Oggetti d’infanzia | Il cancellino

20 Febbraio 2013

GIRELLA ARCHEOLOGICA. Una striscia di feltro arrotolato, un rotolo di cimosa: ecco il cancellino. Una merendina, una conchiglia, uno sterco di mucca, un UFO che volava basso quando c’era la supplente. Grondava di bianco sui nostri vestiti. Quando era troppo impregnato di gesso si sbatteva sul poggia-cancellino, allo stesso modo in cui si picchietta un biscotto sul tavolo della cucina prima di inzupparlo nel latte. Ma il nostro passatempo preferito era agli antipodi: immergere il cancellino nel gesso per stamparlo sul cappotto dello sfigato di turno che se ne accorgeva a ricreazione finita. Una stampigliatura paffuta e scialba, una luna piena là dove il mostro di Düsseldorf aveva la M. Hai voglia a sbatterlo con la mano: il suo fantasma non ti abbandonava.

 

Marcel Broodthaers

 

BIANCO SU NERO. Come una pellicola fotografica per negativi, scrivere sulla lavagna è il contrario che scrivere su un foglio o su uno schermo. Quanti di noi hanno scritto bianco su nero solo alle elementari? Un po’ come scrivere con la pioggia anziché con l’inchiostro, suggerisce Marcel Broodthaers in La pluie (Projet pour un texte) (1969). Il peccato originale della pittura è stata la sua fiducia cieca nel supporto bianco. Se dovessi scegliere una sola opera di Cy Twombly non avrei dubbi: i suoi dipinti-lavagne della fine degli anni sessanta.

 

Cy Twombly

 

“VENTURI ALLA LAVAGNA!” Cancellando le tracce lasciate dal mio precedessore, rendevo visibile una zona lattiginosa. La lavagna non si faceva mai cenere, buco nero. Al contrario, la zona cancellata continuava a galleggiare sullo sfondo come una medusa sul pelo dell’acqua. La bidella si ostinava a lavare la lavagna con l’acqua. Il nero specchiante della tabula rasa era insopportabile alla vista. Dal fondo dell’aula mi precipitavo per passarci sopra una mano di cancellino.

 

Cy Twombly

 

FRATELLO CANCELLINO. Il cancellino cancella segni di gesso mentre lascia traccia del suo passaggio. All’epoca non conoscevo la parola, ma il cancellino è un vero e proprio dispositivo che tiene insieme la scrittura e la sua rimozione. Non compie due operazioni opposte, come le due estremità della matita, con la mina e la gomma. Niente di più banale, anche l’interruttore della luce porta luce e buio in una stanza. Pensate invece a un congegno che compie due operazioni opposte allo stesso tempo: scrive mentre cancella. Predica nero e razzola bianco. Il cancellino con la bava, che cancella in quanto macchia non diversamente da sua sorella Gommapane, così irresistibile che veniva voglia di masticarla come un chewing-gum. Tragico cancellino, incapace di compiere l’unica azione per cui esisti: cancellare. Uno scacco totale, la stessa inadeguatezza che provavo scrivendo sulla lavagna durante le interrogazioni, in balia della buona sorte e degli umori dell’insegnante. Il tuo, il nostro pallore, fratello cancellino.

 

Cy Twombly

 

PROGRESSO. Un giorno la lavagna fu attaccata al muro come un dipinto. Da allora i cattivi piantonavano le porte e non erano più mandati in quarantena dietro alle lavagne mobili, di quelle che ruotavano sul loro asse. Ricordo la loro superficie nascosta, ricettacolo di oscenità: quante contumelie, quante Madonne, quanta anatomia per giganti.

 

Joseph Beuys

 

MATERIA E MEMORIA. Una parete fulgida e raggiante: al liceo la lavagna nera fu messa in cantina. Pennarelli rosso verde blu col loro puzzo al posto del gesso; un cencio da toilette al posto del cancellino. Così avanza la tecnologia, così si trasforma la nostra memoria. Ho imparato a usare il cancellino prima di vedere le nuvole dal finestrino dell’aereo. Il cancellino e la lavagna erano fatti di feltro e di ardesia, due materiali antichissimi. La cardatura delle fibre e dei peli degli animali che costituiscono la falda floscia di feltro. L’ardesia che copriva i tetti delle case e le necropoli dei nostri antenati. Finché al liceo mi si appiccicò addosso un mondo plasticoso. Un camicione di feltro e una topaia d’ardesia – l’infanzia della specie umana.

 

Joseph Beuys

 

EPILOGO. Quel giorno che entrai dentro Plight, un’installazione realizzata da Joseph Beuys – artista per me duro da masticare – nel 1985, due mesi prima della sua scomparsa. Un ambiente foderato di colonne di feltro, ovattato e cieco ma non affatto soffocante. Uno spazio non concepito per essere colto dalla vista e che tocca altre sfere sensoriali. La mia seconda pelle? Fuocherello. Ero penetrato nel morbido ventre del cancellino.

 

Joseph Beuys

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