Convegno di Ivrea 1967/2017 / Cinquant’anni dopo: il Nuovo Teatro
Sono passati già cinquant'anni da quei giorni di giugno del 1967 in cui nella cittadina piemontese di Ivrea si riunì, segnando un punto di non ritorno senza precedenti, il Nuovo Teatro italiano. Sullo stimolo di un documento pubblicato pochi mesi prima sulla rivista “Sipario” promosso dai critici Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini, Franco Quadri e firmato da figure eminenti della nuova cultura italiana – non solo teatrale –, si ritrovarono lì a discutere e confrontarsi con artisti come Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis, Giuliano Scabia. Percorsi e figure radicalmente diversi fra loro che però nell'insieme negli anni sessanta stavano scuotendo alla base l'idea e la pratica delle arti performative in Italia – creando appunto un teatro nuovo. Il Convegno di Ivrea arriva a riepilogare, certificare e rilanciare queste pulsioni, con l'intenzione di discutere i modi e gli orizzonti del rinnovamento da innumerevoli punti di vista: artistici ed estetici, ma anche politici ed etici, teorici, organizzativi, pratici. E di intervenire in concreto a sostegno delle nuove tendenze.
Quale sia stato il valore fattuale e culturale di quell'evento, quali le sue ricadute, le sue conquiste e anche le potenzialità non completamente espresse; cosa sia successo dopo, fra le diverse ondate del Nuovo Teatro italiano, come siano cambiati o meno gli scenari, le posizioni, le tendenze; come sia la situazione oggi nella ricerca emergente nel campo delle arti performative, sono alcune delle domande alla base del convegno Ivrea Cinquanta, svoltosi a Palazzo Ducale di Genova con l'organizzazione di Teatro Akropolis, l'ideazione e la cura di Marco De Marinis, la consulenza scientifica di Silvia Mei e la collaborazione di un Comitato scientifico-organizzativo di cui fanno parte inoltre Fabio Acca, Roberto Cuppone e chi scrive.
Diviso in cinque sessioni di lavoro distribuite su tre giorni (5, 6, 7 maggio), Ivrea Cinquanta ha visto la partecipazione di studiosi, critici, operatori, artisti di diversa provenienza, età, linguaggio ai tavoli di discussione, ciascuno introdotto da due keynote speech e ognuno dedicato a un aspetto diverso del Nuovo Teatro: Avanguardia / Nuovo Teatro: le parole e la storia; Dall’attore all’artista, dalla compagnia al progetto; Post-Novecento, nuove ondate, terza avanguardia: un’altra storia?; Nuovo Teatro e Nuova Critica: un bilancio; Dalle cooperative ai centri: vicissitudini di un’alternativa. Completano il programma l'intervento di alcuni testimoni d'eccezione, Giuliano Scabia, Pippo Delbono, Carlo Quartucci (intervistati rispettivamente da Marco De Marinis, Roberto Cuppone, Lorenzo Mango) e due momenti performativi affidati a Lorenzo Gleijeses e a Andrea Cosentino.
Impossibile ripercorrere qui in ordine, in profondità e in dettaglio lo svolgersi di tutte le relazioni e discussioni, lo svilupparsi del dibattito. Ma, dopo la densità di quelle giornate, è doveroso quantomeno rintracciare – tramite un punto di vista interno, partecipe all'iniziativa – alcune linee emergenti del discorso che sembrano a chi scrive significative per rappresentare la riflessione intorno a Ivrea in quanto opportunità critica di ragionamento sul Nuovo Teatro del nostro paese dagli anni sessanta a oggi.
