Alberto Casadei: il magistrato e la escort

7 Settembre 2023

La lettura di un libro come La suprema inchiesta di Alberto Casadei (Il Saggiatore, p. 368, euro 19) obbliga in prima istanza a interrogarsi su quanto ricco di sfumature sia il panorama all'interno del quale l'esercizio di raccontare storie abbia subito trasformazioni fino a diventare qualcosa di diverso, di inaspettato, addirittura di stravolto. Un tempo sapevamo cosa volesse indicare il termine romanzo e quali fossero le armi messe a disposizione dall'indagine narratologica: trama, intreccio, personaggi, etc. Un tempo (nemmeno così lontano come l'ultimo Novecento) si continuava a credere nello statuto del romanzo come genere della modernità, declinandolo in chiave antropologico-vittoriniana, cioè come strumento in grado di misurare il cambiamento messo in atto dalla stessa modernità in seno alla società.

Qui stava la funzione del narrare e per quanto il secolo passato avesse duramente minacciato questa peculiarità con la sua irrinunciabile vocazione alla sperimentazione, per quanto a lungo fosse durata la contesa tra edificazione del romanzo (vedi l'ipotesi che Giuseppe Antonio Borgese proponeva nel suo Tempo di edificare, 1923) e sconfessione del romanzo, con le inevitabili appendici che minavano la sua stabilità, si può dire che tra alti e bassi, tra attacchi e difese, questo genere letterario è sopravvissuto a sé stesso e al secolo che voleva metterci sopra una pietra tombale. Il paradosso, però, non finisce qui. Nel momento in cui ci si rendeva conto che gli attacchi al romanzo si erano rivelati infruttuosi ed esso continuava a testimoniare la sua resistenza all'atteggiamento corrosivo della neoavanguardia, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta arrivavano in libreria opere idonee a mediare qualità letteraria e leggibilità: per esempio La miglior vita di Fulvio Tomizza (1977), Un altare per la madre di Ferdinando Camon (1978), L'armata dei fiumi perduti di Carlo Sgorlon (1985), Le strade di polvere di Rosetta Loy (1987), I fuochi del Basento di Raffaele Nigro (1987), La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini (1990), La chimera di Sebastiano Vassalli (1990), La valle dei cavalieri di Raffaele Crovi (1993). Mai come in quel periodo, però, le regole del mercato editoriale lavoravano per un ulteriore mutamento che si sarebbe rivelato una specie di restaurazione, una sorta di retromarcia narratologica.

Mi riferisco al tentativo (purtroppo riuscito) che ha portato al ripristino di un primato, la trama sopra tutto il resto, idea che spesso ha finito per coincidere con i presupposti dell'investigazione poliziesca o dell'inchiesta giudiziaria. Il romanzo, alla fine del secolo scorso, non era morto sotto gli attacchi degli sperimentatori e dei loro nipoti, però paradossalmente si riduceva, per questioni di mercato, all'esaltazione di un genere, il giallo, che azzerava ogni tipo di conquista ottenuto dal romanzo storico-antropologico tra anni Settanta e Novanta. Tutta questa lunga premessa era necessaria proprio in relazione a quel che La suprema inchiesta propone. Alberto Casadei non ha voluto obbedire alle sirene che oggi fanno coincidere la nozione di romanzo con quella di meccanismo perfettamente congegnato per trascinare il lettore fino all'ultima pagina e con il fiato sospeso.

Chi legge questo libro ci arriva comunque all'ultima pagina, ma lo fa per ragioni opposte a quella dell'asfissiante presenza di un intreccio narrativo finalizzato a trovare un colpevole. Anzi, per dir meglio, anche qui c'è qui un magistrato che indaga su una serie di delitti, però non è di questo che l'autore intende parlare. Il morto esiste (è una delle escort entrate tristemente nelle cronache politiche dell'Italia berlusconiana) e ci sono pure movente e colpevole, ma si tratta di accidenti, come avrebbe scritto Manzoni e, se il lettore sta con il fiato sospeso, è per capire come abbia fatto l'autore di questa storia a tenere legati tra loro i puzzle dell'inchiesta giudiziaria con le aspirazioni di un architetto che sta progettando una città ideale, obbedendo a quell'antico desiderio della tradizione rinascimentale secondo cui non c'è civiltà senza utopie. L'architetto – va detto per rendere chiaro il discorso – è il marito del magistrato che indaga sulla morte della escort e la famiglia che entrambi hanno costruito, compresi due adolescenti che rispondono alle più comuni situazioni generazionali del nostro presente.

