Conversazione con Jonathan Simon / Pericolo, crimine e diritti
Questa conversazione - tradotta da Giovanni Vezzani - è un estratto dal nuovo numero della rivista aut aut, di cui riportiamo la prefazione scritta da Mario Colucci e Pier Aldo Rovatti.
Questo fascicolo prosegue l’indagine sulla pericolosità avviata nel n. 370, mantenendone il titolo e ampliando i diversi percorsi collegati o collegabili a una questione che riteniamo attuale e decisiva. Il passaggio dall’individuo pericoloso alla società a rischio viene inizialmente sviluppato attraverso alcuni materiali: un’inedita conversazione che Michel Foucault tenne negli Stati Uniti nel 1983, la ricostruzione di Bernard Harcourt di come si è imposto il concetto di analisi attuariale e due interventi della scuola belga di criminologia a firma di Fabienne Brion e Christophe Adam. Ma il fascicolo apre anche una serie di altri fronti che vanno dal terreno giuridico e dal problema del carcere all’emergenza sociale e politica del “pericolo” immigrati, oggi molto dibattuto in Italia e in Europa, a quella della violenza sulle donne, indagata dalla prospettiva della psicoanalisi. Siamo una rivista che cerca di mettere alla prova ogni volta il pensiero critico: l’allargamento della questione a partire dal nodo storico e teorico della pratica psichiatrica si accompagna di conseguenza a un tentativo di approfondire ulteriormente il tema della pericolosità. La questione della pericolosità non va sfumando in quella del calcolo del rischio, all’opposto sembra intensificarsi come domanda teorica, certo non semplice, che dobbiamo continuare a rivolgere a noi stessi, dovunque operiamo: tale domanda dovrebbe mettere in gioco radicalmente le nozioni di normalità e anormalità, la loro tenuta e i loro confini, dato che non possiamo pensare di disfarci davvero delle categorie di pericolo e di pericolosità senza indagare gli effetti che esse hanno sulla nostra stessa idea di soggetto, cioè i pregiudizi e le relative forme di violenza che impugniamo quotidianamente contro le persone deboli e che tali pregiudizi continuano a innervare. Tutti quanti noi operiamo all’interno di una cultura asfittica nella quale dobbiamo immettere ossigeno critico, cioè, in breve, interrogarla. Questo fascicolo vorrebbe allora suggerire che il tema del pericolo, individuale e sociale, ha necessariamente un rimbalzo su quell’idea di “soggetto normale” che molto spesso consideriamo un’acquisizione comune e tranquillizzante.
Michel Foucault - Penso che vi siano due concetti principali in questa nozione di pericolo. Una – che può essere definita la concezione antica di pericolosità – credo sia radicata nel problema che chiamano monomania, monomania omicida.
Jonathan Simon - Un tipo di crimine mostruoso.
M.F. Ci sono mostri che hanno ucciso persone e sono incapaci di spiegare perché lo hanno fatto. Ed è molto interessante vederlo in Germania, in Inghilterra e in Francia e forse anche negli Stati Uniti, anche se non ne sono certo, poiché non conosco abbastanza questo genere di cose. In questi tre paesi, negli anni venti dell’Ottocento, si registrano casi di persone che hanno ucciso un bambino o i genitori o qualcun altro, per la strada, in casa, e sono incapaci di spiegare perché, di fornire ragioni. E così innanzitutto era un grattacapo per i giudici, e anche per i medici e gli psichiatri, poiché quando qualcuno ha un motivo per uccidere – interessi, gelosia, una lite sull’eredità ecc., questo genere di problemi familiari – allora si può dare un giudizio sull’azione commessa, capire l’operato e il motivo. Erano ragioni fondate o infondate, è stato per via dei suoi interessi… Farò un esempio ben preciso. Si tratta del caso di una donna che ha ucciso il suo bambino e lo ha cucinato.
J.S. Ah sì, è riportato qui. [Si tratta del caso Selestat, discusso da Foucault in vari articoli e seminari]
M.F. E la discussione era questa: se la donna fosse stata ridotta alla fame, allora avrebbe commesso il fatto per nutrirsi. E in tal caso sarebbe stata colpevole, poiché effettivamente lo aveva commesso. Ma se fosse stata ricca, allora non avrebbe avuto motivo di farlo, quindi si sarebbe potuto considerarla folle, una malata di mente. Poiché era assolutamente indigente, c’era il sospetto che l’azione fosse stata compiuta per “interesse” e fu considerata colpevole. Perciò gran parte di questo tipo di problema ruota intorno alla domanda se ci sia un motivo per cui uno ha agito così, e solo quando non si trova un motivo si dice che si tratta di un atto irragionevole. In questo genere di casi si è di fronte a un individuo che è pericoloso a sé e agli altri, non a causa delle circostanze o del contesto, ma perché costituisce un potenziale pericolo per la società senza alcuna ragione, e per il fatto stesso che egli non ha motivo di fare ciò che fa.
