Paura di scegliere

19 Marzo 2016

“Le rispondo che cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero.

Dice:

-Sì. Certe volte sono più tristi del più triste dei libri.

Dico:

-Proprio così. Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.”

 

Questo breve dialogo è tratto da La trilogia della città di K, capolavoro della scrittrice ungherese Agota Kristof, romanzo che vede protagonista la finzione letteraria, unico vero mezzo per evadere dall’intrinseco e imprescindibile dolore dell’esistenza. Raccontare una qualunque storia purché non sia la propria, una storia che se non altro non sia triste quanto una vita. 

 

L’idea dell’invenzione come fuga dalla realtà ritorna in Piani di vita di Alberto Garlini (Marsilio Editori 2015). Anche se un paragone stilistico fra i due romanzi si rivelerebbe un azzardo, è il concetto di riscrittura della propria vita che crea un legame concettuale e che riemerge questa volta in chiave più leggera, contemporanea, ma indubbiamente degna di nota. Siamo nella periferia di Treviso, in una palazzina fatiscente e degradata. All’interno di un appartamento abitano Fatima e Achmet, giovani coniugi mussulmani alle prese con un neonato affetto da un presunto ritardo mentale. Qualche piano più in alto soggiorna temporaneamente Marco, aitante sceneggiatore omosessuale, impegnato nella vendita dell’appartamento in cui viveva l’anziano padre da poco defunto. Marco scrive commedie, demenziali “cinepanettoni”, con cui guadagna “paccate" di soldi. Achmet ha perso il lavoro, è aggressivo e frustrato. Sogna di diventare ricco e mai ci riesce, cerca la sua confusa e violenta rivincita e mai la trova. Due realtà diverse, inconciliabili. La moglie Fatima stanca della sua tetra quotidianità si innamorerà di Marco. La narrazione si gioca infatti sull’equivoco, su un perenne misunderstanding triangolare che termina però con la riconciliazione finale dei tre.

 

 

Intreccio non originalissimo, a parte l’aggiornamento furbetto dei personaggi; l’aspetto più interessante è senza dubbio legato all’analisi introspettiva del personaggio femminile. Fatima, moglie e madre a soli ventiquattro anni, è una giovane donna obbligata a crescere troppo in fretta. La vita le si presenta come un accumularsi di fatiche e rinunce. Il paese in cui vive le è ostile. Superando il primo impatto, e i conseguenti cliché dal retrogusto buonista, pian piano la figura della giovane acquista spessore e una finezza di analisi in cui lo scrittore evidenzia le sue qualità migliori. Oltre che immigrata e vittima di una società razzista e diffidente, Fatima è una ragazza confusa tra desideri reali e fittizi. Da una parte il retaggio della sua cultura islamica e dall’altra la nuova influenza occidentale.

 

La donna cerca disperatamente di sottostare al ruolo che la sua educazione le ha riservato; dentro di sé ripete: “Fatima voleva vivere tranquilla con Achmet, Fatima voleva essere una famiglia, la donna che è al centro del mondo, l’incarnazione della bellezza, del focolare” - una sorta di mantra, una cantilena stonata, convinzioni che si sgretolano ad ogni rinuncia, ad ogni moneta persa dal marito al videopoker. La giovane non riesce quindi nel suo intento, complice la sua inesperienza colma di repressa e lecita curiosità sessuale, ma più ancora condizionata dalla pressione occidentale per cui l’emancipazione femminile si è trasfigurata nell’emulazione dei peggiori comportamenti del maschio. Dalla sua incapacità di accettarsi liberamente nasce un profondo dolore, un senso di tragica irresolutezza ed è qui che Fatima attua il precedentemente citato meccanismo di reinvenzione della propria vita. Tra bugie, realtà e immaginazione è difficile stabilire confini precisi, infatti “attraverso la menzogna, Fatima ha scoperto le opacità nascoste della luce. Non sa da dove ha rubato quella frase, forse è di un poeta. È perfetta. Con la menzogna, Fatima può aprire un nuovo mondo. Sfiorare l’assoluto, o morire in una pozza di sangue”.

