Piccola nota su comunicazione, informazione (e caos)
Secondo dopo secondo, durante la nostra vita digitale, non facciamo altro che produrre dati e metadati. Siamo noi stessi a fornire e creare tutte queste informazioni ognivolta che mettiamo mano allo schermo nero del nostro device preferito, sia esso un tablet, uno smartphone o un normale pc. Le nostre azioni sono animate da desideri comuni: fotografare qualcosa che ci piace, salutare un amico, condividere con qualcun'altro un link, un file, qualcosa che ci ha colpito, divertito, scioccato. Per farlo tracciamo connessioni, e ogni connessione è un'informazione che parla di noi.
I dati prodotti e registrati ogni secondo dai social network e dai motori di ricerca sono numericamente spropositati e scandiscono il tempo della comunicazione e dei media oggi. Una sfera caotica, un mondo dove finzione e realtà aumentata si implicano reciprocamente.
Questi dati, soprattutto, possono venire processati in una miriade di modi differenti a seconda degli algoritmi impiegati e degli obiettivi di ricerca dando vita, potenzialmente, a risultati e soluzioni completamente diversi.
Proviamo a porci una domanda, forse ridondante e paranoica: di cosa ci informa – esattamente – questa vita immersa nella comunicazione onnipervasiva?
Qualunque cosa sia non è certamente definita, distinta, chiara e normativa. Non è così quantomeno a prestare ascolto a due figure archetipiche e ancestrali legate alla comunicazione: Ermes messaggero ed Exu trickster. Dio greco il primo, Orisha yoruba il secondo, si tratta di due entità molto diverse tra loro che però proprio nella comunicazione hanno il loro punto d'incontro. Ermes è ladro, commerciante, imbroglione, inventore dell'alfabeto e protettore dei viandanti. Exu è il signore degli incroci, dei viaggiatori, del cambiamento e della comunicazione (tra questo mondo e gli altri). È significativo che due tradizioni così distanti tra loro come quella della Grecia classica e dell'Africa Occidentale accostino all'idea di comunicazione quelle di confusione e inganno, come a dirci che la comunicazione permette certamente l'incontro con l'altro ma raramente in modo diretto, piano, trasparente e pacifico.
La comunicazione filtra e, nel momento nel quale mette in relazione più elementi tra loro, si interpone. È sempre altro dall'altro: comunichiamo costantemente usando segni che ne implicano a loro volta altri, in una progressione virtualmente infinta. L'incontro con l'altro crea tensione, non è qualcosa che non lasci segno. Anzi, tutto il contrario: è la condizione perché i segni prolifichino fino a giungere, come oggigiorno, a una saturazione tale che l'altro sembra scomparire.
Ma è veramente così? l'altro scompare sommerso dai segni?
Se questo fosse vero, vorrebbe dire che è nella natura tipicamente relazionale della comunicazione l'impossibilità di dare vita a idee normative o positive e che ogni definizione è solo una definizione e nient'altro. Una definizione su cui ci può essere un accordo più o meno condiviso. Quindi la proliferazione senza fine di immagini, parole, articoli, post, blog, commenti sui social network non fa che accumulare informazioni dando a volte la sensazione di trovarci in mezzo a un flusso incomprensibile, disordinato, caotico. Isole nella rete. Babilonia.
Poniamo che sia effettivamente così. Questo vorrebbe dire che ogni definizione occupa il tempo e lo spazio che occupa, niente di più, niente di meno. La definizione non sarebbe mai definitiva e il suo valore sarebbe esclusivamente funzionale.
Ma allora, tornando al nostro punto di partenza, il mondo della comunicazione nel quale siamo immersi cosa ci dice? Di cosa ci parla? La comunicazione è un esercizio vuoto che rappresenta esclusivamente se stesso? Detto in altri termini: cosa ci comunica la comunicazione? La “comunanza”.
La compresenza di elementi diversi ed eterogenei nello stesso ambiente. Lo stare insieme di cose e persone con vissuti e sentimenti differenti. La coesistenza. La correlazione tra elementi eterodossi e distanti, cosa che comprende anche violenza, volgarità, ingiustizia, sopraffazione, guerra, povertà, sangue. Impossibile ignorarlo.
Nella società dell'informazione e della comunicazione i sentimenti di comunanza e di coesistenza con l'altro, il diverso, l'estraneo, l'eterologo non vengono intaccati da monitoraggio, controllo, tracciamento e profilazione cui siamo sottoposti ma vengono anzi sollecitati, come nel caso dei media sociali, ritmando così le nostre esistenze tra l'apertura, la fuga, il conflitto e il desiderio. La sfera del sentire, si sa, non coincide mai con quella del definire. Ma i sentimenti in un modo o nell'altro si lasciano dire e diventano a loro volta comunicazione non appena prendono forma sui black mirror dei device, i nostri specchi neri, dando vita a nuovi flussi di parole, immagini, informazioni. Dando così il via a un nuovo giro di quella giostra che è la nostra vita in trasformazione tra reale e digitale.
Che il signore degli incroci ce la mandi buona!