Pietà era morta, da quelle parti

25 Aprile 2014

Il silenzio circostante era una voragine nella quale scivolavo inesorabilmente senza appigli, invano allungando i tentacoli della mente. Una scarica elettrica mi esplose improvvisa nel cervello con mille luci. Ero entrato in un’altra dimensione. Quella del sonno. Di cui non so riferire.
Mi svegliai. Un chiarore freddo entrava dalle feritoie. Ero solo. Indolenzito. Mi misi in piedi. Sentivo rumori morbidi provenire dall’esterno.

Mi affrettai a una feritoia. Nella prima luce dell’alba il mio ospite si muoveva a grandi passi da un albero all’altro. Appendeva ai tronchi le gabbie dei richiami. Si udivano piccoli trilli e sommessi tentativi di gorgheggio. Cambiai feritoia. Il mio ospite doveva essersi alzato col buio, a giudicare dal lavoro che aveva fatto. Oltre il limite della radura, dove già scendeva il pendio, una morbida rete dalle maglie fitte abbracciava il filare d’alberi che contornavano a semicerchio la cima dell’altura. Vidi l’uomo raggiungere la rete e stringere gli ultimi legacci.
Lasciai la feritoia. Per me era giunto il momento di andarmene. Pensai con un brivido alla mia missione.
Ero ancora chino sulle stringhe delle scarpe quando sentii i passi pesanti dell’uomo salire i gradini della scala. Così chino com’ero, me lo trovai faccia a faccia, sbucato dalla botola. Si fermò a mezzo busto a guardare le mie mani che lottavano con i lacci delle scarpe.

 

Giulio Questi, Uomini e comandanti
 
– Cosa intende fare?
– Andarmene.
– È troppo tardi. Non può muoversi. Stanno arrivando. Non sente i richiami? Hanno cominciato.
– Devo assolutamente essere a G. prima del mezzogiorno.
– Stia fermo lì e non si muova, porco di un dio!!

Rimasi fermo dov’ero. Il selvaggio uscì completamente dalla botola. Sembrava invasato. Tirò a sé un grosso cesto traboccante di ventagli intessuti col vimine. Diede un’occhiata di controllo da una delle feritoie. Sciolse il grosso nodo di una corda e cominciò a mollarla dolcemente. Non più trattenuta, una pesante anta si dischiuse sul fronte della stanza, aprendosi verso l’esterno e assestandosi a bocca di lupo. La luce entrò con un fiotto. Si poteva scorgere in alto una fetta di cielo sporco di nubi grigie e cattive. Ai piedi della torre i richiami si erano completamente svegliati ed era ora un gran chiacchiericcio d’uccelli su cui svettavano acuti trilli e trionfanti gorgheggi.

Muovendomi in silenzio misi l’occhio a una feritoia. Dagli alberi sottostanti portai lo sguardo in alto verso il passo che avevamo di fronte. Era il passo che io stesso avevo valicato il giorno precedente. La montagna si abbassava in una sella che si profilava nitida contro il grigiore del cielo. E subito vidi da quel pro- filo sbucare e aprirsi un’oscura nuvola volante che veniva dritta verso di noi. Li riconobbi. Erano storni. Venivano dal nord. Sbucavano dalla montagna stanchi e affamati, senza più cibo sotto il loro volo, sul terreno coperto di neve. Ma senza dubbio dovevano aver già visto da lontano il Giardino delle Esperidi, gli alberi gentili pieni di pastura succulenta esposti sulla nostra altura. Un sole pallido stava uscendo tra le nuvole gravide di neve e un raggio di luce chiara macchiava gli alberi. Bacche d’ogni varietà e colore pendevano a grappoli ben visibili dagli alberi pressoché privi di foglie. E se ancora non le avevano viste, non potevano non sentire il richiamo del canto che i loro fratelli, sazi di miglio, emettevano dalle loro gabbie. Con la coda dell’occhio vidi il selvaggio sogghignare. E infatti la nuvola di storni si aprì, sbandò, si ricompose, e calò gioiosamente sopra di noi invadendo gli alberi.

Fu allora che il selvaggio raccolse dal cesto alcuni di quei ventagli di vimini, mettendosi in bocca un fischietto di stagno che gli pendeva dal collo. Dopo aver controllato ancora una volta dalla feritoia, fece un passo indietro e uno dopo l’altro lanciò i ventagli verso l’alto, nella fetta di cielo che si apriva al di sopra dell’anta. Nello stesso tempo mandò dal fischietto un lungo ininterrotto sibilo. Dal mio occhio applicato alla feritoia, potei vedere tutti gli effetti. Accompagnati dal sibilo, i pesanti ventagli si librarono sopra gli alberi con un volo eccentrico e frullante, simili a nere ombre di rapaci nel cielo. E infatti gli storni abbandonarono la pastura gettandosi disperatamente a volo radente nella discesa del pendio. Li aspettava la rete. Che in un attimo brulicò di corpi e di gridi. Finché tornò il silenzio. Qualche frullo ancora nell’insacco dei fili e poi l’immobilità. Grumi di spago palpitanti costellavano la re- te. Anche i richiami erano ammutoliti.
Ma dal passo già nereggiava un altro nugolo, forse di verdoni o di crocieri. Il Giardino delle Esperidi li attendeva. Nelle gabbie gli zimbelli avevano ricominciato a chiamare.
Quattro furono gli arrivi e per quattro volte il selvaggio scagliò sibilando i suoi inganni rotanti. Finché la rete nereggiò, stracarica di palpiti.
Benché pallido e freddo, il sole era uscito completamente. Più che soddisfatto il mio ospite pareva sazio. Facendo rumore con gli scarponi scese al piano di sotto e uscì sulla radura. La caccia sembrava finita. Lo seguii, sentendomi finalmente libero di partire.
 
Uscito all’aria aperta, non lo vidi subito. Ma sentivo pigolare. Mi spinsi al limite della radura e guardai di sotto. Sbrogliava svelto gli uccelli dalla rete. Con due dita schiacciava loro il cranio e li metteva in un sacco che si trascinava dietro. Qualcosa attrasse improvvisamente la sua attenzione. Lasciò il sacco e corse verso un grosso rigonfio della rete. Lottò a lungo con l’intrico dei fili, finché si rigirò verso di me alzando in alto la sua preda stretta tra le mani. Era una colomba bianca e immacolata.

– Da scrivere subito sul registro! – gridò. – Lo Spirito Santo in persona! – E subito gli schiacciò la testa tra le dita. Vidi lo schizzo del sangue macchiare il candore delle penne.
Mi ritirai disgustato. Ma potei udire il resto: – Manca- no solo gli altri due Compari! – sentii gridare, mentre mi incamminavo.

Arrivai a G. nel pomeriggio, sotto un cielo che si era rifatto plumbeo. Consegnai il messaggio sigillato al comando della brigata. Era un ordine di fucilazione. Tre ragazzi vennero disarmati e messi al muro. Intervenni di slancio, con una domanda di grazia. Venni messo al muro anch’io. Ritirai subito la domanda. Potei farmi da parte. I tre ragazzi caddero sotto i colpi degli Sten. Sí, Pietà era morta, da quelle parti.

 

Estratto da Uomini e comandanti (Einaudi) di Giulio Questi

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