Mettere in storia il Nuovo: fra studiosi e artisti
Un primo tema che ha scandito diversi fra gli interventi in programma a Ivrea Cinquanta è stato quello della storia del Nuovo Teatro, anzi delle modalità di ricostruirne la vicenda e della possibilità stessa di farne storia – una questione che, con la distanza, è diventato negli ultimi tempi assolutamente indispensabile cominciare ad affrontare. Gli interventi su questi fronti si sono raccolti soprattutto nella prima sessione del convegno, specificamente dedicata al tema con il coordinamento di De Marinis. A partire dalle introduzioni di carattere trasversale di Lorenzo Mango – che in anni recenti si è dedicato proprio alla storicizzazione del Nuovo Teatro, guidando un'équipe di giovani ricercatori del cui lavoro ha dato prova un'altra relatrice della sessione, Mimma Valentino – e di Antonio Attisani, in una relazione-intervista che è stata letta, in assenza, da Franco Perrelli. Si possono inquadrare gli interventi raccolti su questi temi seguendo l'indicazione di metodo intorno a cui ha ruotato l'intervento di Mango: la possibilità – più che di “fare” – di mettere in storia il Nuovo, cioè di rompere l'isolamento che a volte l'ha definito come eccezione e di ricalarne le vicende all'interno dei contesti concreti in cui si sono innescate e sviluppate. I diversi contributi che sono seguiti si possono senza troppe forzature collocare su questa prospettiva, fra il Convegno del '67 e i suoi successivi riverberi sull'ambiente teatrale italiano. Il potere della critica, il sostegno pubblico agli artisti, la contestazione dello statuto stesso del teatro; la natura sociale, inclusiva – oltre che innovativa – di quelle esperienze; la nascita e la permanenza della cultura giovanile; la critica alle istituzioni e le successive dinamiche di istituzionalizzazione stessa del Nuovo sono alcuni dei temi emersi e discussi in questo campo da Attisani, Stefano Casi, Gerardo Guccini, Mimma Valentino.
Ma la “messa in storia” del Nuovo Teatro che si è potuta saggiare a Ivrea Cinquanta non ha toccato soltanto il senso di quell'evento fondativo o di quelle prime stagioni di sperimentazione, fuoriuscendo ad attraversare tutto il secondo Novecento e le ondate più recenti della ricerca. Per esempio nella seconda sessione dedicata alle mutazioni genetiche della figura dell'attore e della forma-gruppo, con interventi introduttivi di Laura Mariani e Paolo Puppa, che a lungo si sono occupati del tema da diversi punti di vista; e naturalmente nella terza sessione centrata sulle ultimissime espressioni della scena contemporanea, aperta da due relazioni di ampio respiro sugli ultimi quindici anni, l'una di Fabio Acca sulla danza e l'altra di Silvia Mei, che si è interrogata proprio sulle peculiarità di storicizzazione di questa fase.
La “messa in storia” del Nuovo Teatro non è stata affidata esclusivamente a critici e studiosi, ma anche alla testimonianza diretta di due protagonisti del Convegno di Ivrea, delle stagioni successive della ricerca e della scena contemporanea: Giuliano Scabia e Carlo Quartucci. La loro testimonianza ha trasmesso nei fatti, a viva voce quali pulsioni avessero scosso il teatro italiano fra anni Sessanta e Settanta e come queste si siano andate poi a sviluppare nel tempo, rivelandosi in alcuni casi fino a oggi al centro delle tendenze del sistema e della cultura teatrale del nostro Paese.
Così, si è mostrata nei fatti un'altra possibilità di fare storia, in prima persona. Che è tornata con forza anche nelle diverse sessioni del convegno a cui hanno preso parte differenti artisti: Valter Malosti, Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco nella seconda (oltre agli studiosi Armando Petrini e Dario Tomasello); Simone Derai, Clemente Tafuri e David Beronio nella terza (insieme a Rossella Mazzaglia e Laura Gemini, anch'esse studiose); Fabrizio Arcuri e Gabriele Vacis nell'ultima dedicata al tema delle politiche culturali.
Questo conduce a un fondamentale tratto condiviso fra il convegno del 1967 e quello del 2017: il confronto fra prospettive diverse, in cui la presenza di studiosi, critici, operatori qui e lì si è intrecciata profondamente a quella degli artisti – come ricordato più volte nei giorni genovesi, uno degli elementi distintivi e essenziali della “tradizione del nuovo” nel sistema teatrale italiano fin dai tempi di Ivrea.
