De Santillana tra Salvemini e Mussolini

17 Ottobre 2024

Il nome di Giorgio de Santillana entra di diritto nel Novecento letterario sulla scorta dei legami intercorsi dapprima con Leonardo Sinisgalli (che nel 1953 aveva accolto in «Civiltà delle Macchine» un suo articolo intitolato I miti della scienza) e poi, in maniera ben più strutturata, con Italo Calvino, suo grande estimatore già a partire dal 1960, anno in cui avevano condiviso un viaggio in Massachusetts. Tutti sappiamo quanto l’autore ligure fosse rimasto impressionato da una conferenza che de Santillana tenne nel 1963 – sarà lui stesso a confessarlo in una delle Lezioni americane – e come successivamente ne avesse seguito il lavoro intellettuale, anche quello postumo, così come attesta la recensione di Calvino al saggio Fato antico e fato moderno, uscita su «Repubblica» nel luglio del 1985. Chiunque si sia messo sulle tracce di de Santillana, di sicuro è venuto a conoscenza di queste informazioni che contribuiscono senz’altro a farne una personalità di riferimento della cultura italiana negli Stati Uniti, però dicono poco o nulla sull’orizzonte che sta a contorno del profilo di uomo e di scienziato. Non tutto, infatti, può esaurirsi qui.

C’è dell’altro, ovviamente, e non è di poco conto, perché all’immagine dello studioso galileiano trapiantatosi in America a metà degli anni Trenta, a quella dell’autorevole storico della scienza, se ne sovrappongono altre, magari sbiadite però inquietanti, che rendono fitte le ombre intorno a un profilo di uomo la cui natura politica vive le contraddizioni di una stagione novecentesca, com’è stato tipico di una certa frangia intellettuale rimasta sul crinale di incertezze etiche e storiche, a metà strada tra ambiguità e conferme, tra collaborazione e dissenso. Chi è veramente Giorgio de Santillana e, soprattutto, che ruolo ha avuto dentro il suo tempo uno che con un occhio guardava in direzione dell’antifascismo e con l’altro seguiva con simpatia le imprese in Etiopia? Siamo nei sostrati di una vicenda che non è mai stata raccontata prima d’ora. Siamo nel cuore del libro di Michele Camerota, Il fantasma di Amleto. Giorgio de Santillana tra Salvemini e Mussolini (Hoepli, p. 202, euro 25), confezionato a mo’ di ritratto in controluce sulla base di documenti d’archivio, lettere, articoli su quotidiani, analizzati incrociando le lenti del ricercatore a quelle del giallista.

Ogni cosa qui comincia e finisce con gli anni Trenta, perché è esattamente in quel decennio cruciale che il fascismo entra nella fase dello svelamento, l’epoca in cui tutti sono invitati a uscire definitivamente allo scoperto, a scegliere da che parte schierarsi ben prima che soffiassero i venti di guerra. Su questo argomento il cammino di de Santillana inciampa. Ufficialmente egli si trasferisce in America nel 1936 per svolgere attività di conferenziere e, per quanto a fatica, riesce a conquistarsi un certo rispetto nel pubblico statunitense fino a diventare professore universitario, sostenuto da figure influenti come Giuseppe Antonio Borgese, Max Ascoli, Nicola Chiaromonte, Gaetano Salvemini. In realtà proprio quest’ultimo, comportandosi da vero patriarca dei fuoriusciti politici, sarà il primo a insospettirsi nei confronti del giovane e brillante oratore che faceva di tutto per distinguersi tra le file degli oppositori al regime, discutendo di scienza come di politica, di miti come di economia, salvo poi pubblicare articoli con giudizi favorevoli agli indirizzi del Duce.

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Gaetano Salvemini.

De Santillana certo poteva vantare, a sua difesa, l’amicizia con Lauro De Bosis, uno dei primi eroi dell’antifascismo, figlio di quell’Italia dannunziana retoricamente imbevuta di spirito titanico e tuttavia ostile al verbo delle camicie nere. Ma il legame con la memoria di De Bosis non risultava una garanzia sufficiente per sgombrare il campo dai sospetti perché, pur essendo spiato dalla polizia fascista già per il solo fatto di essere amico del gruppo romano di Chiaromonte o di avere contatti con una figura di spicco del personalismo cristiano come Mounier, continuava a mantenere vivi i rapporti con l’eterogenea intellighenzia di destra, con i vari René Guénon, Julius Evola. Nello specifico, ciò che mise in allarme Salvemini era un contributo pieno di elogi a Mussolini, apparso sulla rivista «Atlantic Monthly», a firma Italicus, sotto cui non bisognava essere tanto scaltri per capire quale identità vi si nascondesse. «Santillana fece vedere ad Ascoli un testo che finiva con le parole: Thus England has enslaved at one and the same knee two people: the Italian and the Ethiopian people» scriveva da New York, il 6 ottobre 1936, un allarmato Salvemini a Giorgio La Piana, anch’egli trapiantato oltreoceano. «Ascoli disse a Santillana che questa chiusa gli pareva in pieno contrasto con l’intero articolo.

