Biennale 2011 / Palazzo Fortuny. Il museo come opera di opere
Ogni selezione di esseri umani, da che mondo è mondo, finisce sempre per ricordare il crudele gioco delle sedie musicali che si faceva una volta negli asili italiani e che impartiva sottilmente questo cinico insegnamento: non si applicano mai veri criteri oggettivi nella scelta degli uomini, e così non serve la prontezza di riflessi, non serve lo scatto, ed è sempre chi sgomita di più, alla fine, che ha più probabilità di tutti di trovare una sedia quando si interrompe la canzone. Che il gioco delle sedie musicali valga da sempre anche per gli uomini per cui forse meno di tutti gli altri dovrebbe valere, ossia per gli artisti, è provato per l’ennesima volta dal Padiglione Italia allestito da Vittorio Sgarbi, un commovente, disperato tentativo di stipare quante più sedie è possibile nel timore che qualcuno degli esclusi protesti per le basse gomitate altrui, un bazar di capolavori e chincaglierie realizzato anche a costo di accatastare troppe opere in spazi espositivi abbastanza limitati e di fare della maggiore mostra d’arte del mondo un chiassoso pastiche.
La risposta a chi, per necessità o per scarsa immaginazione, concepisce una mostra d’arte contemporanea come una confusa e condiscendente lista di artisti senza alcun rapporto tra loro è data dalle mostre “off-Biennale”: quella di palazzo Grassi, quella di Punta della Dogana e quella, soprattutto, di palazzo Fortuny, che mostrano ognuna la possibilità di fare ancora una selezione che abbia una forte impostazione curatoriale e un gusto raro e raffinato, che offra una vera interpretazione critica del panorama artistico contemporaneo e, non ultimo, che sia un armonico tutto che esalta ognuna delle sue parti.
La mostra TRA – Edge of becoming di palazzo Fortuny è stata notata da pochi e recensita da pochissimi anche perché non ci sono state le accese polemiche mediatiche che servono almeno ad illuminare le opere esposte, né i chiacchierati scandali mondani che fanno conoscere gli autori a chi non li capirà. A palazzo Fortuny c’è solo una mostra d’arte, che è, anche, una velata lezione su come si costruiscono le mostre d’arte: c’è solo lo spazio, l’accostamento della forma alla luce, e la costruzione di un percorso che introduce il museo stesso come chiave d’interpretazione delle opere che espone, come terzo interlocutore nel dialogo difficile tra l’arte contemporanea e il suo pubblico. Il percorso espositivo si propone di riprodurre un’iniziazione esoterica, un’esperienza misteriosofica, la cui aura è accentuata dalla scelta di non usare didascalie sotto le opere esposte in alcuni piani. Così lo spettatore è costretto a un tragitto che restituisce l’identità della singola opera soprattutto attraverso la sua contestualizzazione, che si rivela a volte anche estrema per l’originale giustapposizione di epoche e stili lontanissimi. Al tempo stesso, tuttavia, non c’è operazione più profondamente artistica di quella condotta dai curatori. Non si entra in questo palazzo per vedere cosa vi sia esposto, ma come sono disposte le opere, come l’una è posta in relazione con l’altra, e tutte con il contesto: un elegante ed espressivo ritorno dell’esposizione ai fondamenti dell’estetica, al sopravvento della forma sul contenuto, che fa di Palazzo Fortuny non un esperimento per eletti ma un esempio di museo come opera di opere, come mezzo di comunicazione dell’arte e arte in sé.
I quattro piani dell’edificio sono spazi tra loro indipendenti e strutturati in modo molto diverso. Il primo piano è una cripta ieratica, tagliata dalla lineare severità del buio e illuminata, a tratti, da intensi bagliori. Accanto a manufatti dell’arte millenaria dell’estremo oriente sono esposte senza stacco e senza contrasto le più recenti opere della contemporaneità, Red hand, green hand di Michael Borremans, un dipinto del 2010, si fonde con antiche statue indù senza braccia.
Il secondo piano si presenta invece come un nuovo, strano Vittoriano, composto all’insegna di un gusto prezioso ma estremamente sincretico.
Una scultura in fil di ferro ritorto di León Ferrari che imita un lampadario sovrasta un quadro del tardo Seicento di Pieter de Hooch e affianca altri lampadari in tradizionale pizzo muranese.
Poco più in là una biblioteca ospita oggetti di origine oscura posti accanto a uno schermo che proietta la facciata di un palazzo rinascimentale riflessa nell’acqua.
Il terzo piano sorprende il visitatore con il suo chiarore spoglio. Già salendo i primi gradini della rampa di scale che dal secondo piano porta al terzo si percepisce che lo spazio si sta schiudendo in un unico ambiente lasciato alla gloria della sua decadenza.
Gli intonaci scrostati e gli affreschi corrosi, segni del trascorrere delle più diverse epoche, sono il lungo sfondo di un curioso gioco di porte in cui si svelano una dopo l’altra opere che vanno dal fumetto all’istallazione.
Il quarto piano, infine, si presenta come un austero appartamento in stile zen arredato con piccoli cuscini e letti di legno. Su un lato si staglia un grande giardino circolare di sabbia approntato da Osamu Kokufu, in cui si possono osservare le piantine crescere di ora in ora.
Al centro c’è una piccola zona chiusa che ospita un affascinante labirinto wabi, un intricato itinerario attraverso pareti di legno e antri semi-illuminati che invitano alla meditazione mistica e che espongono, come strumenti di concentrazione e introspezione, rari e remoti oggetti come un pezzo di bronzo adoperato come moneta di scambio dal popolo Nkutshu
oppure opere create appositamente per la mostra come questa di Gotthard Graubner.
Questo quarto piano è forse l’indizio finale che rivela nella mostra di palazzo Fortuny un originale tentativo di stabilire un canone artistico contemporaneo e di dettare implicitamente le istruzioni per comporlo. Attraverso questa mostra i curatori replicano indirettamente a coloro che lamentano l’assenza di movimenti artistici e non pensano, forse, che la produzione dell’arte contemporanea è l’espressione mutevole di un mondo reticolare, un mondo in cui l’informazione si diffonde in modo subliminale, per vie inconsce e incontrollate, influenzando artisti distanti nel tempo e nello spazio, nella formazione e nel gusto, e lasciando in ognuno di loro contaminazioni che il critico attento può interpretare alla stregua di cifre da decodificare e ricodificare in un senso comune. Non è più il tempo dei manifesti e non ci si può aspettare che i movimenti abbiano la forma programmatica e strutturata che hanno avuto per gran parte del XX secolo: oggi l’impiego in arte di materiali non tradizionali o il riferimento a particolari filosofie sono solo alcune tra le tante prove dell’esistenza di movimenti artistici fratti, e della loro inconsapevolezza di essere movimenti – alla critica, dunque, il nuovo e difficile compito non solo di analizzarli, come fa da sempre, ma, ancora prima, di individuarli e portarli alla luce.