L’italia minima di Maurizio Ciampa

19 Gennaio 2025

Dal cadavere di Benito Mussolini che penzola a Piazzale Loreto sino alla morte per acqua di quasi cento migranti davanti alla spiaggia di Cutro: il percorso di un Paese che esce dal fascismo e dalla guerra e va incontro a un processo storico che ne muta radicalmente i tratti istituzionali, economici, sociali e antropologici. In Italia minima (Donzelli, 2024, 231 pagine, 19,00 euro) Maurizio Ciampa segue, decennio per decennio, lo scorrere di un flusso non lineare, tortuoso, contraddittorio. Un flusso che sfocia nelle nostre vite di oggi. Vite è la parola chiave di questo libro. Piccoli tasselli individuali, donne e uomini che inseguono sogni e affrontano tragedie, minuscole tessere di un puzzle che soltanto dopo essere state messe insieme danno il senso di una visione generale. Niente può essere davvero compreso se non si volge lo sguardo ai frammenti che compongono il quadro d’insieme. «I grandi eventi che hanno scandito la storia del nostro Paese – avverte Ciampa nell’introduzione – qui scorrono lontani, come sullo sfondo. Qui, potrei dire, non c’è la Storia, se non per brevi squarci. Ci sono invece le vite, nella loro casuale episodicità, nella sofferta casualità che è propria di ogni vita. Della Storia ci sono le briciole rimaste sulla sua tavola, i resti».

Vediamole allora queste vite, pescandone alcune tra il repertorio di quarantasette capitoli di cui si compone il libro di Ciampa. Ascoltiamo le voci dei vicoli di Napoli nel 1943. Il 1° ottobre i carri armati alleati entrano in una città devastata dalla fame, dolorosamente segnata da un degrado che non è soltanto materiale ma anche morale. «Allora la fame – scrive Ciampa richiamando le pagine di La pelle di Curzio Malaparte – azzannava: allentare il suo morso, soltanto questo, a quel tempo, contava. Combattere per vivere, “per non morire”, altro non c’era. Per vivere, per “non morire” si mettono sul mercato mogli, madri, figlie e sorelle. Ogni casa un bordello. Anche le bambine, otto, dieci anni, sono merce. Anche loro sul grande mercato dei corpi». E ancora: «Napoli attraversa il deserto priva di ogni cosa, niente luce, né acqua, né gas. Niente cibo. Niente di niente. La città ha fame e sete. Ma non si rassegna a morire, si dibatte con la “vitalità dei dannati”. Napoli vuole vivere. Nella città la vita freme, straripa. Raffiche di vita avida». Si può essere dannati e non smettere di volere, fortissimamente, vivere.

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Da Napoli a Milano, sempre sull’onda degli avvenimenti che scuotono l’Italia alla caduta del fascismo. Luigi Ferrario è «un fotografo dilettante di immagini senza pretese». «Mai avrebbe pensato – scrive Ciampa – di poter documentare una convulsione della storia, il teatro della morte a Piazzale Loreto, la tangibile prova della disfatta del fascismo e dei suoi protagonisti. Su quella “tonnara alla rovescia”, salgono irruenti i sentimenti convulsi, tumultuosi, dell’umanità che, nella mattina del 29 aprile 1945, prima domenica di pace, si affaccia sul piazzale». «Chiunque – prosegue Ciampa – può sputare o tirare calci sul corpo inerme del dittatore e ribadire, a ogni colpo, la sua rovina. Ora ci si può avvicinare al corpo del duce, un tempo intangibile. Gli si può anche parlare: “Adesso fai il tuo discorso”, grida un uomo di mezza età rivolgendosi al cadavere di Mussolini. Mentre una donna che ha perso i figli in guerra gli spara addosso tre colpi di pistola, un colpo per ognuno dei tre figli». Per un giorno, l’Italia minima sale sul palcoscenico della Storia, con «sentimenti convulsi, tumultuosi», di violenza brutale certo, ma vitali.

Chiuso il capitolo della dittatura mussoliniana, una nazione ancora stracciona si avvia, passo per passo, su una strada nuova. «Esaurito tragicamente lo spirito guerriero aizzato dal fascismo, il Paese si specchia – scrive Ciampa – nelle immagini dei fotoromanzi, tornando a tessere la tela del comune sentire orientato alla “ricerca della felicità”». Il primo numero di Grand Hotel esce nel luglio del 1946 mentre l’Italia entra nella sua storia repubblicana. La rivista arriverà a contare «tre milioni di lettori, con un imprevedibile 25% di lettori maschi e un milione di lettrici appartenenti alla classe media, con istruzione di grado superiore». Non è insomma un «giornale per cameriere», Grand Hotel, avverte Ciampa. Piuttosto, nel successo dei teleromanzi (arriveranno anche Bolero film, Intimità, Sogno) c’è «qualcosa in più della semplice evasione: una strisciante educazione sentimentale che guiderà molte donne italiane lungo una strada nuova. Attraverso gli intrecci sentimentali e le tortuose passioni, milioni di ragazze e di donne cominceranno a guardare la vita che sta loro intorno. Raccogliendo sogni, proveranno a immaginare un futuro diverso».

