Speciale
Ritorno al futuro / "L'uomo senza qualità" e la nostra confusione
In una breve nota di commento alla pubblicazione del primo volume de L'uomo senza qualità di Robert Musil del 1932 (trad. it. Einaudi, 2014), Thomas Mann si richiamava ad un principio di "ordine, senso e poesia" quale prodotto di una "necessità vitale", nel contesto di "un'epoca di desolato disordine e assenza di senso"; in quest'ottica egli scriveva: "L'uomo senza qualità è un libro attuale nel senso più profondo del termine” (Robert Musil, "L'uomo senza qualità" in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, 1997).
Tale anelito verso una "necessità vitale" in merito alla ricerca del senso di un'epoca tradisce lo spirito goethiano che animava il Mann degli anni '30, e basterebbe forse da solo per indurre ad adottare il monumentale romanzo-saggio di Musil quale viatico cui affidarsi per indagare la profonda crisi del significato che affligge il nostro tempo e il sentimento di paura generalizzato che sta mettendo in discussione gli ideali di progresso e le speranze nel futuro della nostra civiltà.
Nel rifarci a quel principio di attualità evocato da Thomas Mann in un'epoca che vedeva allungarsi sull'Europa le ombre minacciose del nazismo e della guerra, possiamo in effetti pensare a L'uomo senza qualità come a uno specchio la cui superficie, pur oscurata dal trascorrere del tempo, rimanda immagini di un passato nel quale l'imminenza della fine traspare nella forma della decadenza del senso.
Mastodontico frammento (pubblicato in maniera discontinua nel corso degli anni '30, il libro rimase incompiuto per via della guerra e della scomparsa del suo autore, avvenuta nel 1942) esso individua, nel suo procedere sul piano storico e letterario di catastrofe in catastrofe, le motivazioni e la fenomenologia della fine di un mondo mettendo in scena gli ultimi mesi dell'Austria-Ungheria, giusto a un passo dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. L'uomo senza qualità è dunque la cronaca impietosa di un attimo sospeso nel quale la decadenza di una civiltà tocca il suo apice prima dello spalancarsi del baratro che la inghiottirà. Il racconto dell'attimo che prelude ad una catastrofe del passato, sviluppato da Musil nel corso degli anni che ne preparavano un'altra ancora più devastante, definisce il carattere profetico del libro e la sua spendibilità nel presente, ove un futuro sempre più minaccioso sembra profilarsi all'orizzonte.
I recenti fenomeni migratori dal sud del mondo che interessano i nostri confini – masse di uomini e donne pronti a tutto pur di sfuggire alle guerre e alle catastrofi ambientali delle quali l'Occidente, per inciso, è il principale responsabile – rappresentano senza dubbio uno dei cardini sui quali ruota l'epoca attuale nonché il dato socio-politico dal quale partire per valutare la capacità della civiltà europea di produrre significati condivisi nel contesto del difficile momento che si trova ad attraversare: in questo senso i migranti sono l'elemento catalizzatore intorno al quale si configura la polarità che vede il terrore del futuro di una società demograficamente esausta contrapporsi alla misura di una speranza da riporre nell'afflusso di nuove energie.
È di alcuni anni fa la pubblicazione del risultato di uno stranissimo esperimento letterario ad opera del romanziere americano Jonathan Franzen: una traduzione in lingua inglese di alcuni testi scelti di Karl Kraus, accompagnati da un corposo apparato di commento nel quale l'autore e traduttore dell'opera rintracciava una serie di affinità tra una presupposta decadenza della società americana del principio del XXI secolo e l'epoca del tramonto dell'Austria-Ungheria – messa in croce, all'interno dei testi proposti, da quel che si può tranquillamente definire il suo massimo censore (The Kraus project, Farrar, Strauss and Giroux, 2013).
Simili analisi pretestuose e ben poco interessate alle effettive vicissitudini della storia prestano il fianco alle pericolose riletture sulla decadenza della civiltà austro-ungarica – espressione della più grande e longeva entità statale multietnica che l'Europa ricordi – intesa come termine di paragone rispetto al destino del nostro continente. Alla luce di un secolo di sconvolgimenti e di cambiamenti epocali che ci separano dalla fine della Grande Guerra, è infatti curioso notare quanto le attuali semplificazioni del discorso circa una Heimat ideale e avulsa dagli sviluppi della storia stridano con le motivazioni storiche profonde che portarono alla disintegrazione dell'Austria-Ungheria, ma in "un'epoca di desolato disordine e assenza di senso" quale appare essere la nostra, simili contraddizioni non sembrano poter essere risolte con tanta facilità.
