Per un buon senso dell’orientamento
Quest’estate ho consigliato in diverse occasioni la lettura del libro Geografia di un viaggiatore pavido di Luigi Farrauto. Nel testo, l'autore racconta di alcuni dei suoi numerosi viaggi ordinandoli a partire da alcune delle sue più intime paure. Ogni paura risulta così collocata in un luogo del mondo; collocazione che ne consente un attraversamento. Un esempio: la paura dell'immensità e l'Isola di Pasqua in Cile. Così, muovendosi fra i Paesi del mondo, guidato dalle sue paure, il viaggiatore si trasforma e scopre qualcosa di sé.
Tuttavia, ogni volta che, di fronte al mio consiglio di lettura, mi veniva chiesto di che tipo di libro si trattasse, mi ritrovavo puntualmente in difficoltà nel trovare una risposta. Di che cosa parla effettivamente questo libro?
La risposta più immediata sembrerebbe essere quella che la prima parola del titolo, geografia, ci suggerisce ovvero il libro parla dei viaggi dell'autore, un cartografo. Eppure la collocazione sullo scaffale della letteratura di viaggio non è quella esatta. Conviene, forse, soffermarsi allora su quel viaggiatore per intuire un riferimento a un'identificazione dello scrittore, autore di guide della Lonley Planet, in colui che ha fatto del viaggio il suo mestiere, optando dunque per un posizionamento sul ripiano dei testi autobiografici. Anche questa scelta non è quella più adatta. Resta ancora quell'aggettivo, quel pavido che suona ossimorico in rapporto al tema del viaggio e dell'avventura. Potrebbe allora trovare posto tra i romanzi di formazione? In un certo qual modo, indubbiamente, anche se la definizione di romanzo non sembra adeguata.
Quella che ritengo essere la scelta più calzante è la collocazione del libro tra la memorialistica: una testimonianza ovvero un racconto della memoria. Per definizione, appartengono a questo genere letterario quei testi che danno voce a un momento storico riletto dallo sguardo particolare del testimone. Uno sguardo che si caratterizza per lo sforzo di dire ciò che ha visto e dal quale è possibile trarre una riflessione più generale sull'esistenza. Di che testimonianza si tratta, allora, nelle pagine di Geografia di un viaggiatore pavido? Siamo di fronte alla testimonianza del lavoro necessario alla costruzione di un sapere; un sapere che ha a che fare con la vita e con la morte che abitano ognuno di noi. Un sapere che riguarda un certo saperci fare, un cavarsela, con il reale dell'esistenza. Tale testimonianza è resa interessante soprattutto dal fatto che essa sembra sorgere come effetto della stesura del libro piuttosto che come intento che guida la scrittura. È proprio questo rovesciamento che conferisce al testo una sua originalità: non si tratta di un'esibizione narcisistica della propria vita, né di un'esposizione delle proprie conoscenze, quanto invece di un racconto del movimento in atto in una ricerca di sapere. Con sapere si intende qualcosa di diverso dalla conoscenza. Martine Menès in Il bambino e il sapere scrive che il sapere è sia oggetto, ciò che uno sa, sia atto, il prendere con sé: “entrare nel processo del sapere è entrare in un infinito e rinunciare ad essere onniscenti; è anche situarsi in rapporto all'altro, in una filiazione e una trasmissione che significano l'accettazione di una certa dipendenza da quelli che ci precedono […] nel suo secondo senso, il verbo “sapere” designa un processo regolare e permanente, che consiste nell'esercitare la propria attitudine a conoscere il nuovo e nel sollecitare le proprie conoscenze acquisite”.
In un'epoca dominata dalla domanda di orientamento e da sintomi che intaccano il rapporto col sapere dei soggetti, il lavoro di Farrauto si rivela, oltre che un testo originale, anche uno spunto per una riflessione molto attuale riguardante il modo in cui è possibile costruire un sapere che permetta di orientarsi nelle scelte della propria vita. È un tema di una forte portata politica che vede al cuore della questione la dimensione del tempo. A partire dal testo di Farrauto estraggo tre modi del tempo che entrano in gioco nella costruzione di un sapere: il tempo dell'infanzia, il futuro anteriore e l'irreversibilità dell'inizio.