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Como (Fortepan, Del Medico Imre).

L’Italia corre, sulla bici di Fausto Coppi e sulle utilitarie che escono dalle catene di montaggio del Lingotto. A partire dal 1947 il Giro d’Italia racconta la geografia di una nazione e riduce le distanze tra Nord e Sud. Così come le autostrade che, da Milano a Napoli, cominciano a segnare il paesaggio con i loro autogrill, luoghi consacrati ai nuovi riti del consumo. Sono gli inizi della motorizzazione di massa. La Seicento, l’utilitaria prodotta dalla Fiat, «segna una netta linea di demarcazione nella vita italiana. Fa muovere il paese. Costa poco, è facile da usare ed è per tutti». È l’Italia del miracolo economico. Un momento di vertigine: «I suoi anni – nota Ciampa – sono probabilmente i più onirici di tutto il dopoguerra. Storia e sogno si confondono».

Ma non tarderà molto, il sogno, a svanire. Tute blu è un libro (pubblicato da Feltrinelli nel 1977) in cui Tommaso di Ciaula raccoglie le memorie della sua vita in fabbrica. Nato nel 1941 nelle campagne di Adelfia, Puglia profonda, di Ciaula lascia i campi per essere assunto alla Pignone Sud di Bari. «Vede nella fabbrica – scrive Ciampa – una concreta possibilità di emancipazione. Resterà deluso. La fabbrica appare assai lontana da come l’aveva immaginata quando si piegava sulla terra per un lavoro senza riscatto: la fabbrica che incontra è un “drago” fumante, che sprigiona scintille di fuoco, bruciando quello che le sta attorno, quasi una potenza distruttiva». E gli operai? «Idioti robot che non fanno più paura a nessuno, anzi, fanno ridere», scrive di Ciaula. «La classe operaia – annota Ciampa – è stata domata».

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Venezia (Fortepan, Sugár Ferenc).

Sono tanti, nel passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, i sogni che si dileguano. Qualcuno prova a farli rinascere, in forme nuove. Nel 1984, Sensibili alle foglie, la casa editrice fondata da Renato Curcio, pubblica I sogni di Palmi, un libro curato dall’ex brigatista rosso Nicola Valentino. Sono le visioni notturne di un gruppo di ex militanti della lotta armata. Le ha portate il sonno, di notte, nelle celle del carcere di massima sicurezza di Palmi. «Negli anni Ottanta – scrive Valentino – l’identità che fino ad allora ci aveva sorretti comincia a vacillare, entra in crisi, in un modo allora poco chiaro e disorientante. Il mondo stesso degli anni Settanta crollava e con esso miti, visioni, utopie di un intero secolo. In questo crollo si andava sgretolando quella dimensione comunitaria di riferimento che aveva riempito di speranze sociali anche lo spazio angusto della cella». Soffia «un vento ghiacciato di acquiescenza e di rassegnazione», scrive sulle pagine del quotidiano il manifesto Rossana Rossanda.

Gli stessi venti ghiacciati che il 26 febbraio del 2023, nelle acque davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, uccidono 98 migranti. «Quel naufragio – scrive Ciampa – non è soltanto di decine di uomini e donne, di bambini e ragazzi, che avrebbero potuto essere soccorsi. A Cutro è naufragata l’intera nostra civiltà». Affermazione che attesta una fine, ma non rinuncia al futuro. Ci dice infatti, Ciampa, con il suo libro, che i venti ghiacciati della Storia la vita possono mortificarla, avvilirla, ridurla al lumicino, ma non possono spegnerla. E dalla vita continuamente rinascono i sogni, la speranza che si oppone alla morte. Non per niente le pagine più belle di Italia minima sono quelle contenute nei capitoli dove si raccontano storie di donne e di uomini che, come dostojevskiani «folli in Dio», hanno resistito, spesso da soli, spessissimo brutalmente marginalizzati, ai venti ghiacciati della Storia.

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Roma (Fortepan, UWM Libraries).

