Balzano: un bambino di quarant’anni
Per una certa tipologia di scrittura (il romanzo epico, il romanzo storico, chiamiamolo anche d’impegno civile) il mestiere di raccontare, da Omero ai nostri giorni, rimane un esercizio che implica questioni di meccanica razionale, un po’ come per un ingegnere valutare la capacità di estensione di una molla o provare la consistenza di un metallo o testare la resistenza di una trave sottoposta a carichi pesanti. Può sembrare un paragone originale questo, ma non lo è affatto perché il vero problema che si pone un autore quando cerca di fare letteratura sta nel complicato rapporto tra Storia di tutti e destino dei singoli, quello stato di equilibrio precario in cui la vita di ciascun uomo s’incunea, tentando di sopravvivere, nel grande turbine del tempo che si fa epopea. In questo consiste la meccanica razionale applicata alle regole del romanzo ed è un problema di collegamenti, giunture, pulegge, bulloni; un argomento che riguarda l'orizzontalità del contesto più che la verticalità della cronologia, lo spazio più che il tempo, se per spazio intendiamo quel momento in cui un qualsiasi personaggio nasce alla letteratura, evocato dalla fantasia dello scrittore o rimbalzato dai pochi o tanti documenti che gli fanno da supporto. Il dilemma si trova qui: dove cessa la sua vita prenarrativa (ce n'è sempre una che appartiene al prima d’essere raccontato) e dove comincia l’altra, quella da personaggio appunto, che prende a muoversi non appena finisce tra le pagine di un poema o di un libro? Prendiamo a esempio il protagonista del romanzo di Marco Balzano, Bambino (Einaudi, p. 209, euro 19): da quale crocevia del secolo scorso o sogno/incubo o illustrazioni pubblicitarie sarà venuto fuori?
La copertina del romanzo ce lo presenta nell'aspetto di killer che si sporge da un cartellone cinematografico anni Venti: giacca sgualcita, coppola in testa, pistola puntata verso chi guarda. Non è mai facile dare voce a qualcuno verso cui si nutrono sentimenti di ribrezzo più che di entusiasmo e ci vuole coraggio ad affrontare una materia così scomoda in un'epoca in cui il politicamente corretto, il bisogno di emotività gratuita porterebbero a ritrarre figure capaci di far insorgere sentimenti di compassione. Ma Balzano è uno scrittore che ormai viaggia da anni al di fuori dell’etichette della convenienza e dopo una serie di romanzi costruiti sui temi delle vittime, ora si misura con una prova all'incontrario: il suo protagonista è veicolo di male non di bene, è uno che procura dolore anziché subirlo e non ci pensa due volte quando deve uccidere eppure, a modo suo, conserva un proprio, innocente candore. È il secondogenito di un orologiaio triestino, nato nello stesso anno in cui prende avvio il Novecento e, a differenza di suo padre, ha un contorto rapporto con il tempo. Già nell’incipit, infatti, dichiara di trovarsi in un alone di disincanto («La mia infanzia è stata una noiosa e interminabile infanzia») e più tardi, verso la fine del libro, confessa per lettera all’amico più caro di essersi schierato dalla parte sbagliata, avendo creduto invece di essere da quella giusta.
Qualcosa ci dice che le due affermazioni sono legate a filo doppio e in entrambi i casi sono espressione di una dimensione labirintica di cui Bambino – questo è il soprannome con cui attraversa la storia della sua vita – non sempre riesce a trovare le cause, prima di tutto perché spetta all’infanzia il privilegio di essere una stagione felice (e in questo libro purtroppo così non è) e poi perché solo in un’epoca dai lunghi ripensamenti come la nostra avremmo registrato un’asserzione di così radicale problematicità sulla bocca di un io narrante, la cui etica si rivela controversa fino al punto da presupporre gli spettri di un fallimento morale. La seconda delle due autoconfessioni ricorda da vicino l’enigmatico discorso del partigiano Kim nel Sentiero dei nidi di ragno (1947) quando deve spiegare al piccolo Pin le ragioni di chi combatte: di fronte a ogni avvenimento della grande Storia siamo chiamati a schierarci e non sempre è facile capire quale sia la scelta vincente. Al tempo in cui Calvino scriveva la sua prova d’esordio sarebbe stato più semplice dare una risposta. C’erano i fatti della Storia a suffragare i giudizi. Oggi ci muoviamo su traiettorie ben oltre le ideologie e non altro che questo determina la vera differenza quando ci si cimenta con il romanzo intriso di accadimenti novecenteschi, tanto più che rispetto all'opera di Calvino potrebbe essere diverso il contesto, ma non lo sfondo che dà senso al muoversi del protagonista di Balzano.