Partiamo dal primo. Anni fa, in una bellissima versione italiana di Ornella Vanoni della canzone L'apprendista poeta, viene evocata attraverso poche immagini, la vita di un bambino che esplora il mondo che gli sta attorno e – anche e soprattutto – quello che si trova dentro di lui. Recita la canzone che in questa esplorazione nascono le prime parole, quelle parole che segnano la vita segreta, che un giorno, poeta, si ricorderà. È il ritratto di una specie di bambino in via di estinzione. Li potremmo chiamare i bambini curiosi o, come suggerisce la canzone, gli apprendisti poeti. Sono una specie difficile da scovare ai giorni nostri. Forse a causa degli innumerevoli e voraci predatori, questi bambini tendono ad adottare dei camuffamenti che li rendono irriconoscibili a prima vista. Molti di loro optano per un travestimento da grandi neonati per cui il mondo è un luogo terrificante dal quale è necessario essere protetti da qualcun altro, in costante assetto di difesa; altri, invece, preferiscono vestirsi da piccoli adulti. per cui il mondo diventa un posto già conosciuto, già sperimentato, per cui è solamente necessario acquisire gli strumenti atti ad affrontare ogni intemperia. Accade molte volte che gli apprendisti poeti si dimentichino di indossare una maschera la quale inizia così a perdere la funzione di gioco per diventare immagine immobile e inamovibile di un volto coperto.
Ogni bambino è un apprendista poeta. È una condizione strutturale che concerne il rapporto che ogni soggetto intrattiene col linguaggio a partire dalla sua venuta al mondo. Ma, e qui la canzone della Vanoni ci viene in aiuto, questo non ha a che fare con il comunicare con gli altri – come spesso i vari psicologismi sostengono oggi giorno – quanto col poter dire qualcosa di questo incontro traumatico che ogni soggetto ha sperimentato e sperimenta nella sua esistenza. Geografia di un viaggiatore pavido apre su una scena che ci aiuta a proseguire in questo senso. Scrive Farrauto: “Quando avevo dieci anni […] sottolineavo con la matita i luoghi dai nomi più avvincenti […] la passione che nutrivo per l'indice analitico a fondo volume la diceva già lunga sul mio rapporto con le ossessioni”. Quello che emerge da queste prime righe è la fascinazione nei confronti del linguaggio a partire dalla sua insignificanza: come può, infatti, un nome essere avvincente? Può esserlo nella materialità della sua pronuncia, nella sua melodia, nella sua dissonanza con un'altra parola conosciuta oppure ancora nella sua possibilità evocativa. Insomma, una parola è avvincente nella misura in cui la si considera nella sua poeticità, da intendersi, nella sua insignificanza. “Avevo dieci anni e avevo appena scoperto la curiosità”, scrive poco più avanti Farrauto. Insignificanza, dunque, come modo di fronteggiare l'impossibile a dirsi del reale e, conseguentemente, come spinta verso il sapere.
Passiamo al secondo punto, il futuro anteriore, uno dei tempi più bistrattati nell'ora di grammatica, tempo che permette di formulare “un'ipotesi attuale circa un evento accaduto nel passato” che ha effetto sul futuro. Un modo del tempo, dunque, che tiene in dialettica il presente, il passato e il futuro. Il futuro anteriore permette di cogliere, in fondo, la natura viva del tempo nelle sue qualità di ripetizione e di invenzione. Il momento di incontro/scontro fra queste due qualità ha un preciso luogo psichico, che viene ben colto da Farrauto: il luogo dell'angoscia. Su questo terreno si gioca ripetutamente la partita di ogni soggetto laddove ogni evitamento del campo comporta effetti molto più drammatici di quelli di giocare la partita.
Emerge così una logica che non risponde a un susseguirsi di eventi più o meno importanti e decisivi nella vita di una persona quanto un ripetersi di punti di rottura che segnano delle discontinuità temporali. Qualcosa, insomma, accade ripetutamente, ogni volta come se fosse la prima volta, rompendo quell'apparente cronologia lineare e irrompendo nel sonno del soggetto. Sono delle occasioni che consentono di riscrivere, ripensare il rapporto col tempo a partire da ciò di cui il soggetto non vuole sapere ovvero il suo essere sessuato. Ogni essere sessuato si trova, infatti, a fare i conti con i limiti che comporta il fatto di avere un corpo: primo fra tutti, il fatto di essere soggetti alla castrazione. Se questo, da un lato, comporta fronteggiare il fatto di essere mortali; dall'altro, e in maniera nettamente più angosciante, implica il dover fare i conti col fatto di essere vivi. Una vita che si manifesta a discapito della propria volontà nella forma dell'imprevisto. Il tentativo, sempre fallimentare, di evitare la castrazione è pericoloso. Il punto, tuttavia, è che un evitamento è molto pericoloso. Con tocco leggero, ce lo ricorda Vecchioni in Samarcanda: “Ma c'era sulla porta quella nera signora / stanco di fuggire la sua testa chinò […] Sbagli, ti inganni, ti sbagli soldato/ io non ti guardavo con malignità/era solamente uno sguardo stupito, / cosa ci facevi l'altro ieri là? / T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda, / eri lontanissimo due giorni fa, / ho temuto che per ascoltar la banda, / non facessi in tempo ad arrivare qua”.
