Il futuro anteriore di Olga Tokarczuk

6 Marzo 2024

Difficilissimo – quando non impossibile – farsi capire, negli ultimi tempi, a fronte del massacro indiscriminato di civili inermi in Palestina, laddove si vogliano sostenere le ragioni di Israele nell'affermare il proprio diritto ad esistere quale entità storica, e si chiami in causa, al tempo stesso, un principio di responsabilità morale rispetto agli sviluppi della catastrofe in corso; le recenti accuse di genocidio nei confronti dello stato ebraico, nato sulle ceneri del genocidio κατ' εξοχήν, pongono una serie di domande senza risposta che configurano uno scenario storico appestato dai cupi miasmi della tragedia: esiste un diritto della vittima a trasformarsi in carnefice? E, se sì, perché?

Il conflitto lacerante tra storia e morale, sotteso al paradosso della salvezza che passa attraverso la distruzione, ci pare essere il tema centrale di I libri di Jacub, romanzo-fiume di argomento storico di Olga Tokarczuk, pubblicato in Polonia nel 2014 e solo recentemente apparso in Italia per Bompiani. Il libro ricostruisce la vita e le vicende della controversa figura di Jacob Frank, mistico visionario ebreo-polacco che, forte del sostegno della folta comunità di seguaci del sedicente messia Sabbatai Zevi (1626-1676), alla metà del XVIII secolo si mise alla testa di un movimento ereticale di matrice messianica che sconvolse gli equilibri del mondo ebraico est-europeo, nel contesto cruciale del tramonto della Confederazione Polacco-Lituana. Nelle intenzioni dichiarate dell'autrice, il suo libro vuole essere un contributo alla riscoperta delle radici multiculturali del suo paese di origine, attraverso la minuziosissima ricostruzione letteraria di un universo che le catastrofi della storia hanno cancellato e precipitato nell'oblio: in particolare, di una comunità che troppo spesso viene rappresentata, in maniera univoca, nella contingenza storica del suo sterminio, ma la cui ricchezza culturale ha largamente contribuito, secondo l'autrice, alla formazione dell'identità nazionale della Polonia. Se tale pretesa, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del romanzo, valse alla Tokarczuck lo stigma di traditrice dei valori della patria addossatole dalla destra ultracattolica polacca, ancor più colpisce, a un decennio di distanza, l'attualità del suo discorso in un momento storico qual è quello che stiamo attraversando: per il contesto geografico e politico che mette in scena, I Libri di Jacub funziona benissimo infatti quale ideale camera oscura, all'interno della quale l'immagine delle attuali rovine di Gaza o di Mariupol trova il suo rovesciamento dialettico nel racconto dell'ultima fiammata di messianismo che ha interessato il mondo ebraico sulle soglie della modernità: tanto basta a sancirne il valore straordinario, anche prescindendo dall'alta qualità, strettamente letteraria, dell'opera.

Nei capitoli dedicati a Jacob Frank del suo Le grandi correnti della mistica ebraica, Gershom Scholem notava come l'inquietudine messianica che percorse la società ebraica est-europea tra il XVII e il XVIII secolo, alla pari delle istanze pietistiche proprie del coevo movimento chassidico, sia stata indice di una diffusione a livello popolare di tematiche mistiche tradizionalmente riservate a una cerchia di eletti, determinata da un livello di esasperazione tale da far emergere, dopo secoli di vessazioni, una ridda di fenomeni di antinomismo e apostasia della quale la conversione al cattolicesimo dei frankisti rappresentò il culmine. In questa chiave di lettura, le visioni apocalittiche associate alla comparsa di una figura messianica sulla scena della storia possono essere considerate gli strumenti attraverso i quali una precisa volontà politica tentò di operare un cambiamento sociale destinato a passare, per forza di cose, attraverso la trasgressione delle leggi e la distruzione dell'ordine costituito. Al netto del ritratto a tinte fosche della cialtronesca figura di Jacob Frank, abilissimo manipolatore dal carattere volitivo e autoritario, il racconto polifonico della Tokarczuk riflette l'intenzione di considerare il movimento frankista dal punto di vista del suo ambiente di riferimento, suscitando una serie di inquietanti interrogativi circa la responsabilità del sostanziale tradimento della comunità ebraica operato dal profeta e dai suoi adepti: non soltanto l'apostasia ma, soprattutto, la famigerata settima tesi che i frankisti utilizzarono come arma contro le autorità rabbiniche durante la disputa di Leopoli del 1759 – patrocinata dal clero cattolico polacco – che confermava e rinverdiva la terribile accusa del sangue utilizzata dai cristiani, sin dal medioevo, quale motivo di massacri e persecuzioni nei confronti del popolo ebraico. Secondo gli studi più accreditati, considerato il connubio di interessi teologici ma soprattutto politici che si muovevano dietro la figura di Frank è pressocché impossibile stabilire tale responsabilità senza sfuggire a un principio di approssimazione determinato anche e soprattutto dalla scarsità estrema di fonti storiche disponibili: l'ebraismo ufficiale rispose infatti all'eresia frankista con un atteggiamento comprensibilmente diffamatorio, mentre le stesse famiglie di convertiti, nel corso dei due secoli successivi, fecero di tutto per far perdere le tracce delle loro origini ebraiche, occultando documenti e cancellando, di fatto, la memoria storica di quanto avvenuto.

