “fusione degli orizzonti” tra i gruppi etnici incasellati nel mosaico delle società globalizzate. Per Bauman il «diritto alla differenza» concesso dalle società aperte non è meramente un punto d’arrivo ma deve essere il "punto di partenza di un lungo e forse tortuoso, ma alla fine proficuo, processo politico" (p. 132). Allo stesso modo lo studioso esamina criticamente anche il fenomeno delle “comunità estetiche”, sprovviste di “una rete di responsabilità etiche, e quindi di impegni a lungo termine”(p. 70), che ricordano molto da vicino alcuni aspetti delle tribù postmoderna di M. Maffesoli. 

 

Come si è visto l’approccio di Bauman ha saputo coniugare due filoni delle scienze sociali contemporanee: gli studi sulla globalizzazione e le teorie sul postmoderno. Riferibili inizialmente a settori diversi ma che, a cavallo tra anni novanta e duemila, convergono grazie alla crescita d’importanza del consumo. Tra l’affermazione della società dei consumi nella seconda metà del XIX secolo e la maturazione del processo di globalizzazione, ci sono varie tappe che mostrano il modo in cui forme tradizionali di pensiero, valori e pratiche, sono state profondamente modificate dall’azione del marketing e della pubblicità. In Homo Consumens (2007), Bauman sviluppa una critica serrata alla società dei consumi, che in alcuni tratti suona come eco vetusta di un atteggiamento critico ormai datato. La vecchia questione dell’obsoletismo, vista in modo speculare da teorici “integrati” tipo J. E. Calkins e da quelli più apocalittici, riemerge nelle sue analisi, quando sottolinea che “il desiderio deve rimanere insoddisfatto perché finché il cliente non è soddisfatto sentirà il bisogno di acquistare qualcosa di nuovo e diverso” (p. 49). Lo stesso tema è sviluppato in Consumo dunque sono (2007) ed è spinto più avanti, verso la consapevolezza che il consumatore diventi il vero prodotto del sistema consumistico, la sua somma attualizzazione. In alcuni momenti la riflessione di Bauman tocca implicitamente questioni sollevate in seno agli studi sul marketing e sul management, come il discorso sulla figura del turista che rappresenta il modello verso cui protende il nuovo consumatore e il cosiddetto consumo “esperienziale”, quando sostiene che “Il turista è un ricercatore di esperienza cosciente e sistematico, di un'esperienza nuova e diversa, di un'esperienza di differenza, e di novità” (La società dell’incertezza, p. 44). In altri casi s’avvicina, anche se troppo timidamente, ad alcuni assunti del cosiddetto “capitalismo cognitivo”, sull’onda lunga del postoperaismo italiano (molto apprezzato all’estero).

 

 

Per questi autori la trasformazione postfordista è un processo di sovra-sfruttamento del lavoratore che investe non solo la sfera del saper-fare, ovvero delle competenze tecniche, ma anche le soft skills che riguardano la capacità relazionale, le esperienze e la dimensione emozionale. L’idea baumaniana della mercificazione delle relazioni sociali e delle emozioni si ritrova in modo diverso anche nel lavoro di E. Illouz (2007), che in qualche modo aiuta a collegare l’interesse di Bauman per il consumo, con le sue riflessioni più recenti sulla società confessionale e sulla sorveglianza liquida. Illouz (pur non citando Bauman) parla di “capitalismo emozionale” proprio per sottolineare come le emozioni sono diventate una merce di scambio somma e fondamentale nel processo di costruzione delle identità sociali iniziato con la fabbrica fordista e culminante nelle relazioni mediate dai social media. Allo stesso modo Bauman esporta alcune sue considerazioni sulla mercificazione della società dei consumi all’interno dell’analisi dei social network. In un articolo pubblicato da Repubblica (9/4/2011) egli discute il fenomeno della società confessionale, che ricorda la gloriosa formulazione di M. Foucault del “dispositivo della confessione”, ed è qui riferito non solo a una nuova dinamica comunicativa, ma anche l’intero assetto di una società pervasa dai social. In tale disamina è centrale la netta distinzione tra comunità e network: se la prima “costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante”, il network “può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme”.

 

In questa nuovo tipo di comunità remota e diffusa, il concetto di privacy che edificava l’intera società borghese, ora vive una “vittoria di Pirro”. Esso infatti da un lato sconfina nella dimensione pubblica diventando la risorsa fondamentale del sistema, dall’altro ovviamente declina e rende pressoché rare se non impossibili le dimensioni della segretezza e dell’intimità (trasformata nel frattempo in estimità). Il lato oscuro della “società confessionale” è rappresentato dall’auto-sorveglianza indotta dai dispositivi di confessione. Il libro intervista di Z. Bauman con D. Lyon Sesto potere (2014), si occupa di fenomeni come il tracciamento degli utenti-consumatori in un mondo che integra dinamicamente virtualità e fisicità, ma anche delle pratiche diffuse di sorveglianza che dal paradigma vetusto del Panopticon seguono nuove direzioni. In un contesto totalmente mutato l’icona della spia cede il passo a nuove entità più astratte e disumanizzate, che esercitano la sorveglianza e il controllo attraverso dispositivi di automazione. Ne sono un esempio i droni, sia quelli di taglia superiore usati per bombardare o uccidere, sia quelli dalle «dimensioni paragonabili a quelle delle libellule o di un colibrì», che, progettati per «essere invisibili anche quando li abbiamo davanti agli occhi», faranno entrare la guerra nell’era «post-eroica» (Bauman, Lyon 2014, pp. 4-5). I temi della sorveglianza e della trasformazione dello spionaggio grazie alle nuove tecnologie sono di grandissima attualità, se si pensa alle vicende accadute durante le elezioni americane e più recentemente in Italia.

 

Come nel caso delle morti eccellenti, quella di Bauman s’è trasformata in un grande cerimonia mediale distribuita nei social. C'è chi ha insistito sulla sua competenza storica, chi lo considera un filosofo. Mentana nel Tg de La7 ha voluto considerarlo più genericamente un “uomo di cultura”, con ciò evitando di nominare la sua professione che, mai come in questo caso, è ben chiara e definita. Egli era difatti un sociologo teoretico che, anche senza fare ricorso a metodi di ricerca empirica spesso usati per confermare tautologicamente l'ovvio, è stato capace d’osservare la società nel suo complesso, grazie ad analisi approfondite e a sintesi potenti e facilmente comunicabili. Uno dei suoi principali meriti è stato forse quello di (talvolta) anticipare, generalmente spiegare e in molti casi amplificare, le analisi sulle tendenze culturali del nostro tempo.

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