Sono diciassette ritratti. Qui possiamo richiamarne soltanto alcuni. C’è Ferdinando Tartaglia, il prete del Galluzzo, a Firenze, che nel 1946 raccoglie un cenacolo di giovani fedeli intorno a una visione di radicale rinnovamento della Chiesa cattolica e che per questo viene dichiarato dal Sant’Uffizio eretico vitando, «il provvedimento più grave previsto dal diritto canonico, perché non colpisce soltanto la dottrina, ma la persona. Il Sant’Uffizio vuole negare ai fedeli anche la semplice possibilità di avvicinare l’eretico». C’è Claudio Foschini, che nasce nel 1949 al Mandrione. Tra l’umanità dimenticata delle periferie romane, diventa ladro e rapinatore, entra ed esce dal carcere dove viene risucchiato dal gorgo dell’eroina, scrive in cella un diario per raccontare la rabbia che lo ha spinto a diventare un fuorilegge e per provare a uscire da un tunnel che pare senza sbocco. Sino a quando, in una giornata di maggio del 2010, a sessantuno anni, viene ucciso dalla polizia durante una rapina in una tabaccheria. C’è Alberto Bonvicini, che nel 1967, a otto anni, ospite di un orfanotrofio torinese, per il solo fatto di essere giudicato troppo irrequieto viene rinchiuso nel manicomio di Collegno, dove ancora si praticano contenzione forzata ed elettroshock. Dopo essere stato adottato, nel 1971, a tredici anni, da un’agiata famiglia torinese, Alberto diventa militante del movimento studentesco e nel 1981 viene arrestato, e poi condannato, perché ritenuto responsabile (nonostante lui si sia sempre dichiarato innocente) di aver fatto parte di un gruppo di militanti di sinistra che nel 1977, durante un’azione violenta, aveva causato la morte di un giovane simpatizzante dell’estrema destra. In carcere Bonvicini resta per due anni. In cella diventa tossicodipendente e si ammala di Aids. La malattia lo stronca nel 1991, a trentatré anni. Quando si ribellava, bambino, alla disciplina dell’orfanotrofio, Alberto avrebbe semplicemente voluto vivere. Il manicomio, il carcere e la droga lo hanno ucciso. C’è Fernanda Farias de Albuquerque, detta Princesa, donna transessuale nata nel Nord-est del Brasile, ad Alagoa. Prostituta, prima sui marciapiedi delle metropoli sudamericane e poi in Italia, a Milano e a Roma. Finita a Rebibbia, si racconta su foglietti sgualciti che vengono raccolti da Michele Jannelli, brigatista rosso della colonna romana. Pezzettini di carta, frammenti di una vita di strada che diventano un libro: Princesa (Sensibili alla foglie, 1994). Uscita da Rebibbia, racconta Ciampa, «dopo essere passata per un breve periodo dalla comunità di San Benedetto al Porto, fondata a Genova da don Gallo, Princesa farà ritorno al mondo che meglio conosce: il “circo” del marciapiede». E il 13 maggio del 2000, a Jesi, nelle Marche, si suicida. Ha 37 anni. «Soffia il vento nella mia testa – aveva scritto nei suoi foglietti –. Via tutti, voglio soltanto dormire».

Le vite raccontate da Ciampa lottano tutte per affermarsi contro un ordine che alla fluidità del vivente, aperta a molteplici possibilità, oppone la rigidità della norma, fortificata dalla pervasività del senso comune. La morte – vuole dirci Ciampa – è negazione del possibile. Del possibile in cui la vita cerca e riconosce, secondo una varietà indefinita di pratiche, se stessa. Cardine, allora, di Italia minima, è il capitolo ventesimo: Una sera d’ottobre alla stazione centrale di Milano. Protagonista, Anna Maria Ortese. Incaricata dall’Unità di raccontare lo scalo ferroviario milanese, la scrittrice descrive «l’onda sempre nuova di uomini, di colori, di grida, entro un scintillio continuo di occhi, di ruote, urtati caoticamente da braccia dure e sudate, da formidabili spalle curve su un manubrio, vacillando come ubriachi». Ortese vede, nel traffico febbrile, «un’interiore immobilità e stordimento, di chi crede di correre, ma è soltanto trascinato». Siamo nel 1957, in pieno miracolo economico. Si afferma una nuova epoca. «Si costruisce febbrilmente – scrive Ortese –, si elevano cattedrali agli dei della produzione, del guadagno e di una felicità apparente», ma la realtà è che l’uomo, asservito alle «coalizioni del nulla», spossessato di se stesso, «non ha più casa». Per un’esistenza intera Ortese ha combattuto con le «coalizioni del nulla» un terribile corpo a corpo, sostenuta dalla convinzione che all’ordine che genera morte la vita può (anche se quasi sempre dolorosamente e soltanto con fragili gesti, con deboli parole e con strategie minime e sotterranee) resistere. Come anche il libro di Ciampa racconta.

In copertina, Milano (Fortepan, Kristek Pál).

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