La critica nel Nuovo Teatro fra passato e futuro
Altro punto chiave di Ivrea, fra il 1967 e il 2017 si è rivelato essere la critica. O, meglio, il rinnovamento possibile della critica in relazione alla differente impostazione immaginata e sperimentata per la scena da parte degli artisti del Nuovo: una vicenda che si innesca proprio intorno al Convegno di Ivrea provocando un progressivo ampliamento della funzione critica che arriva secondo diverse vie e varie declinazioni fino ai giorni nostri. Perché nel secondo Novecento in Italia, oltre che tante ondate di ricerca artistica, si sono verificate – più o meno inaspettatamente – anche diverse, vivaci stagioni nel campo della critica teatrale: ogni volta una “nuova critica”, come si cominciava a chiamarla proprio al tempo d'Ivrea, per un Nuovo Teatro. Gli interventi introduttivi alla quarta sessione – di chi scrive e di Oliviero Ponte di Pino – insieme al contributo dei relatori della tavola rotonda hanno descritto da punti di vista diversi la qualità, la natura e il senso di questi rapporti, così come si sono riformulati fra gli anni Sessanta e il presente: dall'intervento storico di Salvatore Margiotta alle prospettive sul nuovo teatro sociale d'arte – e sul modo in cui guardarlo – di Andrea Porcheddu, dalla testimonianza di Adele Cacciagrano su quell'evento-chiave degli ultimi anni che fu la Biennale Teatro diretta da Romeo Castellucci e il suo laboratorio di pensiero e scrittura, alle criticità sul contemporaneo sollevate per un verso da Paolo Ruffini e per l'altro da Lorenzo Donati – il primo rispetto alla grande libertà oggi a disposizione, dopo l'esaurimento dei punti di riferimento e delle tendenze operanti in precedenza, l'altro nei confronti di quelli che risultano a suo avviso i due elementi-chiave della critica attuale, la moltiplicazione delle voci “nella rete”, anche grazie al web, e la qualità relazionale delle tante attività che i critici si trovano a coltivare, anche a rischio di perdere la propria riconoscibilità professionale.
Molte sono state – e sono – le sperimentazioni di lessico, formato, linguaggio in quel processo di “adeguamento” – così era definito nel Manifesto apparso su “Sipario” nel '66 – degli strumenti, di ampliamento delle funzioni innescatosi fra anni Sessanta e Settanta in campo critico. Ma in effetti forse una delle eredità più importanti e tuttora incandescenti dei tempi di Ivrea sta proprio nella possibilità di ripensamento della critica anche oltre le pratiche di analisi, racconto, scrittura della scena contemporanea: negli anni l'hanno chiamata militanza, sporcarsi le mani, fiancheggiamento, ecc., facendo riferimento a tutte quelle attività che i “nuovi critici” di oggi e di allora hanno intrapreso a sostegno del nuovo, fra la direzione di riviste, l'impegno editoriale e l'organizzazione di rassegne e festival.
Biodiversità estetica: una prospettiva politica
Per concludere questo percorso all'interno di Ivrea Cinquanta e dei suoi rapporti con il precedente del 1967 (e con tutto quello che è intercorso nel frattempo), va detto che elementi comuni fra le diverse ondate della ricerca non sembra ne siano rimasti poi molti, almeno a quanto è emerso dagli interventi al convegno: dal racconto dell'allestimento di Zip (1965, testo di Scabia e regia di Quartucci); dalle incursioni delle avanguardie internazionali come il Living o l'Odin fino ai punti di rottura dei primi anni Ottanta; ai Teatri 90 e all'effervescenza degli anni Zero – per citare solo alcune delle tendenze discusse nei giorni di Genova. Tutta un'altra storia. Ogni volta. Fra l'altro in un'epoca, quella contemporanea, in cui la diversità sembra venire accolta come un valore: se è vero che – come tanti critici e studiosi hanno testimoniato negli ultimi quindici anni – l'autentico dato condiviso nel teatro delle ultime ondate pare essere proprio quello di non avere assolutamente niente in comune: né dal punto di vista dei linguaggi e delle estetiche; né in senso geografico, com'era stato fino a qualche tempo prima con la Romagna Felix o i siciliani; né rispetto ai riferimenti, alla tradizione teatrale (della scena ufficiale e del Nuovo); e nemmeno – com'è sembrato all'inizio – a livello generazionale, etichetta a cui i gruppi delle ultime stagioni della ricerca sembrano sfuggire con fermezza (sul tema si rimanda al numero 24 di "Culture Teatrali" sulla Terza Avanguardia curato da Silvia Mei).
