Di arte e di rivoluzione
Ottantanove, teatro e rivoluzione
Uno degli ultimi spettacoli di Frosini/Timpano è sulla rivoluzione. Si chiama Ottantanove e al centro ovviamente c’è la più famosa, quella francese del 1789. Ma, all’inizio, una voce si leva dalla platea: mentre Elvira Frosini e Daniele Timpano dal palco guardano enigmaticamente gli spettatori, come non di rado capita nei loro lavori, Marco Cavalcoli – sempre sul filo fra critica e aderenza, verità e finzione, anche questa una cifra del duo romano – informa il pubblico che nella storia dell’umanità (ma sarebbe meglio dire d’Europa) ce ne sono state almeno cinque: prima, quella religiosa, la Riforma protestante; poi quella politica, appunto con la Presa della Bastiglia; più avanti, quella sociale (la Rivoluzione d’ottobre) e, ancora, una rivolta fra le altre cose contro l’istituzione-famiglia, intorno al Sessantotto. Ne manca una, l’ultima e definitiva, che dovrebbe prendere di mira l’individuo, rendendo impossibile qualunque “noi”, e così la vicenda dell’umanità sarebbe conclusa. Però, in realtà, anche questa c’è stata e forse sta ancora accadendo: la mancanza di appigli cronologici precisi nel titolo dello spettacolo e i riferimenti storici altri di cui è costellato disegnano un arco storico ben più ampio, che parte dalla caduta del Muro di Berlino nell’89 e arriva al 2001, quando l’attacco alle Twin Towers ha almeno in parte oscurato la durissima repressione di uno degli ultimi, grandi movimenti di protesta del Novecento, concretizzatasi proprio qui in Italia, in occasione del G8 di Genova.
A pensarci bene, anche gli altri lavori di Frosini/Timpano, in un certo senso, parlano di rivoluzione e di ciò che ne resta, pure quelli creati individualmente prima della nascita della compagnia. Ma Ottantanove assume il tema in maniera frontale ed esplicita, con tutta la carica eversiva, affettiva, poetica e politica che di consueto sostiene le loro creazioni.
Fatalità, una delle ultime repliche è andata in scena al Teatro Massimo di Cagliari il 27 marzo, in occasione della Giornata Mondiale del Teatro, una specie di monumento voluto più di sessant’anni fa dall’Unesco per festeggiare annualmente questa piccola realtà parallela sempre più ai margini della storia come della vita quotidiana. Come si ricorda in Ottantanove, Rousseau sosteneva che nei periodi rivoluzionari non ci potesse essere teatro e che l’esperienza performativa dovesse consistere nella pratica – a suo avviso ben più partecipativa – appunto della festa. Ma nel 2024, in varie città italiane, questa ha lasciato spazio ad altro. Perché in questo periodo c’è ben poco da celebrare. E non solo per le guerre vicine e lontane che non dovrebbero restar fuori da nessuna azione artistica e culturale, ma anche per ragioni più contingenti, nazionali e strettamente teatrali.
“Vogliamo tutt’altro” e la Giornata Mondiale del Teatro
Quest’anno, la festa in vari posti ha assunto una forma di protesta, annunciata qualche tempo prima da una serie di istruzioni su come accendere in autonomia un fuoco in senso sia concreto sia ideale, potenzialmente capace di riunire le persone intorno a un incontro e di reilluminare un mondo – quello del teatro – sempre più lontano dall’attenzione pubblica. Oltre ai tavoli di discussione che si stanno sempre più organizzando spontaneamente in varie parti del Paese, di cui ancora non si può dire, finora di fuochi accesi il 27 marzo ne ho visti almeno tre.