L'epoca della finis austriae è stata un'epoca di profonde contraddizioni, e Robert Musil è stato il suo cantore più importante nonché unica figura intellettuale che sia riuscita, per tramite della sua opera maggiore, a sviscerarle tutte con impressionante precisione. Elias Canetti ricordava che il compito di cui Musil si fece carico nel suo lavoro pluridecennale a L'uomo senza qualità era nientemeno che la rifondazione dell'Austria-Ungheria intesa nei termini di una forma di vita spirituale (Il gioco degli occhi, Adelphi, 1985): motore di tale restaurazione di un tempo perduto è la pratica della sospensione del racconto e della sovrapposizione della forma saggistica a quella narrativa, suo tratto peculiare è la possibilità di una rilettura del passato che smentisca le ingannevoli pretese, proprie della peggiore cultura di destra, circa un ripristino sul piano storico di fantomatiche età dell'oro. Quella di Musil non è infatti una negazione della storia quanto un suo trascendimento sul piano dell'arte, e la struttura paradossale del suo romanzo è la chiave per decifrarne gli imprevedibili ricorsi: animato da un pensiero altissimo, questo sofisticato meccanismo narrativo è, da quasi un secolo, impegnato strenuamente nella sfida per il conferimento di un senso alla sparizione di un mondo.
L'uomo senza qualità presenta il quadro di una realtà che funziona per contrasti; il suo universo di riferimento – la Cacania – è intimamente duplice e a tale duplicità corrispondono i paradossi e le antinomie sulle quali il romanzo è costruito. Primo paradosso è anzitutto quello di un romanzo che è, al tempo stesso, un saggio, il cui obiettivo è la soluzione dei contrasti della realtà storica per tramite di una disposizione alla precisione del pensiero che rasenta la pedanteria (va "fin oltre", secondo Roberto Bazlen: lettera del 12 giugno 1951 a Luciano Foà su L'uomo senza qualità). La duplicità dell'Austria-Ungheria, imperiale e regia (k.u.k. cioè kaiserliche und königliche, da cui la Cacania di Musil), il cui simbolo è quello di un'aquila a due teste, si riflette nella paralizzante tensione tra estrema concentrazione delle forze e totale dispersione dello spirito all'interno della quale si dibattono i personaggi del libro; protagonista dell'azione è Ulrich, alter ego dell'autore e testimone di un momento storico dal respiro trattenuto, la cui condizione di "uomo senza qualità" apre il racconto al campo delle probabilità che impediscono alla realtà di trovare una sua forma definita.
Il racconto stesso tende verso il nulla: unico tratto distintivo di una trama evanescente è infatti l'Azione Parallela, cioè a dire il comitato incaricato, nei mesi immediatamente precedenti lo scoppio della guerra, di organizzare le celebrazioni per il settantesimo anniversario del regno di Francesco Giuseppe I che, con ogni evidenza, non potranno mai avere luogo. Questo secondo paradosso determina lo stabilirsi di quel momento dilatato per le circa milleottocento pagine del volume, che è funzionale a far emergere le laceranti antinomie del momento storico; L'uomo senza qualità richiama in effetti l'immagine di un orologio a pendolo il cui funzionamento è regolato su un moto oscillatorio che, in luogo di scandire lo scorrere del tempo, ne determina e stabilisce le qualità dialettiche: questo moto, infinito e precisissimo, declina una disposizione dinamica e al tempo stesso bloccata della narrazione, nella quale ad ogni movimento per un verso corrisponde esattamente il suo contrario.
Il permanere di tale attimo sospeso quale unica realtà diegetica esperibile risolve l'azione in una visione mistica, raggiunta per tramite della pratica assidua dell'esattezza saggistica; tale pratica favorisce l'emergere di una realtà completa, la cui totalità dilaga a dispetto delle sue profonde discordanze, comprendendole anzi tutte nella configurazione di una visione spirituale di straordinaria efficacia.