È la cifra con cui essi affrontano la dimensione del quotidiano a dare una precisa immagine del narrare di Casadei, restituendo in questa maniera personaggi che si muovono alla ricerca di qualcosa, in primo luogo di sé stessi e poi di quella particolare ragnatela tra passato e futuro che risponde al nome di esistenza. Osservando il romanzo da tale prospettiva, si capisce bene che l'obiettivo è costruire una sorta di apologo sul tempo quale elemento friabile rispetto a una stabilità che per pudore preferiamo intendere come sicurezza, mentre dovremmo usare, se ci fosse, il termine solidità. I personaggi della Suprema inchiesta sono il riflesso di quel periodo che Bauman definiva "età dell'incertezza".

Messi da parte gli accidenti giudiziari (che però, in pectore, vengono richiamati dal titolo) il libro si apparenta alla tradizione delle scritture pensate come ricapitolazioni di un'epoca, a cominciare da quell'insuperabile esempio che è la Commedia dantesca, di cui Casadei può essere considerato uno dei maggiori esperti in azione. Ricapitolazione è un sostantivo che ha il privilegio di rendere unito ciò che non lo è in virtù della sua capacità di assemblare, come avviene in un puzzle sghembo, una serie di componenti destinati per vocazione alla dissonanza. E tuttavia, accanto all'idea di addizionare elementi, il termine ricapitolazione presuppone anche che ci si possa dimenticare di qualcuno di essi, esattamente come avviene quando si stila un elenco e ci si accorge di aver trascurato qualcosa. Ecco, per dirla con un paragone, il libro di Casadei assomiglia a un elastico, tende a mediare tra opposti, a includere più che a escludere, a lavorare per aggiunte e per connessioni, coinvolgendo al suo interno i camei della Storia lontana e vicina, nei quali agisce il germe di un'idea il più delle volte finita nel dimenticatoio: la Repubblica napoletana del 1799 e la figura di Eleonora Fonseca Pimentel, i giorni tragici di Antoine-Laurent de Lavoisier in cui scoppia la Rivoluzione francese, l'Italia di Mike Bongiorno, gli attentati a Oslo del 2011.

Il mosaico narrativo gioca a carte scoperte con lo statuto del romanzo e ne fa un contenitore dove, oltre a far convivere registri di diversa estrazione – il plot narrativo, il passo saggistico, la citazione (Dante, Ungaretti, Montale, Sereni), il clima da social – attinge a qualsiasi risorsa che possa restituire un grado di autenticità e di credibilità all'esercizio dello scrivere. «Io vorrei creare una città ideale e imperfetta» dichiara a un certo punto l'architetto, «che accetta le imperfezioni perché chi ci abita riesce a riassorbirle». Gli fa eco la moglie, il magistrato: «L'imperfezione contemplata. È un problema, sai, per il diritto. C'è chi lo vuole mite e flessibile, e chi dice che le regole sono a priori. Il fatto è che persino per realizzare la felicità di un singolo individuo le variabili sono troppe». Può ancora oggi un testo narrativo aspirare a essere lo specchio di un'epoca? È da questa domanda che bisogna cominciare a leggere La suprema inchiesta.

O, capovolgendone l'assunto, si può etichettare sotto la voce romanzo un libro che comincia con una trama giallistica e si avvita invece lungo la pertica che conduce all'aporia morale? Le pagine testimoniano che è possibile realizzare l'una e l'altra cosa. Le pagine restituiscono bene la cifra di un atteggiamento che probabilmente l'autore ha voluto indicare come via d'uscita (e qui c'è davvero un ulteriore piano di lettura: quello pedagogico) per ritrovare il senso di un tutto che si è frantumato. «Fingevano di essere ingenui per potersi riappropriare di un po' di gioia del mondo» dichiara a un certo punto uno dei personaggi. Si finge di essere ingenui per necessità. Si inscena la commedia di una crisi per tentare di uscirne fuori. E di vincerla.

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