Le province dell'Italia di mezzo

3 Marzo 2025

Un tempo, uscendo da Milano o Roma a bordo di treni o di automobili, era fin troppo chiara la percezione di un addio alla grande città e non sarebbe stato certo necessario che le lancette degli orologi compissero troppi giri per avvertire il distacco da una soglia, l’inizio di un viaggio che poteva risultare infinito dentro il labirinto di pieni e di vuoti, di casolari, frazioni, paesi che trovavano riparo sotto l’ombrello del termine provincia. In quel tempo – stiamo parlando degli anni Settanta, ma il discorso non farebbe una grinza anche se venisse retrodato ai decenni precedenti – dire provincia significava dire lentezza, indolenza, monotonia quotidiana che avvolgeva come un’ovatta, escludeva e proteggeva dall’intrico delle metropoli: sonnecchiare alla vita sognando di partire un giorno, senza mai riuscirci del tutto, perché poi, in fondo, il luogo dove si nasce non allenta mai i vincoli. È questa la dimensione esistenziale che la letteratura e il cinema hanno contribuito a narrare, dalla Provincia addormentata (1949) di Michele Prisco, che aveva raccontato i comuni vesuviani della cintura intorno a Napoli, ai Vitelloni di Federico Fellini (1953), antesignani di quella tendenza centrifuga che voleva sostituire le cartoline in bianco e nero della premodernità con le sgargianti ambizioni dei quartieri cittadini, con tanto di marciapiedi e semafori. 

Essere provincia implicava rischi e vantaggi: pettegolezzi, invidie locali, mancanza di privacy, ma anche riconoscibilità, rispetto, esibizione di uno status. E il sentirsi scissi tra partire o restare dava conferma che la nostra identità stava nella frantumazione (e non nell’omogeneità) dei territori, nella conflittuale varietà di campanili, all’ombra dei quali proliferava un’esistenza tranquilla, sia pure ai margini, che spesso si traduceva in un complesso di inferiorità verso chi se n’era andato. Così era l’Italia prima della globalizzazione e se qualche volta accadeva di avvertire le differenze tra centro e periferia non era solo per denunciare arretratezza e subalternità, ma anche per esaltare l’infinita ricchezza di tipi umani a cui attingere se si voleva cogliere il volto della nazione. Lettere dalla provincia si intitolava un’inchiesta promossa dalla rivista «Prospettive Meridionali» e pubblicata nel 1957, dove alcuni scrittori (Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Gianna Manzini, Gino Montesanto, Domenico Rea, lo stesso Prisco) si cimentavano in una serie di reportage antropologici sulle regioni del Mezzogiorno. Non è l’unico esempio. Pochi anni più tardi, nel giugno del 1970, cominciava a Ravenna l’avventura di un’altra rivista, «Il Lettore di Provincia», il cui editoriale smontava lo schema della marginalità come elemento di debolezza e di ritardo. «Leggere, in provincia» scriveva l’anonimo compilatore dell’articolo, «poteva significare un tempo provincialismo oppure, in senso serriano, alto dilettantismo. Provincialismo come “chiusura” o cecità verso le correnti di rinnovamento e dilettantismo come non lodevole compiacimento di sé e del proprio gusto elevato a norma. 

Oggi, con la cultura e la letteratura assediate dall’industria, leggere in provincia può significare atto di difesa e di indipendenza». Anche la provincia ha una propria dignità e il racconto delle sue cerimonie, dei suoi riti appiccicosi si prendeva lentamente la rivincita nei confronti dell’altra Italia, quella frenetica dell’inurbamento che aveva segnato gli anni della ricostruzione e del miracolo. D’altra parte, nel secondo Novecento, per cercare storie, gli scrittori avevano piegato lo sguardo più verso i paesi che verso le città. Il che non voleva dire rifugiarsi in campagna, ma decifrare i segni di una trasformazione che avveniva ovunque, dentro la cintura metropolitana e anche fuori, nelle piccole o medie realtà urbane dove perdurava l’abitudine dello struscio pomeridiano, dove si coltivavano sentimenti non ancora toccati dai processi di alienazione demografica e passare inosservati agli occhi dei vicini era un miraggio. Come sarebbe stata certa narrativa italiana senza la Luino di Piero Chiara, la Parma di Alberto Bevilacqua, la Vicenza di Goffredo Parise, la Ferrara di Giorgio Bassani? Senza dimenticare poi che il Sud raccontato da Prisco, Pomilio, Compagnone, Incoronato, Brancati, Flaiano non era rappresentato come la patria dei contadini, ma il regno della piccola borghesia, dipinta nella gretta cecità, in funzione di nostalgica retroguardia. 

