Ritorno in Puglia di Marco Ferrante

11 Agosto 2024

Alla fine degli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, improvvisamente la Puglia si è ritrovata a essere un laboratorio antropologico al centro di quelle rotte che dai mondi minori – Albania, Kossovo, Paesi balcanici, Medio Oriente, nord Africa – conducevano nel cuore dell’Occidente ricco e pragmatico, orientato sui valori dell’ottimizzazione e dell’efficienza, una specie di terra promessa. Non è detto che la realtà fosse esattamente aderente a quel che si percepiva da fuori, ma era questa l’immagine che prevaleva in chi veniva gettato in mare al largo di Brindisi o arrivava su navi nel porto di Bari, come la Vlora nel 1991.

Le spiagge dell’Adriatico erano la soglia di una civiltà che conservava i segni di un premoderno ancora non del tutto estinto (paesaggi, cibo, dialetto, abitudini), già solo a vederle dal mare promettevano l’approdo a una vita luminosa e appagante, modellata secondo gli standard del Nord Europa. Il fenomeno, per la sua rilevanza epocale, non poteva passare inosservato agli occhi degli intellettuali e invece, tranne che in pochissime eccezioni – da Il pensiero meridiano (1996) di Franco Cassano (1996) ad Adriatico (1998) e Diario mediterraneo (2001) di Raffaele Nigro –, gli scrittori mancarono l’appuntamento con questa pagina di Storia, si rivolsero ad altri argomenti. Mentre il secolo si spegneva, l’intero Mezzogiorno (non solo la Puglia) continuava a oscillare fra gli slanci orientati ad accettare i segni del postmoderno e le inevitabili sacche di resistenza, gli arretramenti, perfino un preciso desiderio di rifiuto. Gli anni Novanta furono qualcosa di contaminato e ambiguo, un’altalena di indecisioni intorno a cui si giocò la credibilità della cultura a matrice meridionale e quasi tutto dipese dalla maniera in cui mettersi in relazione con l’antropologia di questa post-meridionalità, a cui però, osservando le cose a posteriori, si scelse di anteporre l’assai più fruibile paradigma sicilianesco della terra malavitosa, dove vedere in azione commissari, poliziotti e avvocati.

 

In effetti, la Puglia degli anni Duemila somiglia moltissimo alla Sicilia di Andrea Camilleri: una terra di delitti e di commissari rispetto ai quali cambiava non solo il suono del dialetto, ma anche il suo uso e il suo valore nel contesto narratologico. Stabilire che tipo di vantaggio abbia portato questa operazione editorial-culturale ha un’importanza tutto sommato relativa. Di sicuro non si può dire che a questo progetto non abbia arriso il successo economico e un certo posizionamento nella gerarchia dei territori percepiti come luoghi di benessere, complice una serie di meccanismi a catena: dal libro alla serie televisiva, dalla serie televisiva al modello di brand turistico, con il suo normario di regole ripetitive e consolidate. Le vecchie masserie diventate lussuosi resort riassumono bene le fasi salienti di tale passaggio: dalla condizione di civiltà agricola-pastorale alle più accelerate liturgie della globalizzazione. Ma questa non è l’unica traiettoria seguita. Di fianco ne esisteva anche un’altra che prevedeva il racconto del Mezzogiorno come ideale prosecuzione della narrativa sudamericana, di stampo soprattutto marqueziano, motivo per il quale qualsiasi libro contenesse elementi eversivi rispetto alla realtà – ironia, paradosso, immaginazione – veniva additato come costola scaturita dall’immortale Cent’anni di solitudine.

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O terra di delitti impuniti, insomma, o terra di sognatori delusi: da queste due coordinate narrative non si poteva fuggire. Di fronte a un quadro sociologico così variegato Ritorno in Puglia di Marco Ferrante (Bompiani, 2024, p. 355) andrebbe considerato uno dei primi tentativi di rimedio. Lo è soprattutto per due ragioni. Da un lato, la vicenda prende avvio da una tragedia accaduta in mare sul finire degli anni Novanta (l’affondamento di uno scafo da parte di una nave da guerra italiana), dunque nell’epoca in cui stava avvenendo il cambio di interpretazione da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Dall’altro, il tema dell’esodo albanese non poteva non confrontarsi con l’esistenza di una piccola borghesia imprenditoriale, magari ancora impregnata di familismo paternalista, magari espressione di un antico ritardo nella mentalità degli affari, ma poco disposta a manifestarsi secondo i caratteri consueti (diciamo anche gli stereotipi) del Mezzogiorno immobile.

Ancora una volta siamo di fronte a un tema di rottura nei confronti della tradizione, perfino di quella più recente. Ferrante non vuole cedere alla tentazione, come hanno scelto di fare molti suoi colleghi, di rappresentare un luogo lontano dalle problematiche che ineriscono alla dimensione occidentale dell’uomo o che si accontenta di comparire agli occhi dei forestieri come lo scenario dove un bicchiere di primitivo stempera la tensione di un’indagine poliziesca. Se fosse soltanto questa la strada attraverso cui il Sud chiede di entrare nei paradigmi della globalizzazione, sarebbe una situazione davvero imbarazzante. C’è dell’altro nell’intrecciarsi di destini tra la famiglia borghese e quella di profughi albanesi. E naturalmente questo altro lo si può cogliere solo riconoscendo alla terra che fa da sfondo l’aspetto di laboratorio sociologico dal volto bifronte, di cui si parlava all’inizio: una dimensione umana da intendersi metà quale ultima propaggine di un oriente balcanico da cui fuggire, metà quale avamposto di una società che ha detto addio all’arcadia leviana del Cristo si è fermato a Eboli.

Siamo al centro di una questione che ha perso l’aura meridionale, nel significato tradizionale del termine, e tuttavia manca di una definizione sostitutiva, tanto più che a dominare la pagina del libro è un sentimento che il Mezzogiorno non ha mai provato prima d’ora: quello della colpa che affligge, per ragioni vari, ciascun personaggio. Anche in questo caso si tratta di un tema discontinuo rispetto alla tradizione. Parte della letteratura solitamente ascritta al filone del meridionalismo ha continuato a nutrirsi con l’esercizio del lamento o della rivendicazione, si è originata da un bisogno di risarcimento di cui i libri, le storie narrate diventavano una sorta di strumento. Erano gli altri a doversi sentire in colpa, non lo scrittore meridionale: l’Unificazione, la repressione del brigantaggio, la questione agraria, il mancato sviluppo economico, l’emigrazione erano materia per mettere in scena la tragedia del Sud come tragedia dell’incapacità a gestire le sollecitazioni della modernità. Ed era un modo elegante per coprire gli errori di classi dirigenti incapaci di dare risposte adeguate. In Ritorno in Puglia sparisce la dicotomia tra buoni e cattivi, si eclissano tanto i sentimenti della sconfitta quanto il tema del perdono, per cui tutti alla fine devono sentirsi parte di un mondo che ha smesso di cercare se stesso dentro le ambiguità di una condizione minore e vive la propria incapacità di crescere, di approdare a quella dimensione adulta che segna l’unico confine credibile di una civiltà matura. 

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