Lamento per Dmitry Markov
Del periodo in cui lavoravo, durante i miei anni di apprendistato, come assistente in uno studio di fotografia pubblicitaria, ricordo soprattutto le lunghe attese: erano i tempi in cui occorreva aspettare, tra una prova e l'altra, che un laboratorio sviluppasse le pellicole, in modo da risolvere tutti i problemi relativi all'inquadratura, alla luce e alla disposizione del set, prima di arrivare allo scatto definitivo. Non amavo quel lavoro, e l'insofferenza con la quale lo svolgevo rifletteva l'urgenza di quegli anni nei quali alla fotografia domandavo soprattutto immediatezza, spontaneità, vita reale. Avevo consumato, a forza di sfogliarla, la mia copia di "Cocaine true, cocaine blue", il libro nel quale Eugene Richards aveva raccolto il frutto della sua ricerca fotografica sull'epidemia del crack che aveva devastato la comunità nera americana nell'ultimo ventennio del XX secolo.
Le sconvolgenti fotografie di Richards, scattate a mano con un grandangolo e utilizzando pellicole veloci, rispondevano con precisione ai miei gusti dell'epoca: le inquadrature sbilenche ma incredibilmente equilibrate e la distanza ravvicinata rispetto ai soggetti fotografati trasmettevano un dinamismo della visione che non lasciava spazio alla formazione di giudizi morali circa la crudezza delle scene ritratte. Pur nella loro spettacolarità, quasi cinematografica, quelle immagini rappresentavano la documentazione di una realtà che sembrava colta dal fotografo nel suo divenire più oggettivo. Con quale sorpresa mi trovai di fronte ad una fotografia dello stesso Richards mentre, per ingannare una delle tante attese di cui sopra, sfogliavo distrattamente un catalogo di immagini d'agenzia che girava per lo studio: una scena, tipicamente newyorkese, con una matrona seduta in una piscinetta gonfiabile piazzata all'angolo di una strada, mentre una bambina gioca con l'acqua di un idrante alle sue spalle.
Alla mia richiesta di lumi circa il fatto che il mio fotografo preferito stesse in mezzo a quel ciarpame pubblicitario, mi risposero con una risata: "Credi davvero che quel tizio si sia trovato lì nel momento esatto in cui la bambina stava tirando la secchiata d'acqua? Con quella luce perfetta, il segnale stradale e l'idrante a fare da cornice? Sveglia! Questa è una fotografia di advertising!" (per la cronaca: non è così).
Vecchi ricordi che riemergono mentre mi trovo a valutare l'opera di Dmitry Markov – forse il miglior fotografo di strada dell'ultimo decennio – in questo lamento per la sua prematura scomparsa. Come dimostrato dall'errore di quel mio antico datore di lavoro, dietro alla dialettica tra apparenza e autenticità sta la spinosa questione relativa alla credibilità, in termini di etica dello sguardo, della fotografia documentaria, genere nel quale l'occhio del fotografo è più che mai chiamato ad assumersi la responsabilità della propria rappresentazione del reale. Ogni fotografo sa perfettamente che, al netto delle istanze poetiche, sono le scelte stilistiche e il corretto impiego delle tecniche a determinare il giusto equilibrio tra realtà e finzione nelle proprie immagini; nel caso di Markov, l'utilizzo degli strumenti più comuni della fotografia amatoriale ha contribuito in maniera sostanziale a far pendere l'ago della bilancia verso il primo di questi due termini: la fotocamera di uno smartphone in luogo del classico apparecchio reflex, Instagram quale veicolo di diffusione del proprio lavoro.
Per quel che riguarda la tecnica di ripresa, non è dato sapere se si trattasse di una scelta ponderata o di una mera necessità dettata dal minimo ingombro, dalla spesa contenuta, dalla discrezione garantita dal fatto che, al giorno d'oggi, veder scattare foto con un telefono in mezzo alla strada non attira più l'attenzione di nessuno; è certo però che raramente capita di osservare un utilizzo più appropriato dell'immediatezza espressiva connaturata al social network in questione. Markov ha sempre cercato di attenersi al criterio fondamentale di produzione dei contenuti della piattaforma – scatto, postproduzione minima e post, senza soluzione di continuità – marcando un contrasto netto con la finalità semi-espositiva, mera promozione del proprio lavoro, nella quale la maggior parte dei fotografi professionisti usa tradurre tale criterio. Pur avendo prodotto fotografia di qualità eccelsa sia dal punto di vista formale che espressivo, egli ha dunque rispettato le regole del gioco, mantenendo il suo feed di Instagram nelle modalità e nelle tempistiche proprie della forma diaristica: l'affievolirsi del suo flusso di lavoro, in seguito alla criminale invasione dell'Ucraina perpetrata dal suo paese di origine, ne è drammatica ed esemplare testimonianza.
