Premi Ubu: visioni da un altro mondo 

16 Dicembre 2022

Sono passati quasi cinquant’anni da quando Franco Quadri ha fondato il Premio Ubu, attualmente alla 44a edizione, che si è conclusa il 12 dicembre con la serata di premiazione condotta da Graziano Graziani e Laura Palmieri sul palco dell’Arena del Sole di Bologna e in diretta su Rai Radio3. Nel tempo, il Premio è cresciuto, ha provato a mantenere una tradizione e al tempo stesso a rinnovarsi; è stato talvolta un sostegno, talaltra un fastidio; apprezzato e discusso, ha affrontato cambiamenti grandi e piccoli, mentre mutava il teatro del presente e, nel contempo, si moltiplicavano altri riconoscimenti nazionali nel campo delle arti sceniche, via via sempre più numerosi. 

Gli Ubu però, dal 1978, continuano ad avere un tratto del tutto peculiare: si svolgono tramite un referendum nel quale sono chiamati a esprimersi decine e decine di critici, studiosi, osservatori, diversi per generazione, provenienza, prospettiva (al momento sono circa 70). Quest’anno, il Comitato scientifico del Premio – di cui chi scrive fa parte – ha deciso di sviluppare questa caratteristica nelle forme di un confronto diretto, assembleare, condiviso fra i votanti, che immaginiamo potenzialmente sempre più continuativo, al fine di coltivare quella polifonia di voci e sguardi concepita originariamente da Quadri. Per continuare ad aprire, incrociare, anche discutere, in un tempo in cui le ‘bolle’ (sociali, affettive, lavorative) in cui operiamo si fanno sempre più autoriferite e ristrette. 

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La ‘fotografia’ degli Ubu 2022

Oggi come allora viene da chiedersi che senso ha: a cosa possa servire un premio in campo artistico – nel quale peraltro non si vince niente di concreto –, quale funzione possa ancora esercitare in un mondo (non solo lavorativo) in frantumi e in ogni caso completamente mutato rispetto a quarant’anni fa. 

Una prima risposta, al limite del tautologico, è che serva a segnalare le punte del nostro teatro, a consacrare la solidità conquistata da alcune figure di riferimento e contemporaneamente a portarne altre, nuove, alla visibilità; ma chi segue gli Ubu sa che è e non è così, perché il meccanismo referendario funziona a maggioranza, e quante volte questo ci ha sorpreso, in termini di scoperte inattese o di qualche delusione, oppure rispetto alla difficoltà di far davvero affiorare qualcosa di poco noto nel nostro sistema-spettacolo (proprio perché si tratta di margini, ça va sans dire, non li può conoscere e votare la gran parte dei referendari). 

Graziano Graziani, in apertura della serata di premiazione, parlava più di preciso della possibilità di scattare – attraverso gli Ubu – una ‘fotografia’ dell’ambiente teatrale italiano contemporaneo: in cui entrano non solo i vincitori, ma anche le rose dei finalisti e, ancora più ampiamente, le scelte di tutti i votanti (sono pubblicate, anno per anno, sul sito). È capitato tante volte, e ovviamente non solo nel Premio fondato da Quadri. 

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Il miglior spettacolo: L’angelo della storia, di Sotterraneo.

Però non serve scomodare la filosofia francese del secondo Novecento per ragionare su quanto una rappresentazione di qualcosa, per quanto possa aderire all’oggetto di partenza, non sarà mai una copia fedele della realtà ritratta. Perché parla non soltanto del mondo che prova a restituire – in questo caso, un ambiente teatrale quanto mai sfaccettato e molteplice –, ma anche, per forza di cose, di chi ha costruito quell’immagine: dei fotografi, il cui incrocio di prospettive dà vita ogni anno ai Premi Ubu. La selezione di vincitori e finalisti, insomma, dà conto inoltre dello stato dell’arte nel campo della critica: degli interessi di ciascuno, dei giudizi, delle preferenze che si fanno collettive, certo; ma inoltre, più sottilmente, dell’idea di cultura, arte, teatro diffusa, appunto dell’immagine della scena su cui si basano i votanti; forse anche dell’indirizzo che con le loro azioni – dentro e fuor di Ubu – desidererebbero imprimere al nostro teatro. 