 

La giovane cammina per la stazione, si sta recando in un centro per donne vittime di violenza con il suo bambino stretto tra le braccia; a soccorrerla è stato Marco, lo sceneggiatore che abita qualche piano più in alto. Non è mai stata picchiata dal marito, ha inventato tutto per farsi aiutare, ma adesso non è più convinta nemmeno di questo. Un poliziotto vedendo la sua aria spersa le domanda se ha bisogno di aiuto, il colloquio è breve, cortese, poco più che formale, ma la fantasia di Fatima si mette in moto e si vede sposata con l’uomo in divisa, si immagina in una bella casa, con il sole che penetra dai vetri delle finestre e la serenità economica per potersi permettere piacevoli vacanze al mare. Sogna di concedersi al poliziotto, disinibita, forse sfrontata, poiché “è questo che cercano gli uomini, tutti gli uomini, una donna troia, senza freni, ma solo con loro, e vincendo un’innocenza antica, violando un codice morale di purezza per il maschio che la possiede. Le vere donne sono questo regalo dedicato al maschio”. Questa fantasia la libera dai freni che la sua cultura le impone o forse la rende schiava di un modello che non ha scelto autonomamente.

 

Nella sua vita non succede mai niente. I giorni si susseguono, tragici, l’uno di fila all’altro, la scoperta della presunta malattia del figlio, le sconfitte giornaliere di Achmet. Meglio le sue menzogne, i suoi confusi sogni ad occhi aperti, storie che per lo meno siano meno tristi della sua realtà. Lo stesso meccanismo, seppur in modo diverso, riguarda Marco, che inventa storie di professione. I suoi racconti gli fruttano denaro, così come lo distolgono dalla sofferenza di cui anche la sua vita è intrisa. Garlini mette in atto una specie di mise en abyme, lo sceneggiatore Marco scrive commedie all’italiana all’interno di un romanzo che è all’apparenza costruito come una di queste (e qui torniamo ai cliché prima citati: la giovane mussulmana maltrattata e impaurita che si innamora perdutamente del fascinoso sceneggiatore gay ecc.) lasciando però spazio, non appena penetrata la friabile superficie narrativa, all’immenso tragico dell’esistenza.

 

Nonostante tutto, il romanzo d’esordio di Francesca Vignali Albergotti (Fazi Editore 2015), più che alla reinvenzione di sé, guarda a un perpetuo gioco di ruolo, alla necessità dell’uomo di incasellare se stesso e gli altri in una funzione, allo scopo di tutelarsi dalle ingiustizie della vita e, a volte, dalle proprie meschine intenzioni. Dodici personaggi ben tratteggiati si incontrano/scontrano fra loro. A unire queste dodici storie sono rapporti di parentela, d’amore e d’odio. Susy, la donna di plastica, non accetta la vecchiaia, vive nel ricordo delle sue glorie passate e nasconde il terrore del tempo che scorre dietro un ostentato e patetico narcisismo. Carlo, il playboy disarmato, è un vecchietto affetto dall’alzheimer. Di sua moglie Susy non c’è più traccia, ormai per la casa si aggira un terribile mostro. L’unica gioia che gli è rimasta sono le cure devote della sua badante. Leonardo è figlio di Carlo e della sua prima moglie. La lontananza del padre lo ha reso un bambino depresso dipendente dagli psicofarmaci. Anche la sua vita di adulto è costellata dall’infelicità; nonostante l’intelligenza e la sensibilità che lo contraddistinguono, Carlo non riesce a risolversi. Paola, la sua psicoterapeuta, lo ama segretamente. Cela il suo ardente desiderio dietro un’immagine di moglie e madre impeccabile. Suo marito Edoardo dietro la stessa immagine di coniuge e padre eccellente nasconde un’oscura natura di traditore seriale. Ingegnere gestionale di talento, stimato, temuto e desiderato è sempre lontano da casa. Condivide i letti anonimi degli hotel con innumerevoli donne incontrate nelle riunioni, in albergo, in aereo. Ricorda a stento le loro facce. Paola ed Edoardo hanno due figli Camilla e Gianmaria. A dire dei genitori la bellissima Camilla potrebbe fare la modella, Gianmaria invece è una promessa del calcio. Non appena è sola nella sua camera, Camilla vomita tutto ciò che ha mangiato durante il giorno; nonostante i suoi 40 kg si sente enorme, non sopporta se stessa, sua madre, chiunque la circondi. Questo è solo un assaggio delle personalità e delle storie che popoleranno questo romanzo.