J.S. Allora persino in questa prima fase il problema principale non era la responsabilità?
M.F. Sì, era un problema. Ma poiché nel codice francese, nel codice napoleonico, si dice che uno è responsabile per ciò che ha fatto se era consapevole di ciò che stava facendo e se non era stato costretto a farlo, il dilemma sorgeva quando non era possibile addurre spiegazioni: non è questo il segno che non si era del tutto consapevoli di ciò che si stava facendo? Oppure non era il segno di una qualche compulsione o corruzione che spinge a fare ciò che si fa? Ritengo che qui si abbia l’esempio di un individuo che è pericoloso di per sé per una qualche misteriosa ragione psicologica.
E dall’altra parte penso che dietro la nozione di pericolosità si celi qualcosa di completamente diverso, che è la scoperta del fatto che nella nostra società vi sono irregolarità statistiche per quanto riguarda l’esecuzione dei delitti. Quindi proprio come in una città c’è un certo tasso di vittime di incidenti stradali, allo stesso modo c’è un tasso costante, permanente di crimini. Perciò il crimine diventa un pericolo perenne nella società: può accadere precisamente come uno scontro fatale, come un incidente. E credo che l’intreccio di questa idea di pericolo psicologico, scoperto tramite quei casi patologici, e la scoperta di dati statistici, irregolarità statistiche, all’incrocio di queste nozioni si ritrovi l’idea di pericolo con le sue ambiguità.
J.S. E in epoca moderna non deve trattarsi necessariamente di un crimine mostruoso?
M.F. No, assolutamente no. Ma naturalmente questa nozione psichiatrica di pericolosità – attraverso il problema dell’irregolarità statistica del crimine –, questa nozione di dangerosité psicologica, psichiatrica è divenuta sempre più familiare, mentre essa è sempre meno correlata a un qualche tipo di mostruosità. E questo pétit délit, questo reato minore, o infrazione, è stato l’esemplificazione; è stato a quel livello che si poteva trovare l’articolazione tra la dangerosité psicologica e la nozione di pericolo sociale, o dangerosité statistica, perché è piuttosto evidente che quei grandi mostri non emergono molto spesso. Ma lo sappiamo per certo attraverso le statistiche, giacché attraverso lo studio statistico del crimine e della delinquenza che iniziò in Francia nel 1826 (e penso in altri paesi nella stessa epoca) si sapeva molto bene che i ladruncoli o le aggressioni sessuali e altre cose del genere erano [incomprensibile]. E, per ragioni del tutto evidenti, anche nei casi di piccola criminalità la récidive, la recidiva, era molto frequente, anzitutto per via del fatto che per quei reati minori le persone andavano in prigione uno o due anni e poi venivano rilasciate e ricominciavano, mentre ovviamente non c’era recidiva per i grandi crimini perché si veniva giustiziati.
J.S. È molto interessante.
M.F. Per cui quelle persone… almeno in Europa, in Francia, il problema della recidiva iniziò a essere molto acuto negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento. Per esempio si scoprì che per le aggressioni sessuali questo tipo di crimine era reiterato. Sono sempre le stesse persone a fare le stesse cose nelle stesse circostanze.
J.S. Ma ciò aveva anche un fondamento politico o di classe, nel senso che si concentrava sulle azioni illegali di…?
M.F. Di certo era correlato alla coscienza di classe, e l’idea che ci fossero alcune classi che erano pericolose e così via, sì, è sicuramente importante. Ma c’è un elemento che credo potrebbe essere indagato un po’ più a fondo. Si tratta del problema della delinquenza nelle classi più elevate. Le ho accennato alla questione della ferrovia, c’era anche il problema dei grandi negozi, i magasins, all’epoca non ancora supermercati. Lei sa che in Europa è stato intorno agli anni sessanta dell’Ottocento che si sono diffusi questi enormi negozi come Macy’s, e in Francia abbiamo La Belle Jardinière e Le Bon Marché e così via. Zola ha scritto un libro su di essi, qualcosa di abbastanza innovativo per l’epoca. Au bonheur des dames è un romanzo scritto da Zola su questi grandi magazzini che sono una vera novità sociale. Quindi in quei grandi negozi, in quei grandi magazzini, le donne borghesi iniziarono a praticare il taccheggio. Ci furono molti casi, e per la prima volta si scoprì che rubare era un comportamento rintracciabile tanto nella borghesia quanto nelle classi più umili. E ciò vale anche per il problema dei crimini sessuali. Perciò il problema della dangerosité non è così lampante come uno potrebbe pensare, non riguarda il fatto che le persone delle classi meno abbienti sono di per sé pericolose; certamente c’è questa idea ma c’è anche il problema posto dalla delinquenza borghese.