Non in qualità di membro del Comitato del Premio, ma nelle vesti di una fra i tanti referendari, quello che mi interessa qui non è osservare l’aderenza o meno degli esiti di questa edizione al paesaggio artistico che dovrebbe o potrebbe rappresentare, anche perché l’esaustività in questo campo è utopia. O meglio, sì, vorrei concentrarmi sulla sovrapposizione fra le scelte dei votanti e la scena che plasmano in potenza; ma attraverso di essa focalizzare viceversa i possibili, altrettanto rilevanti “scollamenti” fra la realtà e l’immagine del teatro che emerge quest’anno dagli Ubu, quella “petit différence” – direbbe Deleuze – che mette in luce una qualche azione critica rispetto al mondo in cui viviamo e lavoriamo. Quello che segue non è un report dai Premi né un loro resoconto esaustivo: si tratta solo dell’opportunità di condividere qualche riflessione.

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Migliore regia: Licia Lanera, per Con la carabina di Pauline Peyrade, anche Premio Ubu come migliore testo straniero presentato in Italia.

Generazione T

Come è stato ricordato più volte durante la serata di premiazione, ci sono artisti e compagnie che hanno conquistato in quest’occasione il loro primo Ubu. Fra questi, tanti appartengono a una precisa generazione, non tanto o non solo anagrafica ma ‘teatrale’: si tratta di persone che hanno iniziato a lavorare negli stessi anni, condividendo condizioni simili dentro e fuori la scena; e spesso anche una vocazione al suo rinnovamento. Per cui si potrebbe parlare più che altro di rigenerazione e, da quest’ottica, tener conto che si tratta di una categoria per forza di cose sfuggente e mutante (e per fortuna!). 

Emerso in Italia nei primi anni del nuovo millennio, è un fenomeno che ha avuto tanti nomi, nessuno dei quali ancora oggi pienamente diffuso e accreditato (segno, questo, della sua ostinata irriducibilità): Generazione Zero, Doppiozero, nuova o quarta ondata, iperscene, terza avanguardia… In omaggio a uno dei primi e più attenti critici che l’ha seguita e sostenuta, la voglio chiamare oggi “Generazione T”: una formula che apre un varco nel passato recente, proposta da Renato Palazzi quasi per gioco, ormai più di dieci anni fa, per nominare i gruppi emergenti che si affacciavano sulla scena italiana del Duemila.

Niente di nuovo, si potrebbe dire. Gli Ubu avevano già intercettato a suo tempo la tendenza: un Premio Speciale collettivo nel 2009, ricordava Graziani; altre segnalazioni sparse, spesso condivise; addirittura, un paio di riconoscimenti importanti ma isolati nelle categorie ‘principali’. Tuttavia, se da un lato alcuni di questi artisti sono al primo vero e proprio Ubu, in generale va notato che il fenomeno non s’era mai manifestato in maniera così massiccia.

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Ottantanove, di Daniele Timpano ed Elvira Frosini, miglior nuovo testo italiano ex aequo.

L’ha detto a chiare lettere Daniele Timpano, il cui percorso s’intreccia in tanti sensi con quello della “Generazione T”, quest’anno autore con Elvira Frosini del miglior testo italiano (Ottantanove, ex aequo con Dei figli di Mario Perrotta). La compagnia nella scorsa edizione era stata segnalata fra i Premi Speciali per Indifferita: un particolarissimo progetto di visione di spettacoli storici della ricerca italiana, messi a disposizione su YouTube in pieno lockdown grazie alla collaborazione di altri gruppi e artisti. Un segnale importantissimo, sia per il gruppo, sia per l’ambiente in generale, sia per il pubblico, in quanto parla di cura, di reti, di un’idea di fare teatro, attori e spettatori insieme, che travalica di molto i limiti del palcoscenico. Ma – come sottolineava appunto Timpano durante la serata Ubu – ci sono voluti quindici anni per farsi accettare dal sistema-spettacolo nazionale dal punto di vista dell’innovazione drammaturgica. 

Anche questo è un indice, quanto mai significativo. Soprattutto perché può valere per altri: Muta Imago – che in passato era stata segnalata sempre in contesti collettivi o per progetti condivisi – vince con Ashes nella categoria miglior progetto sonoro, dopo anni di ricerca su progressive forme di sottrazione scenica e un impegno sempre più profondo sulle modalità di trattamento del tempo performativo. Paola Villani, creatrice di ambienti e spazi straordinari, ottiene il suo primo Ubu per la scenografia, a seguito di varie finali e dopo essere approdata al Premio con un riconoscimento speciale a Pathosformel nel 2008. Licia Lanera, che era stata qualche anno fa miglior attrice under 35, è fra le pochissime ad aver ottenuto il Premio per la regia, dirigendo Con la carabina. Caso unico, quello di Sotterraneo, che con L’angelo della Storia raddoppia il già conquistato riconoscimento nella categoria miglior spettacolo (il precedente era per Overload nel 2018). 

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Marco Cavalcoli, migliore attore per Ottantanove e Ashes, in Ashes di Muta Imago, ph. Claudia Pajewski.