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L’aspetto curioso e per certi versi sorprendente di questa faccenda antropologica è che, nonostante il mito soverchiante della città, l’Italia non ha mai smesso di essere una nazione dal profilo multiplo e il suo essere composta da frammenti molteplici come le toppe dell’abito di Arlecchino, anziché risultare un punto di debolezza, si è tramutata in una risorsa, un esempio persuasivo di quella «pluralità dei territori» che è la definizione più convincente da cui prende avvio Italia di mezzo. Prospettive per la provincia in transizione (a cura di A. Lanzani, Donzelli, p. 402, euro 35). Il libro ha un preciso orientamento progettuale: è l’analisi dei contesti geografici che si sono modificati nel loro aspetto, nella loro funzione, perfino nella vocazione a differenziarsi più che a rassomigliarsi. Quel che un tempo chiamavamo provincia adesso viene definitivo «Italia di mezzo»: qualcosa che esiste da sempre, ma soltanto ora però, nel pieno della globalizzazione, si infila come un cuneo tra «città sempre più estese che attirano popolazioni sempre maggiori e terre di consolidati spopolamenti e scarso sviluppo», come si legge nella postfazione. Più che individuare un paesaggio, presente fra le aree metropolitane e le aree interne, soprattutto la dorsale appenninica, il libro mira a descrivere uno spazio antropologico che, pur rimodulando la nozione di provincia, è qualcos’altro rispetto a quel che indicava lo stesso termine nel vecchio secolo. 

Se si vuole comprendere il nuovo significato, bisognerebbe mettere da parte la sensazione di appartenere a una civiltà subalterna, fatta sia di privazioni che di aspirazioni, e pensare che invece proprio in quella zona intermedia si attui il tentativo di costruire un modello di esistenza in cui far convivere i richiami a una precisa tradizione antropologica con i modelli dell’ortodossia occidentale. La stessa percezione di immobilità, che nel Novecento veniva considerata parte integrante della condizione media provinciale, oggi risulta completamente ribaltata. Basterebbe percorrere l’autostrada A16, la Napoli-Bari, a cui peraltro il libro dedica un capitolo, per accertarsi che la rappresentazione delle aree interne – l’Irpinia della disoccupazione, della sottoeconomia agricola, dell’isolamento che era stato il paradigma narrativo del sisma accaduto il 23 novembre 1980 – ha lasciato spazio libero a un paesaggio composto da pale eoliche, piccoli distretti industriali ormai semiabbandonati, capannoni attrezzati per la logistica. 

Lo stesso discorso vale per la campagna intorno a Viterbo, tappezzata dai parchi fotovoltaici. Una superficiale lettura di queste pagine condurrebbe alle soglie di una malinconica constatazione: l’Italia di mezzo è una landa rovinata dai fenomeni del postmoderno e questo favorisce il moltiplicarsi di una generale tendenza a riscoprire il valore della parzialità, a ripiegare verso impossibili ritorni all’antico. Da un certo punto di vista questa potrebbe anche essere una ingannevole mitologia. I luoghi attraversati dall’A16, come anche quelli che si spalancano nella pianura veneta o lungo i torrenti che rendono la costa marchigiana e abruzzese della stessa forma di un pettine, non si sono mai prestati al racconto di una favolosa arcadia e il compito dei contemporanei, più che a rifiutare il nuovo, dovrebbe mirare a correggere gli errori, stipulare un patto di reciproca fiducia con i segni del futuro che bussa inesorabilmente alle porte delle case e chiede notizie di quel che avverrà in un giorno non così di là da venire.

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