Sarebbe tuttavia oltremodo riduttivo limitarsi a valutare l'opera di Markov solo nei termini del suo ambito di produzione; altrettanto semplicistico sarebbe appellarsi al gusto contemporaneo per l'abbattimento delle barriere tra arte e vita che regola oramai i rapporti tra produttori e fruitori di contenuti; tanto più considerando l'ambiente sociale di provenienza dello stesso Markov, cioè a dire quella Russia profonda, segnata dal degrado e dall'abbandono, che egli amava rappresentare con la sua minuscola fotocamera. Nato nel 1982 in un sobborgo depresso di Mosca e cresciuto in mezzo alla strada negli anni del crollo dell'Unione Sovietica, egli poteva vantare un curriculum di tossicodipendenza e povertà estrema che gli consentiva di muoversi senza difficoltà tra bande di ragazzi di strada, orfanotrofi e comunità di recupero, senza tener conto del lavoro di assistente sociale al quale egli ha consacrato buona parte della sua vita e del quale considerava l'attività di fotografo un semplice corollario. Seguendo il più classico dei copioni, la figura di Markov rientrerebbe quindi nel cliché dell'artista segnato dal proprio destino, del quale la morte improvvisa, avvenuta peraltro lo stesso giorno di quella di Aleksej Naval'nyj, avrebbe rappresentato la tragica conferma. Né basterebbe a riscattarla da simili letture estetizzanti tentare la strada di una teoria del contesto quale unico orizzonte di significato praticabile.
Più utile sarebbe forse, a partire dalla relazione tra il contesto e il portato biografico, soffermarsi sulla peculiarità dell'aspetto documentaristico della sua opera. In quest'ottica, il corpus di fotografie consegnato da Markov alla memoria della sua pagina Instagram andrebbe a collocarsi in quella zona di confine dove cronaca e autobiografia si fondono in una sintesi espressiva in grado di definire alla perfezione una realtà storica: penso naturalmente allo straziante racconto fotografico di Nan Goldin circa le proprie dipendenze che è, al tempo spesso, uno dei documenti più diretti ed efficaci di un'epoca funestata dalla piaga dell'AIDS. Ma se in The ballad of sexual dependency (vedi l’articolo si Silvia Mazzucchelli) era anzitutto la ricorrenza del volto dell'autrice a farsi garante della realtà rappresentata, in Markov è la pratica fotografica stessa a funzionare come riflesso della propria biografia, presenza discreta che osserva la realtà della quale essa stessa non è altro che un prodotto. Il risultato di tale operazione è la messa in scena di un mondo purificata dallo sguardo del fotografo che rifugge dal caratteristico cinismo e dalla freddezza della documentazione oggettiva della realtà – nel caso specifico, di un'alterità che si suppone, spesso e volentieri, irrappresentabile al di fuori dei più vieti luoghi comuni.
La Russia degli ultimi di Dmitry Markov è un continente sommerso che sopravvive al di fuori delle retoriche trionfaliste del regime putiniano, ma anche degli stereotipi circa la cieca disperazione alla quale essa è consegnata, di cui si nutre l'immaginario occidentale. Ai nostri occhi, le sue fotografie vivono della grazia concessa al testimone silenzioso di un luogo remoto e inaccessibile, dal quale persino le notizie sulle circostanze della propria morte possono stentare a trapelare; un paese nel quale basta la pubblicazione di una foto su Instagram per guadagnarsi la fama di dissidente ma dove, al tempo stesso, si può venire accusati di connivenza con la guerra nel momento in cui ci si rifiuti di negare l'umanità dei soldati che partono per il fronte.
Se le scelte stilistiche operate da Markov in funzione estetico/narrativa rimandano alla compostezza e al rigore formale della pittura classica, l'immediatezza della sua pratica – quel che si dice il suo occhio – è quanto di più fotografico si possa pretendere da una rappresentazione della realtà colta, stavolta fuor di ogni dubbio, nel suo divenire più oggettivo. Se la materia di cui è fatta tale rappresentazione, come insegnava Andrej Tarkovskij, è il tempo, il tempo di Dmitry Markov si è esaurito troppo presto, ed è forse altrettanto presto per sapere se la sua opera sfuggirà all'oblio cui la bulimica voracità dell'ecosistema mediatico contemporaneo condanna persino i migliori. Resta una lezione circa lo sguardo leggero che racconta se stesso, mentre si nasconde tra le pieghe di un tempo sospeso: esserci nella fotografia.
Piangiamo la fine di un grande fotografo, con l'auspicio che il suo lascito prezioso trovi spazio all'interno della tradizione umanistica universale alla quale ci aggrappiamo, nel tempo della morte, come ad un oracolo di speranza.