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Tali lacune orientano il discorso critico sul libro della Tokarczuk verso il paradosso del genere letterario in questione, cioè a dire la ricostruzione romanzesca di avvenimenti del passato che configura un futuro anteriore; nel caso specifico, all'interno di un contesto che potremmo definire di ultrastoria. Pur trattando la materia con la dovuta cautela – l'autrice ricostruisce magistralmente la convergenza di interessi tra i frankisti, lo stesso Frank, la Chiesa polacca e il potere rabbinico – nel romanzo l'ultima parola circa la scelta di usare l'accusa del sangue per il raggiungimento dei propri obiettivi viene attribuita ai leader del movimento ereticale – quegli stessi che, nel clima di confusione che aleggia nella prima parte del racconto, decidono di sfruttare la figura carismatica di Frank quale motore di un processo che avrebbe dovuto concludersi con l'agognata fuga dal ghetto. Scelta drammatica e foriera di catastrofi a venire: per usare le parole di Paweł Maciejko, l’accusa frankista ebbe un impatto profondo sui successivi scritti e provvedimenti politici anti-ebraici, e la disputa di Leopoli è stata definita, più di una volta, “la più celebre” e “più spaventosa” della storia ebraica. Si intende che, dal punto di vista teologico, la trasgressione delle leggi e il superamento dei principi morali, in un'ottica di fine dei tempi intesa come redenzione dai mali della storia, vengono posti quali condizioni imprescindibili alla sua realizzazione rimarcando, in tal modo, la natura paradossale dei movimenti messianici; considerata però la provenienza dei frankisti dagli strati sociali più umili della comunità ebraica, le parole che l'autrice mette in bocca, in uno degli ultimi capitoli, al personaggio di Nachman – prima maestro e poi principale discepolo di Jacob Frank – circa l'impazienza della fine dei tempi e la necessità di inseguire la luce ad ogni costo, assumono un carattere che travalica le loro implicazioni strettamente metafisiche: la teoria della redenzione di un passato che proviene dalla parte della morte coincide infatti con la volontà di riscatto di un gruppo sociale svantaggiato che, nella rivolta contro la propria stessa tradizione, come ogni vero proletariato – ancora Maciejko – non aveva altro da perdere che le proprie catene.

Il racconto segue le vicende di Jacob Frank e dei suoi seguaci nella loro costante ricerca di appoggio e protezione da parte dei potenti di turno, dalla remota provincia orientale della Podolia sino alla corte imperiale di Vienna, attraverso gli sconvolgimenti politici e sociali della seconda metà del XVIII secolo. Nei loro piani, i frankisti avrebbero dovuto ottenere la concessione di un territorio nel quale stabilirsi e dove avrebbero potuto realizzare la loro utopia di un tempo redento, secondo una visione sincretistica che fondeva il pensiero cabalista ebraico ed elementi del culto cattolico mariano nella figura di Eva Frank, figlia del profeta e venerata come una santa in quanto simbolo incarnato della Vergine-Shekhinah. Idealmente situata al crocevia di quegli stessi imperi che premevano per lo scioglimento della Confederazione Polacco-Lituana, la vagheggiata terra promessa si dissolse nel momento della definitiva spartizione della Polonia, quando nuove frontiere sorsero ed andarono a spezzare, tra le altre cose, l'unità della più grande comunità ebraica del mondo. Frank concluse la sua parabola a Offenbach, dove si stabilì con la sua corte dopo decenni di peregrinazioni, sotto l'egida di un nobile locale: alla sua morte (1791) il movimento sopravvisse per alcuni decenni, andando progressivamente a stemperare le proprie istanze apocalittiche e diluendosi nel più ampio fenomeno dell'assimilazione ebraica. In particolare, la città di Praga divenne il centro nevralgico della comunità frankista, dove le dottrine sulla fine dei tempi andarono ad assumere un carattere più specificamente intellettuale, sino a mescolarsi con le tematiche progressiste proprie dell'illuminismo ebraico.

