Musei italici
Sono un vizioso impunito dei musei. Ho preso la malattia da piccolo e non ho mai cercato di guarirne. Ci vado volentieri, ogni volta che posso. Ovunque. Persino in Italia. Dove ci sono sì alcuni dei musei più belli del mondo, ma dove spesso i visitatori sono trattati peggio. Bestie paganti senza diritti, se non quello della muta, devota transumanza.
Non solo i biglietti sono carissimi e a volte includono pure supplementi obbligatori per esposizioni che non vuoi vedere; ma si paga tutto, e il prezzo è in ragione inversa della qualità, per esempio alle caffetterie e nelle librerie. Chiamarle Bookshop mi ripugna (per la parola); tanto più che sembrano negozietti di souvenir. È già tanto che il pudore impedisca, per il momento, di allestire bancarelle risparmiando su locali, luce e riscaldamento. E personale, come richiedono i tempi. Un po’ di pazienza e ci si arriverà; in attesa che chiudano tutto.
Le sale sono quasi sempre prive di sedie o panche dove fermarsi a guardare con calma quello che interessa, o fare uno schizzo o prendere appunti. O solo chiudere gli occhi e riposare. Riposare la vista. Non vedere. Asciugarsi la lacrimuccia. Immaginare il visto. Sognare il da vedere. Ribadisco: con calma; non mi azzardo a dire con comodo: l’idea che un museo sia un luogo di piacere temo che appaia blasfema a molti (in barba a tutti, però, io godo; e siccome sono un sentimentale, spudorato oltretutto, mi commuovo pure).
La cosa che meno gli perdono, agli italici musei, e anche alle chiese già che ci sono (a parte il fatto che mi costringono a incazzarmi e a ripetere banalità, che sono tali perché vere, ma non lo sono meno per il fatto di esserlo), è che non si possono scattare fotografie, diversamente che all’estero, anche senza flash. (Qui sotto due fatte a Bruxelles e Colonia.)
Oppure si può, ma come un ladro nella notte, di nascosto, furtivamente e quindi malissimo, approfittando dello schermo della folla, della sonnolenza o della distrazione del custode o dei momenti in cui si alza per andare nella sala contigua a parlare con un collega, o mentre legge o gioca o messaggia o usa lo smartphone per lunghissime, appassionate, segrete telefonate, tutte cose proibite in quei sacri luoghi ai semplici mortali, ma mettendo anche in conto di essere richiamato e bacchettato se il cerbero alza gli occhi o rientra all’improvviso, con il sottoscritto che sfoggia la sua espressione più candida, ora favorita dai capelli di colore simile, e dal tono delle scuse o dalla gestualità di contrizione, affinati in decenni di pratica. Molto convincenti!
Passo per uomo buono, e con l’espressione da buono adeguata (quella che muove al compatimento). E spero anche di esserlo: mi compatiscano pure. Non è però lontano il giorno, il tempo, in cui troverò la mia faccia sul vetro delle biglietterie, con scritto sopra, o sotto, o sopra e sotto, WANTED, in lettere giganti, rosse, grondanti sangue, con un’espressione truce, la sclera venata, barba di tre giorni, bocca storta e uno sguardo così feroce che supera persino le mie ambizioni più efferate.
Eviterei volentieri questi miserabili sotterfugi, se potessi trovare le riproduzioni di ciò che mi interessa nei cataloghi o come cartolina. Tanto più che spesso mi servono solo dettagli. Ma non trovo mai niente, anche a prescindere dal costo, come si diceva. Di tutte le foto che ho scattato nell’ultimo museo che ho inutilmente saccheggiato, nessuna opera era riprodotta in cartolina e solo tre sul catalogo, in piccolo o male. La mia rabbia - o è la giusta nemesi? - è che le immagini si sono poi rivelate inutilizzabili, sfocate o con tutta la sala e il sottoscritto riflesso, a causa dei vetri e dalla fretta. L’unica cosa a cui mi sono servite è stato rimpinguare la mia galleria di autoritratti riflessi e confusi (esattamente come sono io). Quelle fatte all’estero invece, a dispetto della mia imperizia, sono molto meglio (qui sotto esempi a confronto: Firenze e Monaco).
Tornato a casa ho consultato l’archivio fotografico dell’importantissimo polo museale in questione: molto ricco, in quanto a numeri, ma metà delle immagini sono ripetute, quasi tutte sono di dimensioni filateliche e a bassissima risoluzione, e anche lì, sorpresa!, c’è pochissimo di quello che cercavo. Decidono loro cosa riprodurre, ovvio. È quello che la consuetudine ha portato a vedere di più; a vedere perché ti hanno detto che va visto: quello che è “importante”, consolidato, facile. E più facilmente vendibile: come se fare delle riproduzioni richiedesse chissà quali investimenti da cui rientrare quanto prima!
Pur sapendo come andrà a finire, continuo comunque a spulciare, inutilmente, la libreria dei musei italici. Ho chiesto aiuto alle ragazze dietro i banchi, ma le poverette mi hanno guardato come violate nella loro sfera più intima. E avevano ragione: ero io l’indelicato. Ho comprato lo stesso un paio di cartoline, come a risarcimento del loro onore. Economico, questo (il risarcimento intendo: economico come tutti quelli simbolici).
Io da qui a mani vuote non me ne vado!, ho pensato allora. Ma non mi riferivo alle cartoline. E così sono tornato indietro, ho ripercorso quasi tutte le sale, approfittandone per scattare altre foto malandrine (e maldestre) e sono sceso nel sottosuolo, alle toilette. Ho percorso i corridoi deserti e sono arrivato a due salottini che introducevano ai bagni veri e propri, non belli e invitanti alla lettura come quelli della Biblioteca nazionale di Dublino, ma molto puliti e decorosi, a modo loro eleganti, e lì, sotto gli occhi esterrefatti di un inserviente indiano, saltellando qua e là come un indemoniato, mi sono sfogato a fotografare a raffica tutto il fotografabile.
Manco a dirlo, non c’è una foto che non sia sfocata.