Nel libro di Farrauto la strutturazione dei capitoli in rapporto alle paure e la scelta di farli coincidere con dei luoghi rende immediato il senso dell'attraversamento dell'angoscia in opposizione alla visione più diffusa nel linguaggio attuale che vede nella paura un ostacolo da evitare o da superare. Seguire, invece, le tracce disseminate nel libro permette al lettore di dare una forma al protagonista; un soggetto che sorge come effetto del discorso e non come io narrante onniscente.
Terzo e ultimo punto: l'irreversibilità dell'inizio. Si pensi alla prefazione di Calvino al suo Il sentiero dei nidi di ragno, quando riflettendo su quel suo primo romanzo, indica con precisione che “finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne”. L'inizio coincide allora con una scelta, ci suggerisce Calvino; una scelta che apre alla possibilità di dirsi – seppur limitata – a patto che si rinunci all'infinità delle possibilità di essere – che ridurrebbero il soggetto al silenzio. Così, nella sua operazione di scrittura, Farrauto mostra il modo in cui rintracciare quel sì iniziale da cui prende avvio la ricerca, quel desiderio di saperne qualcosa di più di quello che muove una persona nel mondo. È in questo punto che la dimensione del diritto si annoda con quella del dovere rovesciando il discorso comune: l'esercizio della libertà diventa un dovere. Un dovere, direbbe Lacan, di ben dire.
Il richiamo al dovere permette di situare la questione del sapere nel campo dell'etica, la necessità di prendere parola rispetto all'impotenza del dire. Un compito evidentemente paradossale che permette però di trasformare quell'impotenza in impossibilità. Nelle prime pagine di Geografie l'autore utilizza un'espressione del lessico psicoanalitico ovvero intuisce che al centro del discorso c'è l'elaborazione di un lutto. Di che lutto parla? È il lutto con cui ogni essere parlante si trova a fare i conti, ovvero il lutto della completezza dell'Altro. C'è sempre un resto di indicibile: si può dire qualsiasi cosa, ma non si può dire tutto. Quando un soggetto sceglie di farsi carico di questa elaborazione, assumendo il rischio di dire qualcosa di ciò che per lui o per lei indica il suo stare al mondo, scegliendo il dire al posto del silenzio, allora diventa possibile che questa impossibilità a dire diventi il motore stesso della ricerca, la struttura della possibilità di desiderare. Sottrarsi a questo compito condanna a una certa tristezza e a una onnipresente noia. Negarne, invece, il dovere di dedicarsi a tale compito porta al rischio dello schianto. È quello che accade, ad esempio, al protagonista di Geografie: “ero davvero convinto di essere immortale quando ero in giro per il mondo – scrive – fino a quando lungo il cammino qualcosa è andato storto”. È un'anticipazione che troviamo nelle prime pagine e che serve a riprodurre su carta il ritmo di un'accelerazione. A un viaggio ne segue un altro e poi un altro ancora, e ancora, fino a che l'impossibilità di fermarsi conduce a una paradossale immobilità e, infine, al crollo. Sarà proprio il crollo l'occasione della formulazione di una domanda: come sono arrivato qui?
Questa domanda è alla base della costruzione di un sapere in quanto inaugura la ricerca sul modo (la velocità, i momenti di immobilità, i punti ciechi, le deviazioni, gli arresti improvvisi, le accelerazioni, …) di procedere nella propria vita. Una ricerca rigorosa volta a mettere ordine nel discorso che ha preceduto e che oltrepassa il soggetto stesso; è un lavoro di punteggiatura, di sottolineature e di cancellature che permette di potersi reperire all'interno della propria esistenza.
È quel ben dire di Lacan – e prima di lui di Spinoza e di Nietzsche – che porta con sé la possibilità di accedere alla “gioia relativa al sapere che consiste nel far posto al godimento nell'esercizio del sapere” (Gli affetti analitici, Miller) cioè il poter godere del proprio essere desiderante.