Camus e il suo maestro
La scuola di rue Aumerat, nel quartiere di Belcourt, ad Algeri, continua ad avere ancora oggi una sua dignità, per quanto i muri imbiancati, le finestre chiuse da grate in ferro, qualche scritta mal cancellata sull’intonaco conferiscano all’edificio una sensazione di abbandono o di compromissione con i segni di un postmoderno troppo scontato. È proprio in una di queste aule che negli anni successivi alla prima guerra mondiale avviene l’incontro tra un maestro elementare, il signor Louis Germain, e un bimbo di eccezionale intelligenza, forse il migliore allievo che gli sia potuto capitare nella carriera, sicuramente il più celebre, segnato sul registro di classe con il nome di Albert Camus. Tra i due si stabilisce subito un’intesa fatta di complicità. Albert è orfano, suo padre è morto nella stessa guerra a cui anche Germain ha partecipato e da dove invece è tornato.
Questa strana combinazione, che provoca nel maestro sentimenti di colpa e di responsabilità, farà di lui una specie di padre sostitutivo, una guida severa ma paziente, un uomo che crede nel mestiere e lo pratica con un tale coinvolgimento, con una tale abnegazione e senso del dovere che perfino un ragazzino come il piccolo Albert, destinato per ragioni economiche a non proseguire gli studi e a trovarsi un lavoro per aiutare la famiglia, grazie a lui, grazie alla sua opera di convincimento nei confronti della famiglia, sarà dirottato verso un progetto di vita migliore, costruito intorno allo studio, al sapere, ai libri. Camus continuerà per tutta la vita a ringraziare il suo insegnante per avergli regalato un futuro da scrittore e nel romanzo che stava scrivendo prima di morire – un libro che si intitola Il primo uomo e che vede la luce, incompleto e postumo, nel 1994 – non mancherà di raccontarne l’episodio.
Siamo in un contesto di finzione narrativa, però è tutta vera la ricostruzione della scuola elementare, della classe composta da alunni economicamente disagiati e della lunga ed elaborata trattativa che il personaggio del maestro sarà costretto a intavolare con i famigliari dell’io narrante, sotto cui si nasconde Camus. Il primo uomo, infatti, ha un impianto dalla filigrana autobiografica e il capitolo in questione, La scuola, si può leggere a chiusura di Caro signor Germain. Corrispondenza e estratto (trad. di Yasmina Melaouah, Bompiani, p. 125, euro 16), il breve ma intenso carteggio intercorso tra i due, quasi a voler sancire il legame fra vita vissuta e invenzione letteraria, dove quest’ultima, appunto, svolge la funzione di completamento o di sublimazione. Ma anche l’epistolario, per quanto puntellato da quotidianità e cronaca, resta un documento umano di straordinaria forza morale perché a dialogare non sono soltanto due voci dislocate in geografie diverse, una a Parigi, l’altra ad Algeri, ma due maniere di intendere il secolo che li accoglie, il campione fuoriclasse e il suo allenatore, uno che si autodefinisce «figlio spirituale» e l’altro «maestro laico», un insegnante che diventa amico senza per questo intaccare la sacralità che si tributa, da parte dei più giovani, alle generazioni maggiori. «Caro signor Germain» scrive Camus qualche settimana dopo che l’Accademia svedese ha preso la decisione di attribuirgli il Nobel, «ho aspettato che si placasse un po’ il clamore che mi ha circondato in tutti questi giorni per poterle finalmente rivolgere qualche parola venuta dritta dal cuore. Mi è stato fatto un onore troppo grande, che non ho né cercato né sollecitato.
Ma quando ho appreso la notizia, il mio primo pensiero, dopo mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza la mano affettuosa che ha teso al bambino povero che ero, senza il suo insegnamento, e il suo esempio, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile». Questa lettera porta la data del 19 novembre 1957 ed è forse la più celebre del carteggio perché in anni recenti è stata più volte condivisa sui social senza tuttavia che fossero forniti riferimenti precisi a fonti bibliografiche. Ora invece possiamo finalmente leggerla dentro un contesto che ci racconta il prima e il dopo di questa commovente vicenda umana. Non occorre certo essere lettori con gusti da libro Cuore per avere testimonianza di quale speciale legame vincoli ognuno di noi al volto, alla voce, alle movenze di chi ci ha fisicamente aiutati a impugnare la penna durante gli anni dell’infanzia. E tuttavia in Caro signor Germain c’è molto più che un sentimento di gratitudine. C’è il desiderio di erigere un monumento ai maestri, alle attenzioni che hanno infuso in ogni loro operare silenzioso, alla loro paziente attesa, alle attenzioni. Umiltà, modestia, affetto filiale sono sfumature del linguaggio epistolare di Camus, che il lettore percepisce nella loro autenticità, senza alcuna ombra di affettazione o di recitazione, moti dell’animo scarni e sinceri, com’è nello stile di quest’autore che non si è mai nascosto di fronte alle lacerazioni di un secolo tormentato come il Novecento, ai dilemmi dell’uomo, anzi ha sempre cercato la forma più diretta per manifestarli su carta.