Qui conviene tornare all’idea che questo Bambino, con tutte le infinite contraddizioni, sia davvero il frutto del secolo scorso: un ribelle fragile, un violento bisognoso di amore, un adulto che non vuole uscire dalla condizione di figlio, un perfetto antieroe, insomma, offerto ai lettori nella lineare coerenza di una lingua evocativa e tagliente. «Ero davvero un bambino di quarant’anni» arriva a definirsi un giorno, mentre combatte in Albania. «Non abbastanza vecchio da evitare il fronte, ma non così giovane per costruirmi una famiglia». Ed è chiaro che in lui troviamo una serie di temi essenziali per ripristinare il patto con l’epoca in cui si inscrive la sua vicenda: lo squadrismo fascista, la vita in divisa militare, le ferite della guerra civile, il secondo dopoguerra, la persecuzione delle foibe, il lento processo di normalizzazione del Paese. Tutto questo però non basta a giustificarne il carattere. Il vento che ha soffiato sulla letteratura del secolo scorso e che inevitabilmente ha sfiorato ciascuno dei nomi finiti nei libri, continua a soffiare anche nell’esistenza di Bambino che è diventato una temutissima camicia nera nella Trieste del primo dopoguerra e non tanto per convinzioni politiche, piuttosto per reagire all’antica ferita di essere stato generato da una madre mai conosciuta, sussurrata in veste di fantasma dal padre, probabilmente nascosta o sostituita con un’altra figura e pur tuttavia rimasta a penzolare nella memoria del ragazzo come uno straccio all’aria aperta.
Siamo già abbondantemente dentro una vicenda imbevuta di un certo Novecento, anche se trapiantato nel Duemila e riattraversato a ritroso, assecondando una direzione che si può percorrere soltanto ora, non prima, in epoca post-ideologica appunto. Basterebbe osservare il modo in cui si declina il dialogo con il padre: «non potevo amarlo finché non si decideva a dire quel nome, ma era l’unica persona che avevo. Tra noi sopravviveva una forma di bene, anche se lacerata dai sotterfugi e dai silenzi». I due non si possono intendere perché a mettersi di traverso c’è proprio quel vento del secolo scorso con il suo peso, i suoi errori e le sue imperfezioni stampati inesorabilmente sulla pelle di chi lo ha sperimentato. E poi c’è Trieste che è soglia e frontiera, crocevia di odi antichi e luogo che si porta dietro il destino di essere «una città […] entrata in guerra con una bandiera e […] uscita con un’altra». Pur tuttavia essa resta l’unico miscuglio di etnie idoneo a ricordarci che nella civiltà a noi contemporanea è affare esclusivamente suo concepire una letteratura basata sui confronti generazionali. Il pensiero corre presto agli scrittori che hanno fatto diventare segno di autentica triestinità il loro paragonarsi, da giovani, con l’eroismo ottocentesco dei vecchi, a Scipio Slataper, a Carlo Stuparich. Il pensiero corre anche al romanzo di Umberto Saba, Ernesto, che presta il nome all’amico di Bambino, quell’Ernesto a cui indirizzerà l’ultima lettera. A questo punto sorge il sospetto che Balzano, coniugando romanzo storico e romanzo di formazione, sia risalito ai tragici fatti di un secolo fa per aggiungere un ulteriore tassello alla ricerca di identità che va componendo, libro dopo libro, la corda della sua scrittura civile. Potrebbe essere una semplice coincidenza che sia stata scelta Trieste come laboratorio antropologico, ma a volte la letteratura si regge in piedi grazie a coincidenze di questo tipo, anzi giustifica se stessa in ragione di un voler dare sviluppo all’antico stratagemma secondo cui, raccontando ciò che è finto, si finisce per dire qualcosa di vero.