Il mago Thomas Mann, di Colm Tóibín
La recente ricomparsa sul mercato editoriale italiano di La semiosfera (La nave di Teseo, 2022) – importante e ricchissima raccolta di saggi di Jurij Lotman – offre un prezioso strumento ermeneutico che trova un impiego pressoché immediato nel considerare criticamente due recenti letture, assai diverse nella forma ma entrambe riconducibili alla teoria dell'onnipresente meccanismo semiotico che, nel pensiero di Lotman, regola il funzionamento degli scambi culturali e, in maniera ineluttabile, lo sviluppo della cultura tout court. Se però nel caso di On connection (Faber & Faber, 2020) di Kae Tempest si tratta di una corrispondenza puramente elettiva tra il pensiero lotmaniano e l'idea quasi mistica, di impronta junghiana, di una connessione universale che permetterebbe, nello scambio tra l'artista e il suo pubblico, di accendere la scintilla della creatività, in quello di The Magician (Penguin Books, 2021), romanzo pseudobiografico di Colm Tóibín dedicato alla figura storica di Thomas Mann, la teoria del culturologo russo può funzionare quale dispositivo di precisione nel sollevare alcune questioni relative al tema centrale dell'opera, cioè quello della traduzione tra universi semantici affatto diversi – tra vita reale, biografia e romanzo.
Apparentemente, la posta in gioco nel libro di Tóibín è quella della demitizzazione di un peso massimo della letteratura di ogni tempo – quel che si suol dire un classico – attraverso una felice re-invenzione del nudo dato biografico in grado di partorire una figura letteraria a tutto tondo e assai convincente dal punto di vista del canone psicologico-realista. Non solo: tramite l'artificio che mette in scena il controverso non-detto che traspare dall'opera letteraria di Thomas Mann – opera che, nel romanzo, rimane sempre in secondo piano – e che la pubblicazione dei suoi celeberrimi diari ha portato in piena luce ormai da un cinquantennio, Tóibín conferisce alla figura del grande scrittore quel che Jurij Lotman definiva il diritto alla biografia, cioè a dire il diritto a una rappresentazione del dato biografico che sia in grado, assecondando le mode e le esigenze del pubblico, di produrre contenuti significativi per una data epoca di riferimento.
Abbandonata la stanca retorica del celebrato artista, del premio Nobel, del massimo rappresentante e baluardo della nobile tradizione umanistica tedesca nell'epoca del dilagare della peste nazista, Tóibín asseconda quindi la tendenza di questi ultimi anni a considerare meritevoli di attenzione tutti quegli aspetti controversi della vita privata quali le ansie e le ambizioni, le debolezze e i desideri, tutto quell'armamentario semantico cioè che nella letteratura dell'epoca dei social tende a essere preso per vita reale ma che, a ben guardare, altro non è che una sorta di riproposizione voyeristica di temi e stilemi che il romanzo ottocentesco ha già sviscerato in maniera esaustiva e che, per inciso, gli autori della generazione di Thomas Mann avevano già felicemente mandato in pensione un secolo fa.
Un Thomas Mann attuale, dunque: omosessuale più che espresso se pur in gran segreto, legato al fratello maggiore da un rapporto di amore/odio che pare essere per buona parte determinato da tale condizione del sentire, la quale vizia pure il profondo legame con la moglie Katja – che nel romanzo veste i panni della complice e protettrice piuttosto che della fedele e ignara compagna; spietato nel suo giudizio su Erika e Klaus, i figli artisti che egli trova deboli e pretenziosi, ma debole anch'egli, si direbbe più per rigidità intellettuale che per altro, nel suo impegno politico contro Hitler; terrorizzato, in uno dei momenti più riusciti del racconto, al punto da correre a leggere Oscar Wilde di fronte alla concreta minaccia della scoperta dei diari di cui sopra, nei primi mesi dell'esilio, e della conseguente messa in pubblico dei suoi pensieri segreti.
Vita reale, pensieri segreti – qualcosa non torna: nell'abilissimo gioco di specchi messo in scena da Tóibín, il confine che separa il realismo di un personaggio letterario e la vita realmente vissuta è, in effetti, talmente semplice a vedersi da sfuggire alla nostra attenzione. Se infatti Golo Mann (terzogenito di Thomas e Katja) nel 1974, riferendosi alla famosa tecnica di interpolazione della vita reale nell'opera letteraria del padre, poteva dichiarare: "Nella casa di uno scrittore come era quella di mio padre, il concetto di realtà è, per così dire, molto fluido, l'elemento artistico e quello reale o il cosiddetto reale si mescolano sempre in maniera quanto mai singolare" (Katja Mann, Memorie non scritte, Arnoldo Mondadori, 1975), tutt'altro ci appare il caso dell'autore di The Magician che, con ogni evidenza, non può fare appello a una sua partecipazione diretta agli eventi narrati, la cui ricostruzione si basa su una mole ben nutrita di studi biografici che ne hanno sostenuto l'elaborazione.