Sappiamo per certo, infatti, che non c’è finzione in lui e nella sua opera, non ci sono i trucchi della menzogna o della retorica, per cui anche un semplice scambio di saluti contiene le tessere dell’intero mosaico: caratteri, prospettive, patrimonio di affetti, profondità del tempo, visione della Storia osservata in entrambi i casi dalla parte di chi appartiene a un mondo minore. Quel che era il piccolo Albert tra i banchi delle elementari, nel quartiere algerino di Belcourt, non è cambiato poi così tanto quando è diventato (in tutti i sensi) grande. «Chi è Camus?» si domanda Germain il 30 aprile 1959 dopo aver ricevuto una monografia critica sull’opera letteraria del suo ex allievo. E subito si premura di aggiungere, con una punta nascosta di compiacimento: «Ho visto l’elenco sempre più lungo delle opere dedicate a te o che parlano di te. Ed è per me una grandissima soddisfazione constatare che la tua fama (è la pura verità) non ti ha dato alla testa. Sei rimasto Camus: complimenti».
Se la letteratura può essere considerata un «ramo delle scienze morali» – e di fatto lo è, così annotava Manzoni – questo carteggio ne è la dimostrazione lampante. Camus non fa passare troppi giorni per rispondere al signor Germain e il signor Germain si schernisce del tempo che faranno perdere le sue parole al celebrato scrittore. Ma lo fa quasi per trovare conferma di quel che egli stesso ha contribuito ad allevare perché Camus non smette di manifestare il suo grazie, anzi rincara la dose e una delle tante volte prontamente gli risponde: «Lo scolaro si permetterà di rimproverare il suo caro maestro a proposito di una frase. Quella in cui mi dice che ho di meglio da fare che leggere le sue lettere. Non ho e non avrò mai di meglio da fare che leggere le lettere di colui a cui devo di essere quello che sono, e che amo e che rispetto come il padre che non ho conosciuto».
Sono davvero inconsuete e inaspettate queste lettere di andata e ritorno sulla tratta Parigi-Algeri, inviti a cena e viaggi rinviati a circostanze più favorevoli. Fa specie che i due, chissà per quali nascoste ragioni, non entrino mai nel merito dei libri che Camus pubblica e che di sicuro non manca di inviare in dono a Germain con spirito di risarcimento. «Le sarà ormai arrivato il pacco di libri che mi aveva chiesto» gli scrive il 20 ottobre 1959. «Le rimando indietro anche il suo vaglia. Mi fa piacere quando mi chiede dei libri, e non voglio che me li paghi. Lei sa benissimo che non potrò mai misurare il debito che ho con lei. Con questo debito vivo, felice di saperlo inestinguibile, e più felice ancora quando posso farle un piccolo dono». Poi arriva la morte a interrompere tutto. La vita di Camus si conclude per incidente stradale il 4 gennaio del 1960, l’epistolario tace già da qualche mese, con la lettera del 20 ottobre, appunto. Non ci sono altre testimonianze a manifestarne il vuoto, per cui varrebbe davvero la pena a questo punto rileggere la pagina che in coda all’epistolario chiude il capitolo del Primo uomo.
Si tratta di un frammento profetico se letto alla luce di quel che sarebbe accaduto, anche se però a sparire non è l’allievo, ma il suo maestro: «Se ne andò, e Jacques [il nome del personaggio sotto cui si nasconde il piccolo Albert] rimase solo, smarrito fra tutte quelle donne; poi si precipitò alla finestra, per guardare il suo maestro che lo salutava ancora una volta e lo lasciava ormai solo, e anziché la gioia del successo, sentì un immenso dolore infantile che gli stringeva il cuore, come se sapesse in anticipo che quel successo lo sradicava dal mondo caldo e innocente dei poveri, un mondo chiuso in se stesso come un’isola nella società, ma nel quale la miseria sostituisce la famiglia e la solidarietà, per gettarlo in un mondo sconosciuto, che non era più il suo, e gli era impossibile credere che i maestri fossero più sapienti di quello che conosceva il suo cuore, e d’ora in avanti avrebbe dovuto imparare, capire senza aiuto, diventare uomo, insomma, senza l’appoggio dell’unico uomo che mai gli avesse dato una mano, crescere insomma e allevarsi da solo, a carissimo prezzo».