Re-imparare a immaginare / Per una clinica del presente

12 Marzo 2020

In una poesia intitolata Lezione di anatomia Arrigo Boito narra di un professore di medicina intento a dissezionare il corpo di una giovane donna. Tutto il componimento si gioca sul contrasto tra la freddezza del chirurgo, mentre estrae gli organi per mostrarli ai suoi studenti, e l’immaginazione del poeta. Boito vede davanti a sé un corpo ancora caldo e possibile e pensa “agli eterei / della speranza / mille universi!”. Quelli a cui rivolge la mente sono universi aperti da un altro sapere, un sapere fecondo, che si mescola con la magia, con il mistero e, in ultima analisi, con la vita. Tuttavia al medico e agli studenti quella donna appare solo come un cadavere freddo, come il mero oggetto della loro osservazione, da sottoporre all’analisi della disciplina. Così di fronte all’orrore della dissezione di quel corpo giovane e bello, Boito inveisce contro la scienza ottocentesca: “Scïenza, vattene / co’ tuoi conforti! / Ridammi i mondi / del sogno e l’anima”. 

 

Dopo un secolo e mezzo nelle università e nelle scuole si dissezionano ancora cadaveri. Il pensiero di scienziati, filosofi, sociologi, psicologi, economisti e persino quello degli attivisti – che nel loro stesso nome contengono l’azione e quindi la vita – diventa un corpo morto, su cui ciascuno è chiamato a operare una dissezione, cancellando la bellezza, per sostituirla con gli oggetti su cui si pratica la dissezione e il giudizio. Non è del resto quello che fa lo stesso pensiero critico? Se ricorriamo all’etimologia, ci accorgiamo che questa espressione implica azioni come la divisione, la scomposizione e l’analisi. La stessa cosa viene richiesta dalla scuola allo studente. Da lui ci si aspetta, per esempio, che sappia analizzare il testo poetico e che sia capace di risolvere nella sua interpretazione l’incantesimo della poesia. In nome di questa semplice dissezione dei versi egli sarebbe in grado di annullare la distanza tra sé e il poeta. In questa idea di studio si annida sempre la pretesa di una comprensione totalizzante. Com-prendere vorrà dire risolvere gli enigmi. Da questo punto di vista il passato sarebbe il tempo risolto. Sarebbe sufficiente prendere in esame ciò che è stato già scritto, già detto e già pensato, per essere nel giusto e essere in grado di vivere, relazionarsi agli altri, costruire il futuro. Ce n’è abbastanza per condividere l’invettiva di Boito e il suo desiderio di reimparare a immaginare, piuttosto che a dissezionare morti.

 

 

In realtà la crisi della nostra contemporaneità – crisi economica, ambientale, sociale e culturale – ci pone quotidianamente di fronte alla necessità di trovare nuovi strumenti e strategie originali, per affrontarne la crescente complessità. Liberarsi dall’idea di un passato che si presume risolto e di una altrettanto risolutiva dissezione dei cadaveri per aprirsi agli universi della speranza citati da Boito è forse possibile solo descolarizzando il pensiero occidentale e liberando le istituzioni dell’insegnamento dalla loro fissazione su atti come il dissezionare, il criticare, l’analizzare. In fondo gli “universi della speranza” di Boito altro non sono se non la capacità stessa del pensiero di costruire alternative e vie di fuga. La necessità di agire nel tempo del possibile – ossia in vista del futuro che si annida nello stesso presente – chiede che si trovino valide alternative al gesto esclusivo della critica.

 

Il Lessico della crisi e del possibile, curato da Fabrice Olivier Dubosc e scritto con il contributo di quasi una cinquantina di autori e autrici, trae origine proprio dalla necessità di trovare uno strumento alternativo al pensiero critico, per imparare ad abitare il presente. Il libro nasce dall’idea di realizzare una clinica del nostro tempo come “clinica della crisi”: un esperimento alternativo al predominio della critica, ma che corrisponde a una cura del possibile basata sul dialogo tra saperi diversi – da qui l’eterogeneità del gruppo di partecipanti – per riuscire ad ampliare sempre di più la rete del pensiero. La distinzione tra una dimensione critica e questa inedita “clinica della crisi” si fonda sulla capacità di abitare il presente, che come scrive il curatore nella prefazione, “non significa acquiescere, ma calibrare una miglior risposta, una più efficace resistenza”. Il pensiero clinico si distingue da quello critico prima di tutto per il movimento che compie, inclinandosi verso il suo oggetto, senza mai toccarlo, ma senza mai pensarsi come assolutamente separati da esso, com’erano invece il professore di medicina di Boito e i suoi discepoli. 