Ed eccoci al punto: non di vita reale trasposta in resoconto biografico si tratta, quanto dell'ultimo anello di una lunga catena di revisioni e interpretazioni, di letture e riletture di diari e memoriali, riguardanti la vita di Thomas Mann e della sua famiglia, in altre parole di una tradizione ben attestata con la quale il romanzo di Tóibín è da un lato chiamato a confrontarsi per quanto riguarda l'attendibilità del contesto descritto, dall'altro esula felicemente nel momento in cui esso si incammina sul sentiero dell'invenzione letteraria quale motore del lotmaniano diritto alla biografia, applicato – con notevole successo – alle esigenze stilistiche ed espressive del realismo contemporaneo, persino per quel che riguarda le sue forme più deteriori di apertura al pettegolezzo per non dire alla scopofilia.
In questa chiave, è motivo di interesse operare una serie di confronti dialettici tra The Magician e la suddetta tradizione, per tramite della quale il racconto della vita reale della famiglia Mann ci è stato tramandato. Tale confronto permetterà di cogliere quelle sottigliezze di stile che rendono The Magician un'opera ingegnosa o quantomeno godibile, almeno finché si voglia stare al gioco dell'autore: si provi infatti a cambiare il cognome dei personaggi e a mantenere un interesse sinceramente inalterato circa le vicende in esso raccontate.
The Magician, considerato quale espressione di uno spazio culturale, obbedisce alle regole semiotiche relative al concetto di testo, inteso quale trama/tessuto che occupa una porzione dinamica dello spazio stesso. Sul margine di tale trama, fili sottili si dipartono per intrecciarsi con quelli di un arazzo nel quale vediamo raffigurata l'immagine di Thomas Mann, in un insieme eterogeneo di rappresentazioni che vanno a toccare tanto la sua biografia che la sua opera, nonché tutte le nozioni relative al contesto che ne definiscono l'estensione in uno spazio culturale ben più ampio, con un criterio di approssimazione che tende non verso l'economia esaustiva ma verso lo sperpero.
In questo senso definiamo dinamica questa raffigurazione, nel momento in cui tale sperpero è motivo e al tempo stesso matrice di nuovi significati; al di fuori di essa, l'interesse per il libro viene meno – quel che si intendeva per "cambiare il cognome dei personaggi". Stando però al cognome in oggetto, l'adozione del mezzo pseudobiografico ci induce naturalmente a rivolgere la nostra attenzione verso quegli aspetti del quadro che vanno a toccare un punto nevralgico del pensiero manniano, cioè a dire una peculiare idea di biografia, da considerare nel suo ambito storico-letterario di riferimento.
Tale ambito è la tradizione pedagogico-letteraria, la cui ascendenza risale fino a Goethe, che trovò nel Bildungsroman la sua principale espressione artistica e che si poneva quale obiettivo della formazione di una personalità la conciliazione esemplare tra l'io e il mondo, da raggiungersi al termine di un faticoso percorso di autoeducazione. Fedelissimo al dettato del gigante di Weimar, da lui considerato un modello da imitare fin quasi all'identificazione, Thomas Mann ha sempre inteso la propria vita e la propria opera nei termini di uno sforzo costante al mantenimento di un carattere esemplare, in un'idea della propria figura quale paradigma costruito ad arte e destinato alla posterità. In questo scarto semantico tra differenti forme della rappresentazione della vita reale, tra biografia e autobiografia, The Magician assolve in pieno al compito del quale qualsiasi opera d'arte dovrebbe farsi carico, cioè quello di creare nuovi significati laddove essi sembrano essersi irrimediabilmente esauriti.
Nel magistrale saggio Thomas Mann pedagogo ed astrologo, contenuto nell'ormai quasi introvabile Materiali mitologici (Einaudi, 1979, ultima ristampa 2001), Furio Jesi analizzava il programmatico anelito alla grandezza dell'autore lubecchese alla luce del particolare atteggiamento che la borghesia conservatrice tedesca aveva assunto, nei primi decenni del XX secolo, rispetto all'idea di biografia, cioè a dire nella ricerca spasmodica del senso e della pienezza di un'epoca in una teoria di eroi arbitrariamente eletta a rappresentarla. Se nelle biografie dei Grandi la Germania ha cercato il suo modello pedagogico, nella piena consapevolezza – di matrice goethiana – di essere un Grande Thomas Mann lo ha trovato e sperimentato vivendo sempre nella profonda convinzione del proprio status di eccezione, di eletto chiamato dal destino a rappresentare una qualche categoria spirituale di ordine superiore – dapprima l'etica borghese e i suoi rapporti con la religio mortis, poi il pessimismo filosofico e la Germania come unicum, poi il classicismo weimariano, infine la democrazia e il new deal roosveltiano.