Molti sono tornati a riflettere su questo punto, sia analizzando alcuni aspetti sia valutandone le motivazioni o le conseguenze. Ma per chiudere si sceglie qui di ricordare l'intervento di Fabrizio Arcuri, che ha concluso la quinta e ultima sessione dedicata alle politiche culturali (che ha visto intervenire, dopo gli interventi introduttivi di Piergiorgio Giacchè e Roberto Cuppone, inoltre Lucio Argano, Edoardo Donatini, Angelo Pastore, Amedeo Romeo, Gabriele Vacis). Guardando l'avvicendarsi di queste “generazioni che affiorano e rompono col passato”, il regista ha valutato come questa tabula rasa che si presenta di volta in volta, di ondata in ondata in realtà sia viva e vera soprattutto se si guarda alla storia del Nuovo da un punto di vista estetico; da una prospettiva invece reale, umana, etica, politica anche, a suo avviso si avverte una enorme continuità, che nel suo caso riconosce per esempio rispetto agli esordi di Accademia degli Artefatti – convocata insieme ad altri esponenti di quelli che sarebbero poi stati i Teatri 90 dalla Socìetas Raffaello Sanzio a Cesena nel 1993-'94 in coincidenza all'annullamento del contributo ministeriale alla compagnia – e dall'altro lato nei confronti del proprio impegno – insieme ad altri – rispetto alle generazioni più giovani, per esempio all'interno del Premio Scenario e del festival Short Theatre.
Diversi elementi tornano, fra oggi e il 1967, se si pensa fra l'altro che alcuni “nuovi critici” degli anni Duemila (Graziano Graziani, Silvia Mei, Andrea Nanni, Rodolfo Sacchettini, ma anche Renato Palazzi o Attilio Scarpellini, solo per citarne alcuni), dopo un iniziale e sintomatico spiazzamento di fronte alla cangiante biodiversità dei teatri del nostro tempo, hanno avanzato l'ipotesi – riassumendo al massimo – che questa si potesse leggere nell'insieme, fra le sue innumerevoli manifestazioni, come una precisa scelta di carattere politico: per esempio, interpretando il fenomeno di un nuovo, strano “realismo” pop espresso dai nuovi gruppi allo scopo di decostruire, smontare, mostrare in scena il funzionamento dei meccanismi teatrali e non; o anche interrogandosi sulla necessità della sperimentazione di un diverso rapporto con l'altro, sia esso lo spettatore – sempre più spesso coinvolto in senso stretto o lato nello spettacolo – o le figure dell'ambiente interno del teatro; ma anche allo scopo di instaurare una irriducibile “irriconoscibilità” come atto di resistenza per sfuggire ai tentativi di omologazione e sfruttamento da parte del sistema. O più ampiamente – come sostengono altri – con l'obiettivo di creare un teatro sempre Nuovo, in uno stato di rifondazione permanente, nel senso di capace di unire esigenze etiche ed estetiche; di adattarsi e ridefinirsi, progetto per progetto, secondo le necessità degli artisti, degli spettatori e del mondo che li circonda. Oggi come cinquant'anni fa, quasi un'eredità – passata per vie traverse, ma reali e concrete, umane, come ci ricorda la testimonianza degli artisti – da un'ondata all'altra del Nuovo Teatro italiano.