Perché divulgare la filosofia?
La ricerca filosofica ha una brutta fama, l'ha sempre avuta. Nella sua lunga storia sono molti i protagonisti che si sono fatti la reputazione di guastatori, quando non hanno dato vita a fuochi poco metaforici, e da almeno un secolo e mezzo la situazione non è che peggiorata. A voler essere sinceri già dalla dipartita di Hegel le cose si sono messe male. La “regina delle scienze” ha da allora conosciuto un lento oblio costellato da personalità anche molto brillanti ma incapaci di invertire una tendenza storica tanto marcata. In questo senso il novecento è stato un secolo esiziale, iniziato con la disperata ed eroica rianimazione ad opera di Husserl e conclusosi con la deposizione delle pretese sistemiche, e del suo primato, da parte di filosofi come Derrida e Rorty.
Per un certo momento è parso a molti che la fine della filosofia fosse un fatto acclarato ma, a dispetto dei suoi detrattori, dopo la fine della filosofia sembra esserci spazio, oggi, solo per la filosofia. Un po' perché, come dice Aristotele nel Protreptico, per dimostrare che non si deve filosofare si deve filosofare, e un po' perché la filosofia sembra sempre operare in regime di semi-clandestinità o di guerriglia contro quelle potenze, radicate in ognuno di noi, che pretendono di dettarci la linea (l'opinione pubblica, le religioni, il capitalismo, etc). Se pensare è entrare nel labirinto, per dirla con Castoriadis, non è detto che sia poi così facile uscirne.
Fatto sta che non solo la filosofia non è morta ma si sono rinnovati i modi di intenderla, a cominciare dall'opera di Hadot e dalle riflessioni sulla cura di sé dell'ultimo Foucault. Qui la filosofia si fa esercizio, pratica fondante della soggettività autonoma ben oltre l'adesione a sistemi di pensiero teorici. Inoltre è da qualche anno che si assiste ai più diversi tentativi di farla uscire dalle aule universitarie, con una serie di iniziative e prodotti editoriali audaci ma non sempre felici (il che è quantomeno emblematico, visto l'argomento).
In mezzo a tutto ciò spiccano fortunatamente alcune eccezioni, esempi importanti di una divulgazione filosofica ben fatta; utile a far conoscere e avvicinare i più timorosi a una disciplina che da lontano può sembrare algida, fredda, ostica, quando non del tutto inutile, e che invece può aiutare a sviluppare un pensiero autonomo e uno sguardo diverso su problemi di natura pratica e teorica.
Una di queste rarità è certamente rappresentata da Nigel Warburton, autore di Il primo libro di filosofia e instancabile blogger su Virtual philosopher. L'operazione del filosofo inglese è in questo senso cristallina, perché va a stimolare pubblici diversi che difficilmente avrebbero avuto modo di imbattersi con la disciplina filosofica e il suo modo particolare di elaborare discussioni attraverso argomentazioni razionali.
Un altro tentativo ben riuscito è quello di Girolamo De Michele che ha pubblicato nel 2011 Filosofia. Corso di sopravvivenza. Una (non)storia della filosofia di taglio pop e trasversale, scritta per chi non si è mai accostato prima a certe cose. Sotto i numi tutelari di Spinoza e Deleuze, De Michele accompagna il lettore lungo un percorso fatto di problemi e concetti più che di risposte pronte. Un modo insolito ed efficace di far conoscere questa forma di sapere attraverso le difficoltà della vita di tutti i giorni. Altri esempi, non sempre riusciti ma comunque significativi, sono dati dalle numerosissime pubblicazioni che operano una lettura filosofica di fenomeni, temi e prodotti della cultura pop: La filosofia di... Matrix, Lost, Harry Potter, Topolino, etc.
Jim Holt ha deciso invece di soffermarsi su una precisa e classica questione, che dà anche il titolo al suo libro, bestseller del New York Times nel 2013, Perché il mondo esiste? (UTET). Una domanda che gli consente di tenere insieme scienza e filosofia. Qui l'autore rivolge il quesito leibniziano “Perchè esiste qualcosa anzichè nulla?” a filosofi, cosmologi, mistici, teologi, fisici delle particelle e scrittori. L'esito non sempre è quello sperato ma, pagina dopo pagina e grazie a una scrittura brillante, il lettore si confronta con molteplici prospettive.
Con le sue parole: “Ho battuto tante piste promettenti. Qualcuna si è rivelata un vicolo cieco. Una volta, per esempio, telefonai a un conoscente, un cosmologo teorico noto per le sue brillanti speculazioni. Lasciai un messaggio alla segreteria telefonica dicendo che avevo una domanda per lui. [...] Tornato a casa, quella sera, vidi lampeggiare il led della segreteria telefonica. Con una certa trepidazione ascoltai i messaggi. «Okay,» disse la voce registrata del cosmologo «quello di cui parli, in realtà, è una violazione dell’equilibrio tra materia e antimateria...». In un’altra occasione contattai un noto professore di teologia filosofica. Gli domandai se l’esistenza del mondo si potesse spiegare postulando un’entità divina la cui essenza coincide con l’esistenza. «Ma scherzi?» disse lui. «Dio è così perfetto che non è neanche necessario che esista!». Un’altra volta ancora, mentre camminavo per il Greenwich Village mi imbattei in uno studioso di buddismo zen che mi avevano presentato a un ricevimento. Si diceva che in materia di cosmologia fosse un’autorità. Esauriti i convenevoli, gli domandai – forse con troppa precipitazione, ora che ci penso – «Perché esiste qualcosa anziché il nulla?». Per tutta risposta, quello cercò di saltarmi in testa. Probabilmente l’aveva scambiato per un kōan zen. Nel tentativo di fare luce sul giallo dell’essere ho ampliato al massimo il raggio dell’indagine [...]. Ho cercato intelletti che fossero prima di tutto versatili e poliedrici.” Il suo libro e il suo successo editoriale, sta quindi prima di tutto a testimoniare la necessità di un certo domandare.
Il tono sottilmente ironico che informa amabilmente il libro in alcuni punti sembra però fuori luogo. Come quando fa riferimento ai grandi filosofi del passato, solitamente ritratti come ingenui allocchi che straparlano sui più importanti problemi della scienza naturale. Per esempio, stigmatizza differenze superate tra analitici e continentali, ricorrendo a lignaggi che risalgono a Wittgenstein e a Heidegger ma descrivendoli in modo approssimativo: queste contrapposizioni in fondo lasciano il tempo che trovano, le guerre filosofiche fanno ridere, come dice Deleuze. Bisogna dire però che l'operazione editoriale di Holt - un libro per il resto molto godibile - trascende in parte l'ambito della divulgazione filosofica vera e propria. Sono numerose le differenze rispetto a testi quali Che cos'è la filosofia antica di Pierre Hadot, un classico del genere, o Prima lezione di filosofia di Roberto Casati, libri esemplari per avvicinarsi a questa forma di sapere (o di arte, secondo alcuni) perché permettono di comprenderne gli aspetti fondamentali, essenzialmente legati a sguardo, postura, abito e formazione della disciplina filosofica.