Questo percorso verso la grandezza ha segnato le tappe di un'opera monumentale, multiforme e complessa dove, alla crisi dei valori di un mondo nutrito di pensieri segreti pericolosamente orientati verso la distruzione, lo scrittore risponde con la sua celebre ironia, con il distacco intellettuale dal nucleo pulsante della Bildung, che prende la forma di un ermetismo analogico di raffinatissima elaborazione: per Mann la peculiare tecnica di scrittura basata sul montaggio di citazioni è autopedagogia, costruzione astrologica della propria identità di artista che viene a formarsi nel segreto della sua opera.
Metodo e cura, applicati a una pratica quotidiana della scrittura che rasenta la maniacalità, sono propri del Grande Scrittore Borghese, la maschera irrigidita nella posa la sua naturale manifestazione. Questa rigidità è probabilmente all'origine di quella sorta di inattualità che ha ammantato la figura di Thomas Mann sin dall'epoca immediatamente successiva a quella dei suoi primi e straordinari successi editoriali: già dagli anni '30 del Novecento Brecht aveva iniziato a schernirlo con l'epiteto di "colletto inamidato", mentre Musil e Döblin ricambiavano l'interesse (e l'aiuto) che Mann aveva loro tributato con un'aperta e manifesta antipatia. Per non parlare degli anni del dopoguerra dove, a dispetto delle vendite da best-seller degli ultimi romanzi, l'ingombrante figura del Grande Scrittore Borghese si guadagnò l'epiteto di "non amato" in una delle prime e più importanti biografie (Hans Meyer, 1955), di "ferro vecchio" da parte degli scrittori del Gruppo 47, per venire in seguito accantonato come una sorta di reliquia, una gloria del passato celebrata e venerata quanto si vuole, ma pressoché inutile (si veda Thomas Mann, Una biografia per immagini Golo Mann, Cesare Cases, Edizioni Studio Tesi, 1982). Spia di tale situazione è una delle scene più spassose di The Magician, dove William Auden e Christopher Isherwood, invitati a cena da Erika Mann, si divertono a suonare l'anziano padrone di casa come un vecchio trombone, tra lazzi, risatine sotto i baffi e perfide stoccate; ma il Thomas Mann di Colm Tóibín sa ben lui come far valere i propri diritti riservandosi il sottile piacere di rispondere, con tutta l'umana durezza del caso, alle insolenti provocazioni dei due giovanotti.
Nella rappresentazione di ciò che si muove dietro la posa impassibile del grande scrittore The Magician raggiunge lo scopo di ridar vita a un autore passato di moda: attraverso una narrazione limpida e lineare, che non lascia spazio a letture allegoriche e che si pone esattamente all'opposto della scrittura manniana, dove la vita trova la sua forma ideale nella sublimazione dell'opera d'arte, la posa inattuale si dissolve in un tumulto psicologico che ottempera al gusto contemporaneo animando e muovendo il personaggio letterario del Mago, le cui tempeste interiori assomigliano a quelle di noi comuni mortali. Resta solo da valutare la legittimità del caso: The Magician è un buon libro, ma il suo protagonista è in fondo una maschera anch'esso. Quel che più conta del passato è ciò che si dimentica, diceva Jesi, quel che si ricorda è solo scoria e sedimento. Ma se il sedimento è portato, per reazione chimica derivante dal contatto con un ambito linguistico e culturale a lui del tutto estraneo, a brillare nuovamente, ci si può ben accontentare dell'esperimento.
Chissà che non si abbandoni l'icona per ritrovare la vita, dove per vita intendiamo un produttivo recupero dell'eredità consegnata alla storia da un grande maestro, al netto dei trucchetti del mestiere e degli psicologismi da due soldi scanditi con sapienza nel libro di Tóibín – e buoni, magari, per una serie televisiva di successo – che ne potrebbero determinare l'auspicato avvento. Si immagini l'ideale ascrizione della Bildung ermetica che muove l'azione di La montagna magica, o dell'ambiguità demonica sottesa al racconto nel Doktor Faustus, alla sfera di interessi della letteratura weird che tanto va di moda; oppure del feticismo della dissoluzione organica e del simbolismo funerario che circonda i fantasmi di Morte a Venezia – inquietanti metafore dell'omosessualità quale fattore determinante della distruzione dell'ordine borghese – al fertile terreno della cultura queer e degli studi post-coloniali: tutte buone occasioni per rovesciare un pregiudizio che ha fatto il suo tempo e per aggiungere un dardo, carico di potenza dionisiaca e di genialità apollinea, alla nostra faretra che riteniamo essere, dopo anni di realismo d'accatto, alquanto impoverita e assai bisognosa di linfa vitale.