Da qui un altro paradosso: al criterio di esattezza assoluta nella definizione di una realtà diegetica presentata dall'autore nella sua totalità dialettica, corrisponde la possibilità di trattare le principali tematiche irrazionaliste affrontate nel romanzo – quali il sentimento mistico, la decadenza dello spirito, l'interesse morboso verso la malattia mentale – con il rigore di una trattazione scientifica che fa da contraltare ai numerosi elementi di follia e di incoerenza presentati nel racconto. Le minuziose considerazioni circa i casi di un assassino psicopatico che diviene un caso da rotocalco, di un generale pacifista che si prepara alla guerra riflettendo sull'amore universale, di una ragazza di sangue ebraico che sostiene una congrega di giovani seguaci della purezza germanica, di un raffinato intellettuale di fama internazionale che intrattiene loschi affari nell'industria petrolifera diventano in tal modo metafore del disagio morale e della confusione che affliggeva l'Austria-Ungheria nell'imminenza della fine insinuando, al tempo stesso, un sottilissimo e feroce principio di ironia nella drammatica esposizione di una situazione politica esplosiva.
E poi un altro: una narrazione che pretende di comprendere nell'esattezza l'infinità di un mondo preso per intero deve rimanere, per forza di cose, incompiuta ma al tempo stesso riesce ad essere assolutamente esaustiva – e con ciò siamo ben oltre i confini della conoscenza razionale, nelle oscure (ma esattissime) tenebre della mistica.
Il ripristino spirituale dell'Austria-Ungheria per tramite di un'opera d'arte, forgiato attraverso infinite considerazioni ed estenuanti trattazioni saggistiche sulle sue intime contraddizioni, prevede infatti la possibilità di riunire in un'unica immagine il duplice significato della sua spiegazione, ovvero quello del fiore che sboccia dispiegando i suoi petali e quello della barchetta di carta riportata alla condizione originaria del foglio dispiegato (Walter Benjamin, Franz Kafka, per il decimo anniversario della sua morte in Angelus Novus, Einaudi, 1962) – in altre parole, esso crea le condizioni per una riconciliazione dei contrasti della storia attraverso un ideale congiungimento degli opposti, rappresentato dalla relazione incestuosa (ma castissima) tra il protagonista e Agathe, la "sorella dimenticata", che disintegra il racconto e si presenta quale simbolo di una condizione esistenziale di ordine superiore, nella quale possa prendere vita quello che Musil definisce il Regno Millenario.
Su quest'ultimo ed estremo paradosso – quello di un tempo che non è più tale – si consuma il limite delle umane possibilità, e infatti l'azione (se di azione si può ancora parlare) si arresta per sempre con la morte di Musil, lasciando il Regno Millenario irrealizzato; ciò che rimane in moto è però l'infinita possibilità della sua realizzazione. Nelle analisi del sentimento che anima la unio mystica tra Ulrich e Agathe, le opposizioni tra romanzo e saggio, poesia e scienza, sentimento e ragione, si armonizzano nello stabilirsi di un universo poetico di inesauribile ricchezza che stabilisce un primato della conoscenza sulle tortuose ostilità della storia.
La visione del tempo che ne coglie il movimento dalle altezze della speculazione mistica conduce infatti alla possibilità di contemplarlo nella sua interezza, consentendo di vivere l'attimo quale sintesi e soluzione della contrapposizione dialettica tra passato e futuro; tale sintesi permette di operare nel presente, sulla base del passato, aprendo il campo alla cognizione delle cose future non tanto in chiave divinatoria, ma in relazione al saperle riconoscere al loro sopraggiungere (Alan Moore, Jerusalem, Rizzoli 2017) e al valutarle, per conseguenza, nella maniera più appropriata – e questa è la grande lezione de L'uomo senza qualità per un'epoca consumata dall'angoscia del domani qual è la nostra.
Attraverso un processo alchemico di purificazione dalle scorie della storia (intesa anche come trama del romanzo) l'opera di Musil si erge adamantina nella confusione del divenire, baluardo inespugnabile in grado di sostenere all'infinito l'assalto di tutte le catastrofi a venire.
Laddove lo scorrere del tempo non conosce infatti possibilità di ritorni, la fuga dal tempo di Ulrich e di Agathe rimane salda nel segnare il punto di un'auspicata rinascita spirituale, di una redenzione del passato che, nell'armonia dei contrari, è anche la scintilla di speranza nel futuro che illumina la notte le cui propaggini lambiscono il confine delle nostre esistenze sempre più private, sempre più ripiegate su se stesse.
(Un ringraziamento a Adriano Aymonino per l'apparato iconografico)