Piccola nota su Claudio Caligari seguita alla visione di Non essere cattivo

9 Ottobre 2015

Francesco Demichelis, Isola Sacra, Fiumicino, 2006

 

Una brezza marina scivola lieve verso il quartiere Prati: ha un che di dolce e di salmastro, e si muove con l'allegria e la leggerezza delle promesse mantenute.

Dalle baracche dell'Isola Sacra e dalle macerie dell'Idroscalo, risale il gioco misterioso delle anse del Tevere fino al viadotto della Magliana, dove si intrufola in città.

Scavalcato il ponte del Gasometro, lambisce l'Isola Tiberina e pare dissolversi, per qualche istante, tra il colonnato di Piazza San Pietro, per riprendere corpo proprio sotto ai nostri nasi, messi in fila davanti al cinema di Viale Giulio Cesare.

Io la sento quando arriva e subito la riconosco, ma non mi volto a cercarne l'origine con lo sguardo: mi capitasse di vedere il mare, magari poi ne seguirebbero i pensieri.

Ritrovo qui Claudio Caligari, in un'umida sera di fine estate, poco distante dal luogo in cui sentii parlare di lui per la prima volta.

Claudio Caligari: e chi cazzo sei, chi te conosce? pensavo io, pischelletto, tra le panchine dei giardinetti della Mole Adriana.

Era l'Estate Romana e il ruolo del mattatore quella sera lo giocava Nanni Moretti, al tempo ancora in vena di provocazioni.

Nell'89 il cinema italiano era dato grosso modo per spacciato; la rinascita del decennio successivo era di là da venire, e si navigava a braccio nella spasmodica ricerca di nuove idee e nuovi talenti.

Alla domanda su quale fosse stato, a suo parere, il film più importante prodotto in Italia negli anni '80, Moretti rispose secco: Amore tossico – e poi giù a respingere le critiche.

 

Scena dal film "Amore Tossico", 1983. Regia Claudio Caligari

 

Molti anni dopo, quando quel film lo avevo ormai mandato a memoria, A.J. – al tempo mio mentore – mi raccontò di quando Amore tossico era uscito nelle sale, del putiferio che ne era scaturito e dell'isteria collettiva che Caligari e i suoi attori eroinomani erano riusciti a suscitare nell'opinione pubblica dell'epoca.

In Italia nella prima metà degli anni '80 l'argomento eroina era considerato un tabù inviolabile, e nonostante il fatto che gli alberi di tutti i giardinetti del Paese fossero punteggiati di siringhe usate, l'esercito di morti viventi che si barcamenava nella quotidiana triangolazione rota-sbattimento-pera in attesa dell'overdose o della morte per AIDS, era guardato ancora come un fenomeno che non meritasse tanta attenzione, quasi si trattasse di un brutto pensiero da rimuovere, alla stregua della polvere da nascondere sotto al tappeto.

A.J. mi disse anche che, nonostante dalla bagarre seguita al film fosse venuta fuori qualche discussione costruttiva in merito ai problemi che esso sollevava, di lì a poco Caligari era praticamente svanito nel nulla, quasi che la sua reputazione e i suoi intenti fossero stati resi oggetto di una vera e propria campagna di demolizione.

Le voci che correvano sul suo conto alla metà degli anni '90 parlavano ancora di sensazionalismo, di volontà intenzionale di lucrare sul disagio, di sfruttamento e di pornografia della miseria: non c'era da stupirsi che a volerlo ritrovare ci si dovesse volgere verso il limbo dei registi senza futuro.

Eppure quei giudizi lapidari – che a detta di A.J. sin dall'uscita del film erano venuti tanto da destra quanto da sinistra – mi stupirono parecchio: ricordo che mi domandai come fosse possibile pretendere di osservare la realtà dal di dentro senza essere disposti a sporcarsi un po' le mani.

Caligari, che per realizzare Amore tossico si era calato in mezzo a quelli che al tempo erano considerati la feccia, gli scarti, i rifiuti della società, le mani doveva essersele sporcate per davvero: ma aveva avuto forse altra scelta?

Trovarsi a vivere sulla propria pelle i paradossi e le contraddizioni del cinema verità richiede coraggio, tanto più quando il soggetto preso in analisi sia così fragile quanto lo erano Cesare, Michela, Enzo, Ciopper, Loredana: gli ultimi degli ultimi.

La realtà è che Caligari, nel conferire la parola a quel mondo con il quale la cultura ufficiale dell'epoca si ostinava a rifiutarsi di parlare, ha voluto realizzare un'impresa altamente etica.

 

Scena dal film "Non essere cattivo", 2015. Regia Claudio Caligari

 

Ora che se ne è andato, lasciandosi alle spalle una fama di autore difficile, scontroso, rompicoglioni ma anche puro, integerrimo, impossibile da piegare al compromesso, quelle critiche suonano ancora più superficiali, ipocrite, bigotte.

Al tempo stesso esse rimarcano, in maniera paradossale, la statura del personaggio: esiste un orgoglio nell'essere un reietto, insegnava Genet, e se Caligari col suo cinema ha sempre cercato di mettersi dalla parte dei più deboli e degli emarginati, ben venga lo scandaloso oblio nel quale sarà presto nuovamente relegato.

Corre voce che prima di morire abbia detto: muoio come uno stronzo, e ho fatto solo due film; eppure, per noi che lo stimiamo, Claudio Caligari è rimasto lindo e trasparente fino alla fine dei suoi giorni.

Credo sia questa la ragione per cui il suo terzo (e ultimo) film è tanto bello.

All'uscita della proiezione, quel refoletto gioioso nato ad Ostia, tra i palazzi cadenti e i baracchini da due soldi in faccia al mare, è ancora lì che mi gira intorno: possibile che tanta freschezza possa venire proprio da qualcuno che ci ha appena abbandonato?

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