J.S. Ma, almeno nella mia esperienza di come oggi viene trattato in America quello che chiamiamo un criminale col colletto bianco (cioè un borghese, specialmente con riferimento al crimine in ambito economico e aziendale), non viene trattato dai tribunali come una persona pericolosa, anche se provoca una violenza, nel senso di lesioni a un lavoratore o a un consumatore che acquista un prodotto che è stato intenzionalmente immesso sul mercato nonostante fosse pericoloso. Come persone, i criminali col colletto bianco non sono pericolosi. Ed è anche il caso, per esempio, delle persone malate di mente, che in questo paese – e forse in Europa in generale – sono state trattate come assai più pericolose di quanto studi successivi non abbiano dimostrato. Un ambito in cui ciò emerge, in questo paese, è che se le persone vengono dichiarate non colpevoli per infermità mentale, o se sono sottoposte a ricovero coatto, non possono uscire fintantoché non dimostrano di non essere pericolose. Si sono fatti numerosi studi in base a cui, per esempio, la Corte suprema ha deciso di ordinare il rilascio di migliaia di persone malate di mente che erano detenute in manicomi criminali. Si è detto: dovete sottoporle a ricovero coatto o lasciarle andare. Queste persone, poi, sono state seguite da studiosi di scienze sociali e hanno mostrato tassi molto bassi di criminalità, molto inferiori alle previsioni. Quindi non sono più pericolose, eppure si è continuato a presumere che lo fossero.
M.F. Certo. Questa è una delle cose che reputo più interessanti in questa storia, cioè che in effetti i folli sono meno pericolosi rispetto alle altre persone perché…
J.S. Perché hanno difficoltà a muoversi liberamente.
M.F. Perché il loro è un problema psicologico. La ragione per cui hanno altro da fare che commettere crimini. In ogni modo, vorrei tornare sulla questione della delinquenza e della criminalità dei colletti bianchi. Quando negli anni sessanta dell’Ottocento i giudici scoprirono la frequenza con cui avvenivano i taccheggi, furono naturalmente molto imbarazzati, per lo stesso motivo che le ho citato a proposito del caso della donna che aveva mangiato suo figlio: il problema era perché mai una persona ricca, a cui non manca nulla, che può pagare e così via, nonostante tutto ruba? Perciò i giudici furono costretti a costruire una categoria psichiatrica che aveva un duplice vantaggio: per fornire una spiegazione o una categorizzazione di questo fatto inventarono il concetto di “cleptomania”, proprio come in precedenza si era fatto ricorso alla monomania omicida per le persone che uccidevano senza un movente. E tramite questa categoria poterono tenere fuori dai tribunali quelle donne, perché erano affette da una sindrome psichiatrica che era la cleptomania.
J.S. Ma se in Europa a quell’epoca si veniva riconosciuti come non responsabili perché affetti, per esempio, da cleptomania, ciò comportava che si veniva posti sotto il controllo dello Stato in un manicomio, oppure si veniva rispediti a casa per essere accuditi?
M.F. In Francia, nei codici napoleonici, in Europa, abbiamo quello che chiamiamo l’articolo 64, che afferma che non c’è nessun reato se l’atto è stato compiuto da qualcuno che non aveva il controllo di sé, o perché in stato di demenza o perché costretto a compierlo.
J.S. Noi diciamo la stessa cosa, ma poi li rinchiudiamo.
M.F. Sì, ma prima penso che cerchiate di ricostruire le circostanze del reato, no?
J.S. Sì.
M.F. Il reato è stato compiuto, ma l’uomo non ne è responsabile. Ciò che è più interessante in tribunale da noi è che il reato non esiste.
J.S. Una volta che si è accertata l’infermità mentale non si continua?
M.F. Se durante l’instruction, l’indagine preliminare, una perizia psichiatrica dimostra che durante l’atto il criminale era in un état de démence, in uno stato di follia, allora tutto si ferma. Con un provvedimento di carattere amministrativo, si decide che il paziente (perché ora è divenuto un paziente) venga rinchiuso in un ospedale psichiatrico e i medici, i dottori, decidono quanto tempo deve rimanere e così via. Ma la giustizia non ha più nulla a che fare con lui. È finita: il reato non è esistito. È estremamente interessante, come può notare, perché dal punto di vista teorico ciò implica che il reato non costituisce di per sé un atto: il reato costituisce una certa relazione tra un atto e un’intenzione.
J.S. Noi ci siamo allontanati da questa visione, penso alla fine del XIX secolo.
M.F. Non avete mai avuto questa nozione di inesistenza del reato?
J.S. No, non quella nozione. ...