Alcuni giorni dopo Santillana gli disse: “la direzione dell’Atlantic ha soppresso proprio l’ultima parte”. Sarebbe interessante accertare se è vero che quest’ultima parte fu soppressa dalla direzione del giornale. Se fosse falso, sarebbe chiaro che Santillana avrebbe cercato di ingannare Ascoli, facendogli credere che l’articolo era stato da lui concepito con una chiusa ostile a Mussolini». In quell’epoca bastava un nulla per gettare discredito sulla fedeltà politica di un insospettabile studioso di argomenti scientifici e la reazione di Salvemini, che da quel momento in avanti provò a mettere in atto una ragnatela di richieste informative ai suoi tanti contatti, la dice lunga sulle oscillazioni nei rapporti personali, sul dovere di difendersi da potenziali nemici, sui pericoli della dissimulazione che si infilavano comodamente sulle veline della polizia o nei salotti borghesi, al di qua e al di là dell’Atlantico. Il comportamento di de Santillana – annotò Giuseppe Prezzolini nel febbraio del 1937 – «è strano, come sarebbe quello d’uno che volesse esser tenuto per una spia, senza esserlo, ma col gusto di parerlo».

Le informazioni che Salvemini raccolse non confermarono e non smentirono, ma ottennero l’effetto di far troncare improvvisamente i contatti tra i due, certo non per volere di de Santillana. Il cui nome però, anche dopo le richieste di informazioni, restava avvolto da nuvole torbide e ciò non contribuì certo a farlo uscire dallo stallo morale in cui era finito. La migliore parola in proposito fu pronunciata da Borgese, che intuì presto quale malessere assediasse l’animo del giovane e talentuoso studioso, venuto in America per pronunciare conferenze e trovatosi presto a diventare docente del prestigioso MIT di Boston, dove peraltro conobbe Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica. Non esiste alcun problema politico, risponderà a chi gli chiedeva delucidazioni, solo una profonda crisi personale, riassunta in un’icastica espressione che sarebbe finita tra le righe di una lettera-confessione inviata a Michele Cantarella il 17 gennaio del 1937, negli stessi mesi fatali in cui Salvemini tendeva trappole intorno a de Santillana: «mi peserebbe» confessa Borsege «di averlo spinto a una fine da Giuda senza essere ben sicuro che sia Giuda».

Morire da Giuda senza essere Giuda ricorda le parole di Prezzolini: «esser tenuto per una spia, senza esserlo, ma col gusto di parerlo». Ed è la sintesi perfetta di quel che agitava l’esistenza di de Santillana e di molti altri suoi coetanei. Borgese, insomma, aveva percepito l’essenza di un dramma umano (non politico) che si poteva chiamare in tanti modi, invocando lo spettro di Amleto che sarebbe entrato nel titolo di un celebre saggio di de Santillana: Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo (1983). Aveva, questo dramma umano, l’aspetto di un’incapacità a sottrarsi dallo stato di sospensione in cui si cullava la generazione di de Santillana, quel vagare tra le tentazioni di fronda nei confronti del fascismo e il simpatizzare per alcuni esiti patriottici, propagandati come vittorie e finiti per essere invece dei clamorosi tonfi politici. Che sia esistito un de Santillana opaco è fuori di dubbio, ma che questa sua opacità interpretasse alla lettera quella che venne definita l’epoca della malafede aiuta molto a mettere ordine nel caos di quegli anni. Chiaromonte parlava di malafede in termini differenti rispetto a Guido Piovene, anch’egli una figura di intellettuale rimasta nel guado.

Mentre per il primo essa restava un atteggiamento da sperimentare dentro il cerchio di «credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine», per il secondo la malafede era «un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza». Nel dopoguerra Salvemini e de Santillana sarebbero tornati amici come se nulla fosse accaduto qualche decennio prima. Ripresero a frequentarsi, a scambiarsi lettere, a difendersi reciprocamente dagli attacchi dei rispettivi avversari. Anche questa è una storia che merita d’essere raccontata. Più che storia, meglio chiamarla appendice: appendice di una malafede.

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