Trascorso poco più di un secolo, il giovane studioso e mistico praghese Jirí Langer intraprese un viaggio verso le regioni in cui erano fiorite le eresie ebraiche settecentesche che rappresentò – secondo il racconto di suo fratello, il romanziere František – un ideale ritorno nel ghetto. Proveniente da una famiglia ebraica benestante e sostanzialmente laicizzata, nel 1913 Langer abbandonò le comodità offerte da una grande città europea, nonché la relativa sicurezza derivata dall'assimilazione, per gettarsi a capofitto nella riscoperta della tradizione chassidica che ancora sopravviveva in alcuni villaggi della lontana regione podolica, ormai identificata con la provincia austro-ungarica della Galizia. Al suo rientro a Praga con la barba lunga, il caffettano, il cappello nero calcato in testa ed il ferreo ascetismo, egli portò con sé un sentore di medioevo che trasformò la sua figura, agli occhi della locale comunità ebraica, nella testimonianza vivente di un passato di miseria e di emarginazione che si sarebbe preferito dimenticare; nelle parole del fratello, egli suscitò una reazione di fastidio paragonabile a quella della famiglia di Gregor Samsa, nella celebre novella di Franz Kafka, di fronte alla sua mostruosa metamorfosi in uno scarafaggio. Le nove porte, il libro pubblicato nel 1937 nel quale Langer ricostruisce la vita delle comunità chassidiche galiziane, rappresenta la testimonianza estrema, rilasciata sulla soglia dell'annientamento, dello stesso universo culturale da cui provenivano quelle dottrine messianiche che avevano contribuito alla relativa sicurezza, ottenuta grazie alla pratica paradossale del mimetizzarsi per non scomparire, della quale sembrava ormai godere la borghesia ebraica europea: dal punto di vista del nostro presente, una visita al memoriale dell'Olocausto della città di Praga basta e avanza per rendersi conto della sostanziale inutilità di simili compromessi di fronte ai corsi e ai ricorsi delle catastrofi della storia.

 

Il tema della relativa sicurezza perseguita con ogni mezzo necessario, che sta sotteso al poderoso romanzo di Olga Tokarczuk, è l'immagine rovesciata del nostro tempo, nel quale l'ambivalenza della promessa messianica realizzata sembra voler costringere, per l'ennesima volta, il popolo di Israele ad un patto con il diavolo: ci si domanda, sgomenti, se la necessità di mimetizzarsi possa spingere sino alla scelta di stabilire una relazione di interesse, intessuta nel nome di un rinnovato scontro di civiltà, con gli sciagurati eredi di quelle stesse forze che hanno pianificato e messo in atto la cancellazione della civiltà ebraica europea. Allo stesso modo, l'afflato millenarista che fu proprio del movimento frankista trova il suo riflesso in una particolare disposizione d'animo che pare coinvolgere la civiltà europea per intero, dove alle sfide imposte dal futuro prossimo si oppongono soluzioni provenienti dal passato più remoto. In questa temperie, la peste nazionalista che si nutre di vittimismo e, al tempo stesso, di disprezzo per il più debole, sembra aver irrimediabilmente contagiato il popolo che più di tutti ha pagato per la propria debolezza.

Negli spasmi di un'epoca stritolata dalla retorica della forza, accogliamo dunque con entusiasmo questo esperimento di redenzione del passato, messo in atto da un'opera letteraria, quale ci pare essere I libri di Jacub. Il racconto che sappia cogliere nel vivo la complessità di un'entità storica che ha perseguito un diritto ad esistere tramite il tradimento dei propri principi e la trasgressione della morale, indica il significato più tragico di una debolezza che non lascia scampo; eppure, nella rievocazione di tale disperata contingenza, il senso tragico della storia trova il suo valore di monito spendibile nel presente attraverso una pratica salvifica della memoria che, nel sondare le profondità del passato, apre la strada a tutto lo spettro dei futuri possibili.

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