Pascale. Le attenuanti sentimentali
Antonio Pascale è «a) un musicista mancato; b) un regista mancato; c) un giocatore di basket mancato». Poeta mancato no, perché la poesia la ama da lontano, senza sfiorarla. Narratore mancato nemmeno e lo dimostrano La città distratta, Passa la bellezza e i racconti di S'è fatta ora.
Sono passati sei anni dall'ultima opera narrativa e, per stroncare sul nascere l'ansia da prestazione, Le attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013) inizia con una programmatica abiura: «questo non è un romanzo ma un giro in bicicletta».
Non è un romanzo, sono riflessioni quotidiane, è autofiction, un dispetto alla struttura tradizionale, un modo intelligente di imbrogliare la trama.
Antonio è uno scrittore in crisi, lavora al ministero per le politiche agricole e non riesce a mettere a punto un romanzo; soffre di stress e d'insonnia e, per sfiancare almeno il corpo, si abbandona a lunghe corse notturne a Monteverde e gira in bicicletta una Roma dissestata e spesso ostile, soprattutto se sei su una bicicletta o in motorino, con la voce di Nina Simone che scivola calda nelle orecchie.
Antonio osserva i passanti, i figli, la moglie, gli amici (Paola, produttrice cinematografica e spacciatrice di trame, Luigi pittore e convinto libertino, Giacomo film-maker e adultero meno convinto), gli viene in mente di fare un documentario sui sentimenti e si rigira l'idea fra le mani, tra la presentazione di un libro, un'ispezione ministeriale e una litigata alla scuola dei figli su Ogm ed agricoltura bio.
Dubbi, paranoie e teoremi sfilano uno dopo l'altro in quella democratica livella dei pensieri che è l'insonnia, quando l'insensata lotta contro la casualità, «condizione primaria dell'uomo», tiene gli occhi sbarrati.
Il documentario di analisi scientifica dei sentimenti C'è chimica fra noi, è il risibile tentativo di dare una regola al caos, così come tutti gli sforzi di classificazione e sistemazione del mondo: il modello sessuale di maschio meridionale, la ripetitività dei gesti la mattina, il conformismo, il biologico, i sentimenti, la narrazione.
Il libro di Pascale ne racconta, in presa diretta, il fallimento; il testo è pervaso da una costante aria di impotenza, un bolla di inconcludenza e inadeguatezza destinata a scoppiare. L'autenticità è un'illusione e così anche la regola: l'occhio attento vede la crepa e, dietro la crepa, l'abisso, la polverizzazione di ogni struttura.
Allora anche il romanzo è un progetto destinato a incagliarsi nel magma vischioso dell'esistenza; la smaterializzazione atomica del mondo non lascia spazio alla massa ingombrante dei personaggi, alla solidità delle trame, restano solo le particelle leggere del pensiero e dell'inquietudine.
Rimane l'autofiction, parola-spauracchio che evoca le colpe del ripiegamento su di sé, il protagonismo vanitoso, l'egocentrismo presuntuoso, ma che detta alla francese, otofisciòn, sciolta in un «mare di dolcezza di s», sembra immediatamente più appetibile.
Il diario di pensieri notturni e accidenti quotidiani che Pascale compila, tra intuizioni abbaglianti e vivisezione ostinata delle proprie nevrosi, è un tour de force che per non implodere ha bisogno di tutta la forza della voce che narra.
Ed è un esperimento quanto meno ambizioso: «o sei un autore con i coglioni, davanti al quale uno alza le mani e dice: fai di me quello che vuoi, oppure non ci rompere le palle e scrivi una trama, è l'abc» dice la cara amica Paola nelle prime pagine. È l'abc e se non funziona, ci sono le attenuanti.