 

 

L’idea pirandelliana che sta alla base della narrazione evidenzia come ogni percezione sia soggettiva e come ogni individuo assuma un volto diverso a seconda dei punti di vista. I personaggi descritti dall’autrice differiscono fra loro per trascorsi, età, carattere ed estrazione sociale. L’unico punto che hanno in comune è un solido e indistruttibile ruolo; certo, un ruolo che si modifica a seconda delle singole percezioni e degli eventi, ma che sempre resta intatto. Nemmeno innanzi al dolore più sordo si intravvede la nudità, la svilente piccolezza dell’uomo di fronte al mondo, alla natura, a quell’inspiegabile sofferenza che finirà per sorprendere sempre alle spalle i protagonisti di queste storie. Come in un telefilm sembra che i personaggi siano sempre di fronte a uno spettatore, qualcuno a cui ammiccare tra le lacrime o nel pieno della propria realizzazione; leggendo questo romanzo non si ha mai la sensazione di stare di fronte a persone, ma sempre soltanto a figure bidimensionali. Ognuno è protetto nel suo stereotipo, nella sua rigida stilizzazione, che per quanto originale non permette mai la fuoriuscita di una vera voce, di una riflessione profonda, di un banale gesto di rivolta. Vien da chiedersi se questa rappresentazione quasi immobile dei personaggi sia dovuta all’inesperienza dell’autrice o non piuttosto alla volontà di spingersi al di là di dodici semplici storielle che si incrociano fra loro...

 

Amaro e noia/la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo, scriveva Leopardi. Nella straordinaria secchezza di questi versi emerge l’asciutta e inconfutabile verità della condizione umana. Dietro questo concetto non si cela l’inflazionato “pessimismo leopardiano”, una visione arrendevole, da sconfitti, bensì una grande conquista dell’uomo; la presa di coscienza che porta alla rivolta. Non parlo chiaramente di una sommossa armata, ma del concetto che Camus sintetizzò con la fortunata asserzione: “Je me révolte donc nous sommes”, suo personale cogito ergo sum, per cui l’unica ribellione possibile (e l’unico principio che ci rende veramente esistenti) sta nell’accettazione dell’assurdità della vita e nell’acquisizione del valore della comunità attraverso il compimento di atti ordinari. La vera esistenza, o meglio, l’esistenza cosciente, nasce con l’accettazione dell’imprescindibilità della noia e dell’amarezza, con la consapevolezza della contingenza dell’uomo. Essere vivi a questo mondo non è altro che un caso; siamo inconfutabilmente inutili come lo è un fiore o uno scoglio. La libertà si ottiene con la coscienza, unica vera forma di rivolta all’assurdo che ci circonda. La libertà si ottiene con l’emancipazione dall’idea di un disegno divino, che ci illude di essere necessari e predestinati. Solo abbandonando l’impellente necessità di corazzarsi dietro a ruoli, con cui l’uomo mistifica e organizza il suo rapporto con la realtà a scopi autoprotettivi, sarà possibile una vera liberazione e di conseguenza la straordinaria possibilità di scegliere. 

 

In entrambi i romanzi vige la paura di osservare la vita per quello che è, di agire autonomamente supportati solo dal proprio libero arbitrio, di uscire dal proprio dolore attraverso l’autoanalisi. In Piani di vita, i protagonisti raccontano storie, riscrivono, reinventano; qualunque strategia pur di evadere, qualunque menzogna pur di tutelarsi dalla propria desolante condizione. In Nonostante tutto i personaggi si incatenano a rigide funzioni, alla ricerca di una tutela controproducente che in qualche modo però gli fa sentire di avere un senso, una protezione.

La nausea di Roquentin, celebre personaggio sartriano, mentre osserva le radici del castagno e si rende conto della contingenza del mondo è la stessa che prova Fatima di fronte alle grida strozzate del suo bambino, alla violenza di Achmet, alla sua vita che è già in qualche modo segnata.

 

Questi due romanzi, nella loro diversità, mostrano due scappatoie, due strategie illusorie per liberarsi dal quel senso d’oppressione comune a qualunque essere umano; la comprensibile fuga dalle scelte, dall’ingiustizia del caso. Entrambi infatti risultano interessanti nella realistica rappresentazione dell’uomo e dei suoi meccanismi difensivi. I personaggi non scelgono, non si ribellano, restando quindi vittime di se stessi; dietro alla violenza dei loro comportamenti non si cela una lucida rivolta, ma sempre e soltanto uno scatto frustrato, muto, destinato a dissolversi silenziosamente nell’indifferenza del creato.

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