A Bologna, dopo un’assemblea aperta al DAS, la spinta si è concretizzata in un’azione dal portato simbolico: la reinstallazione in Piazza Maggiore della “W” di Kinkaleri, traccia di una lunga tradizione di curatele condivise, di recente rimossa e mai più ricollocata dal Comune. Mentre a Catania – dove resiste uno dei pochi, ultimi teatri occupati del Paese – sembra caduto nel vuoto l’appello che richiedeva partecipazione nei processi di nomina della nuova direzione dell’ex Stabile cittadino. A Roma, invece, da cui è partita l’iniziativa di Vogliamo tutt’altro, voluta da varie soggettività di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo, sono due mesi che si moltiplicano le assemblee pubbliche (molte delle quali trasmesse in streaming sui social anche da Daniele Timpano).
Tutto è cominciato con l’affidamento della direzione del Teatro Nazionale capitolino a Luca De Fusco, reduce proprio dallo stabile catanese: sia per il nome che per le forme in cui si è concretizzata, la nomina ha fatto traboccare il vaso di una città che da anni era giunta al limite, in teatro e non solo. Ma, al di là di quello che si legge sui giornali, in questo contesto la “vera” notizia non è stata tanto la forzatura politico-amministrativa con cui s’è garantito l’ennesimo mandato alla guida di un grande ente pubblico a un direttore-regista “di professione”, senza grandi successi ma con vasti sostegni politici: è un fatto – su cui sono intervenuti i più – purtroppo già accaduto infinite volte, tanto con la persona in questione quanto nell’ex Stabile romano o in strutture analoghe. Sebbene abbia riscosso meno attenzione sulla stampa, dal mio punto di vista la notizia ‘vera’ è proprio l’altra: cioè le proteste, le discussioni, gli incontri che si sono organizzati di lì in avanti e che, soprattutto, stanno continuando; i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo che, anche al di là di provenienze, generazioni, esperienze, hanno cominciato a parlarsi in tanti e tante, pubblicamente.
C’era una volta un “altro teatro”
C’era una volta una grande città sempre molto complicata, che però pullulava di gruppi indipendenti, giovani o meno; di spazi autogestiti, spesso occupati; di reti fra luoghi, pensieri, persone… Erano ambienti in cui le compagnie provavano, reciprocamente si ospitavano, facevano spettacoli, ne programmavano d’altrui, organizzavano progetti più o meno condivisi e – non meno importante – s’incontravano, in tangenza o in parallelo ad altri generi d’attività, dalla musica all’attivismo politico. Sembrerà assurdo, ma nella Capitale sono esistiti luoghi in cui si andava in scena senza pagare affitti stratosferici né biglietti altissimi; molto frequentati da generazioni, vite, visioni non sempre affini, dove si potevano incrociare differenti saperi, pratiche e mondi; insomma, in cui il teatro era ovviamente sempre una realtà a parte, ma un pochino meno del solito (e va ricordato che qualcuno ne sta ancora pagando il prezzo, non solo in senso metaforico: un esempio su tutti, il caso del Rialto Santambrogio).
È una vicenda recente ma in realtà anche piuttosto antica, se consideriamo che può cominciare almeno dai piccoli teatri, dalle cantine degli anni Sessanta, dall’“altro teatro” – come lo chiamava il critico Nico Garrone – per arrivare fino agli spazi occupati dei Duemila, anche questi partiti dalla Capitale con l’esperienza del Valle e poi diffusi in tutto il Paese: esperienze diversissime nello spazio come nel tempo, dove però s’è iniziato a pensare che un altro mondo (e, appunto, teatro) fosse possibile, creando realtà nuove basate su tutt’altri principi e ben al di là di qualunque interlocuzione politico-istituzionale, degli orientamenti ministeriali, delle nomine agli Stabili. Nell’insieme, questi ambienti di lavoro e di vita hanno garantito la sopravvivenza – anche se certo mai facile – di tanti artisti e artiste, operatrici e operatori, anche della critica, del pubblico, delle comunità del teatro cosiddetto di ricerca, compresi quelli che resistono anche nel presente.