 

Ragionare sulla crisi del presente per una via che non è critica, senza per questo essere acritica, significa scegliere la più complessa via della cura. A tal proposito occorre ridisegnare il linguaggio con l’intento di decostruire gli stereotipi (si vedano a esempio i lemmi “buonismo”, “differenza”, “campo”) o di trovare in termini magari poco frequentati le immagini che ci occorrono per praticare il presente (come appare da molti lemmi, tra cui segnalo quelli su “ninfa”, “vulnerabilità”, “gentilezza”). Il Lessico tende infinitamente alla contemporaneità, senza mai pretendere di afferrarla e di definirla. La riflessione sul linguaggio che è sottesa a un tentativo di questo tipo richiama fortemente la leopardiana distinzione tra “termini” – precisi e inequivocabili – e “parole” – vaghe e indefinite. Il poeta invitava all’uso delle seconde in poesia, proprio perché solo l’indefinito può scatenare l’immaginazione del lettore. Se volessimo riprendere tale concetto, al di là della poetica stessa di Leopardi, potremmo dire che solo ciò che è sussurro o un balbettio può ancora permettere al pensiero di creare. È attraverso un altro uso vago delle parole che ogni tempo diventa presente, ossia il tempo dell’azione.

 

Tanto l’eurocentrismo quanto il maschilismo delle narrazioni dominanti del passato ne sono un esempio evidente. Basti pensare all’uso di espressioni come “la scoperta dell’America”, alla retorica insita in termini come “modernizzazione” e “sviluppo” oppure all’ancora scarso – se non inesistente – spazio riservato allo studio della condizione della donna nei secoli. Sotto la coltre di un linguaggio apparentemente scientifico, e quindi neutrale, ma in realtà spesso intriso di pregiudizi razziali, si soffocano le infinite possibilità della creatività, rendendo incapaci di ascoltare il presente per mezzo degli schemi e dei filtri di percezione della realtà che un tale linguaggio offre. 

Nel Lessico Annalisa Furia scrive che “adottare la prospettiva della cura significa abbandonare l’illusione di un ideale maschilista centrato sulla supposta superiorità dell’individuo razionale, autonomo, indipendente, efficiente e invulnerabile abbracciando invece la realtà della condizione umana come intrinsecamente relazionale, definita da bisogni, vulnerabilità e interdipendenza”.

 

La società patriarcale attraverso la femminilizzazione del lavoro di cura ha svilito anche il linguaggio ad essa connesso, composto da vocaboli che invece si rivelano estremamente utili per descriverci come donne e uomini e abitare lo spazio sociale comune. Occorre che il nostro linguaggio diventi femminile per metterci in relazione con la verità che sta prima di tutto nella fragilità dell’umano, immediatamente riconoscibile nella sua finitezza. Solo attraverso l’accettazione della nostra vulnerabilità che passa per la trasformazione linguistica sarà possibile abitare noi stessi e quindi praticare il presente.

Così Alessio Surian richiama alla necessità di un apprendimento che ponga al centro il ruolo del corpo ossia l’esperienza. Entrare nella dimensione pratica del sapere è necessario per sfuggire al mantra neoliberista “un altro mondo è impossibile”. L’apprendimento che trova come suo centro l’emozione è forse l’unico in grado di superare i modelli dicotomici e di spingersi oltre verso la dimensione dell’azione e della creatività, proprio perché fornisce gli strumenti per accettare il cambiamento, senza sentirsene minacciati. In tale possibile nuovo rapporto nasce la chance di immaginare come una vita libera sia in primo luogo una vita che fa della cura il suo gesto fondamentale. È singolare che nel Lessico venga citata a tal proposito – sia nella prefazione che nella postfazione – quell’Introduzione a una vita non fascista in cui Michel Foucault invitava gli stessi militanti a guardarsi dal fascismo implicito nella loro azione politica, riscoprendo il legame tra desiderio e realtà. Nel desiderio nasce e cresce la creatività e quindi il futuro nella proliferazione delle sue infinite forme possibili. 

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