Parole magiche verso il futuro

Al momento di salire sul palco per ritirare la coppa, ai vincitori dei Premi Ubu 2022 quest’anno è stato chiesto, invece che di pronunciare i consueti ringraziamenti, di proporre una parola per il futuro. Alcuni artisti – fra cui quelli che abbiamo diffusamente nominato finora – hanno scelto dei termini particolari, che fanno pensare sia alla situazione attuale, sia, appunto, alle sue possibili prospettive. 

Non c’è forzatura né pudore nell’affermare che si tratta, nella gran parte, di parole magiche. Alcune, in senso ampio, lato e trasversale, forti della particella “ri-” nel prefisso, indicavano una risposta possibile allo stato delle cose. Si va dal “rinnovarsi” di Fabrizio Arcuri, alla “rivoluzione” chiamata in causa da Frosini/Timpano (dopo l’attuale “restaurazione” e un’auspicabile “reazione”, questa è la loro “profezia” per il futuro, hanno specificato); fino alla “riprogrammazione” evocata da Sotterraneo, che – nel discorso affidato a Sara Bonaventura e ora pubblicato sui social – come al solito sfonda i confini del palcoscenico, al fine di intervenire anche sul mondo là fuori: proponendo, con questo termine “tecnico e fantascientifico che significa cambiare un programma perché produca risultati diversi dal solito”, una visione di teatro come “palestra di (auto)riprogrammazione, in quanto esperienza estetica dal vivo di intelligenza collettiva e cittadinanza”.

Altre sono “parole magiche” in senso stretto e letterale: “Abracadabra”, formula antichissima ma oggi a uso quasi esclusivo dei bambini, che rimanda anch’essa – come evidenziano Riccardo Fazi e Claudia Sorace di Muta Imago, che l’hanno scelta – a un tentativo di cambiare il futuro, sempre partendo da una mutazione nel presente. Complementare e opposto, comunque impregnato nell’incanto della parola che crea, è “corpo celeste”, termine proposto da Paola Villani: una “traduzione” del lavoro che l’ha condotta al Premio (Carne blu) e una riflessione portentosa – tratta da Anna Maria Ortese e affidata alle parole di Federica Rosellini, autrice-attrice dello spettacolo – che ragiona su quanto a lungo l’umanità abbia pensato agli astri come qualcosa di incantato, lontano, irraggiungibile, per poi accorgerci, a un certo punto, che per tutto quel tempo stavamo già proprio su uno di essi, il nostro pianeta, un “altro mondo” vicino e possibile. E, ancora, “fantasia”: è la parola con cui Marco Cavalcoli racconta il suo approdo al teatro. 

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Migliore scenografia: Paola Villani per Carne blu di Federica Rosellini.

Raccordi fra le ondate della scena

Da questo elenco sommario e parziale, è evidente come il punto di questa edizione non sia ‘soltanto’ la “Generazione T”, Zero o quel che è (e/o quel che ne resta). Cavalcoli, infatti, al primo Ubu come miglior attore col lavoro di Frosini/Timpano, in verità è un artista che ha cominciato ben prima: al fianco delle Albe, poi di Teatrino Clandestino, per aggregarsi infine a metà degli anni Novanta a Fanny & Alexander, con cui porta avanti un percorso ormai trentennale.

Anche Arcuri fa parte dell’ondata precedente della scena, dei cosiddetti Teatri 90. Similmente, il suo percorso viene da lontano ed è una figura che ha investito sistematicamente sui processi di rigenerazione del nostro teatro, ben oltre l’esperienza dell’Accademia degli Artefatti, come si legge nelle motivazioni con cui gli è stato attribuito uno dei Premi Speciali.

In questa categoria, poi, ci sono altri casi diversi ma in questo senso affini: Malagola è l’ultimo esito in ordine di tempo dell’attività di Ermanna Montanari (che co-dirige il progetto insieme ad Enrico Pitozzi) e del lavoro seminale, trasversale, polifonico portato avanti da quarant’anni dal Teatro delle Albe. Mentre la ‘corrente’ delle eresie teatrali si può risalire anche con Massimo Marino, premiato per la sua impresa di valorizzazione dell’opera di Giuliano Scabia: dai gruppi del presente si può arrivare fino al passaggio-chiave degli anni Settanta e Ottanta, attraversando il sostegno concreto con cui ha partecipato all’emersione dei Teatri (e della danza) 90.