Fare tutti i nomi non sarebbe possibile e forse neanche giusto: quantomeno perché, oltre le realtà affermate che oggi sostengono in vario modo buona parte delle stagioni della scena contemporanea, credo siano altrettanto importanti le figure e i progetti che non ci sono più, che magari sono durati soltanto per poco, che non hanno lasciato tracce evidenti o che poi sono mutati, lasciando spazio ad altro; ma ragione profonda, più che altro, è che – nonostante alcune compagnie, associazioni, addirittura qualche spazio resistano ancora adesso – penso che il senso importante e profondo di queste esperienze si possa rintracciare soprattutto nei legami duraturi che nel tempo hanno costruito fra loro, attraversando tempi e spazi inimmaginabili (anche questi permangono, in maniera più o meno visibile e concreta).
Archeologia delle rivoluzioni e movimenti di rigenerazione teatrale
Roma è un posto a dir poco particolare e da sempre fa storia a sé. Ma, per certi versi, in questo caso può diventare emblematica e permettere di raccontare un’altra storia, altrettanto importante e specifica. Quelle descritte, infatti, non sono vicende ‘solo’ romane, si tratta di una storia comune, almeno italiana, le cui risonanze si possono ritrovare variamente elaborate in altri tempi e territori. Per esempio, nelle costellazioni di festival, sale comunali, spazi delle compagnie, nelle prime residenze, in tutti quegli ambienti gestiti negli ultimi cinquant’anni da operatori e operatrici sensibili alle emergenze (nel doppio senso del termine). Dagli anni Settanta ai primi Duemila, hanno rigenerato luoghi non solo fisici dove lavorare, ma anche incontrarsi, immaginare insieme modalità diverse di fare ed essere, dentro e fuori il teatro.
In vario modo declinata, la congiunzione fra arte e politica ha attraversato diversi decenni, assieme al valore dell’indipendenza, alla pratica dell’autogestione, anche e soprattutto nelle interrelazioni, all’urgenza di cambiare qualcosa o, meglio ancora, tutto, e di farlo insieme, con qualsiasi mezzo (anche teatrale) a disposizione. “Un altro mondo è possibile” è la frase che ancora riecheggiava da un capo all’altro del mondo nei movimenti di protesta d’inizio millennio: anche questa è una storia almeno in parte condivisa di movimenti di rigenerazione artistica-politica che hanno lasciato tracce profonde nel presente. Non è l’ultima in ordine di tempo o la migliore in assoluto, ma solo quella che conosco meglio – con tutti i limiti del caso, la mia.
Poi cos’è successo, “quand’è che la rivoluzione è diventata archeologia”, per parafrasare un passo di Ottantanove di Frosini/Timpano? Se quasi tutti i “laboratori del nuovo” del Novecento, concependosi a un certo punto come istituzioni alternative, hanno ceduto appunto ai rischi impliciti in un simile processo di strutturazione, lasciando assorbire nel sistema il loro originario portato eversivo – ma forse è proprio questa, come diceva Furio Jesi, la differenza fra la temporaneità delle rivolte e la prospettiva lunga delle rivoluzioni – e Antonio Attisani, proprio qualche giorno fa su Doppiozero, ricorda come fra anni Settanta e Ottanta fosse diventato “quasi ovvio pensare che arte e cultura dovessero tenere conto della politica prescindendone”, io mi sono chiesta spesso cos’ha costruito la mia generazione, che cosa abbiamo fatto per questo mondo (almeno teatrale) e cosa stiamo lasciando a chi sta venendo dopo di noi.
Detesto e rifiuto le divisioni storico-critiche per epoche, ondate, -ismi, tendenze, e tante volte, quando ho parlato di “generazioni”, giustamente molti interlocutori-coetanei si sono ribellati, anche laddove specifico che non ha senso valutarle in senso anagrafico. Credo, però, che esistano generazioni politiche-artistiche, costituite da persone che, al di là della loro età, hanno vissuto le stesse cose in un certo periodo; che nel momento in cui i movimenti di rigenerazione ci attraversano lascino segni profondi, spesso reciprocamente riconoscibili; e che, in ogni caso, il senso di azzeramento insito in quelle forme di “repulsione storiografica” faccia in un certo modo parte del racconto di “libertà” (o meglio di liberismo) sorto proprio intorno al 1989 e tuttora ben radicato.
Arte, politica e memoria
La “quinta rivoluzione” dell’individuo annunciata da Ottantanove dal mio punto di vista ha avuto un ruolo: possiamo dire che il G8 di Genova, sempre richiamato nello spettacolo, e tutto ciò che è successo dopo abbiano esercitato un impatto non secondario su un’intera generazione (artistica-politica). In apparenza, quegli eventi sembrano aver fermato una storia di movimenti che attraversa almeno tutto il XX secolo, naturalmente non solo in campo teatrale. Quello che hanno bloccato, in realtà, è stata soprattutto la loro memoria; non a caso, di lì in poi, al di là di Fukuyama, anche in teatro è tutto un parlare di “fine della storia”. Di conseguenza, sembra siano andate in crisi tante delle modalità consolidate di trasmissione di saperi, pratiche, esperienze: basti contare quante realtà indipendenti resistano a vent’anni di distanza, anche solo in campo culturale.
“Non dobbiamo fare la rivoluzione, c’è già stata, dobbiamo solo ricordarla”. Lo si dice sempre in Ottantanove, dove fra l’altro – nonostante ciò che sosteneva Rousseau sull’assenza del teatro in tempi rivoluzionari – si recuperano innumerevoli testi, spettacoli, figure di fine Settecento che in tanti abbiamo dimenticato, avallando la postura anti-teatrale di quello che è considerato uno dei padri del pensiero moderno europeo. Guardando all’orizzonte ultimo tracciato dai movimenti di contestazione nei primi Duemila, in effetti, ricordare è ciò che non abbiamo ancora sistematicamente fatto. Sto cercando di farlo un po’ adesso (in proposito, aggiungo per completezza che anche Elvira Frosini e Daniele Timpano vengono da alcuni di quegli ambienti capitolini indipendenti di cui abbiamo parlato prima).
Non è forzato dire che ciò che sta accadendo in questo periodo, soprattutto a Roma ma anche diversamente altrove, viene in buona parte da quello spazio-tempo sul limitare fra i due millenni, ricordato trasversalmente solo in occasione del ventennale del suo tramonto nel 2021, in precedenza raramente discusso in pubblico e in ogni caso pochissimo studiato, almeno in teatro.
Non so se il suggerimento di Ottantanove sia giusto perché le rivoluzioni vanno soprattutto fatte. Ma in questo periodo, forse anche “solo” ricordare può avere un qualche senso: nel momento in cui, dentro e fuori i teatri, le derive autoritarie sono sotto gli occhi di tutti, si promulgano nuove leggi che limitano progressivamente i processi di aggregazione, le deleghe alla rappresentazione si convertono sovente in violazioni della rappresentanza, pure in ambito culturale; e – per quanto ci riguarda forse più da vicino – si stanno scrivendo i decreti del nuovo Codice dello Spettacolo. Le recenti riforme teatrali sono riuscite a smantellare il paradigma della forma-compagnia indipendente che ha fatto conoscere la tradizione italiana in tutto il mondo negli ultimi tre secoli: oggi, dato che l’ordinamento premia la produzione e limita la distribuzione, gli spettacoli muoiono poco dopo aver debuttato; le grandi strutture si rafforzano e rimandano o rendono inoffensivo il “cambio della guardia”; gli spazi protetti e sensibili si assottigliano sempre più, mentre tanti nell’arte come nella critica, nella curatela o nella politica hanno iniziato da tempo a guardare altrove.
Per questo, finché siamo ancora in tempo, può essere determinante provare a (ri)accendere dei fuochi intorno a cui tornare a irradiare discorsi collettivi: in tutti i modi, da qualsiasi parte vadano, con qualunque strumento – anche facendo storia e memoria. Per evitare di sbiadire fino alla sparizione completa nei flash di una luce talmente accecante da rischiare di diventare totalitaria (sempre Ottantanove, nel finale, con le parole e coi fatti).
L’ultima fotografia ritrae un momento di Ottantanove di Frosini/Timpano