Pensando a queste figure si va al di là dei limiti della cosiddetta “Generazione T”, si può vedere cosa c’era e c’è dietro, sotto, di lato, al fianco di quegli artisti emergenti degli anni Duemila. E finalmente, almeno per un momento – grazie alla ‘fotografia’ che si compone dalla serata finale dei Premi Ubu 2022 –, possiamo liberarci dello sciabordio delle ‘ondate’, delle avanguardie che si rincorrono, della bulimia da “tradizione del nuovo”: perché quello che emerge non sono tanto le differenze o i salti fra un momento e l’altro delle vicende sceniche, quanto piuttosto – ben più concretamente – le generazioni che s’impastano, s’intrecciano, si sostengono e nutrono l’una con l’altra. Non la discontinuità che per decenni ha dominato il modo di fare storia (non solo in teatro) ma la continuità che questi (e altri) artisti, operatori, persone hanno messo in atto di propria iniziativa, garantendo per anni la sopravvivenza, talvolta il benessere, del teatro italiano e in particolare delle sue zone più sperimentali, marginali, fragili, estreme. 

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La compagnia di Inferno, di Roberto Castello – Aldes, miglior spettacolo di danza.

Cultura di gruppo e compagnie indipendenti

Continuità, raccordi, legami: è questo, fra le altre cose, che affiora dai Premi Ubu 2022 o, meglio, da una piccola (ma credo importante) parte della ‘fotografia’ della scena contemporanea che restituiscono, cioè dall’incrocio di sguardi dei referendari che l’hanno tracciata. Continuità di cosa – verrebbe da chiedersi – in tutte queste forme, percorsi, prospettive così differenti? Anche qui le risposte possono essere tante, e diverse per ciascuno di noi. Per me, per come si è manifestato il Premio sul palco dell’Arena del Sole nella sua serata finale, un tratto è risaltato più di altri: quello della cultura di gruppo e/o di compagnia. 

C’è un’altra “parola magica”, in senso stretto e lato, che è stata pronunciata durante la premiazione: l’ha scelta Licia Lanera ed è “capocomicato”, un termine forse desueto, che affonda le radici nella tradizione cosiddetta “all’antica italiana” e però risulta potente, perché permette di guardare avanti, molto avanti; soprattutto nel momento in cui è evocato da una delle sole tre registe nella storia del Premio a esser riuscita a ottenere un riconoscimento nel contesto di un mestiere – si ricordava – da sempre considerato maschile, e non soltanto agli Ubu.

Fra l’altro, in un momento in cui le compagnie indipendenti si trovano in particolare difficoltà. L’ha ricordato Umberto Orsini, Premio alla carriera; l’ha evocato Sonia Bergamasco (miglior attrice), col riferimento all’indennità di discontinuità per i lavoratori dello spettacolo, duramente conquistata soltanto poco fa e oggi già a rischio; l’ha detto Arcuri, per il quale guardare al futuro significa rinnovamento, certo, dei linguaggi, ma anche delle politiche, delle scelte produttive, delle dinamiche di sostegno; e l’ha ribadito Cavalcoli, richiamando le recenti scelte ministeriali di concentrare i finanziamenti su poche grandi strutture, drenando risorse dagli artisti indipendenti. E potremmo aggiungere i vincoli imposti agli ex Stabili pubblici e privati che, fra recite in sede e forme di scrittura individuale, dal DM 1 luglio 2014 in avanti hanno finito col distruggere uno dei tratti-chiave della nostra cultura teatrale: l’indipendenza delle compagnie, le loro alleanze, il sistema-tournée, sfaldando progressivamente il tessuto connettivo che ha distinto per secoli il teatro italiano. 

Comunque sia, stanti così le cose, è significativo che la maggior parte degli Ubu 2022 sia andata meno ad artisti individuali e più a gruppi (un altro caso, rilevantissimo in termini politici e poetici, è il miglior spettacolo di danza, Inferno di Roberto Castello, che ha affollato il palco con tutta Aldes al completo).

Non so se questa condizione – a metà fra il rischio d’estinzione e l’ostinazione a una irriducibile continuità – rifletta davvero la situazione del teatro italiano del nostro tempo: se è così o se è come vorremmo che fosse. Come dicevamo, è ‘solo’ una fotografia, non la realtà ma come la vediamo (il plurale è rischioso ma volutissimo); anzi si tratta soltanto di un frammento fra i molti possibili, fra l’altro doppiamente viziato dal filtro di chi, quell’immagine, la sta guardando e descrivendo. A ogni modo, adesso si tratta soltanto di tornare all’inizio per chiudere il cerchio: a domandarsi a cosa serve un premio come l’Ubu; ma, a questo punto, nel senso di chiedersi se c’è qualcuno – soprattutto fra gli amministratori, i politici, i grandi teatri – disposto a recepire (e, magari, di conseguenza, ad agire). 

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