La questione della primavera

28 Aprile 2023

È da un po’ che non avevamo una primavera così, man mano che si allungano le giornate, il tempo cambia dieci volte al giorno, si rinverdiscono gli alberi e il paesaggio si riempie di fiori. Sarà forse perché le ultime due/tre le abbiamo saltate a causa della pandemia, e quindi è una questione di percezione. Ma anche in teatro si assiste a una primavera incredibile. E non sono, com’era di consueto, gli innumerevoli festival sparsi per l’Italia ad annunciare il fermento: quest’anno è stata una fioritura di grandi spettacoli, come non si vedeva da tempo, prodotti dai più importanti teatri e allestiti sui maggiori palcoscenici del Paese.

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Gli ultimi tagli alla cultura e allo spettacolo

I festival, per inciso, invece pare non stiano altrettanto bene: basti pensare a quello che sta succedendo a Contemporanea, storica rassegna del Metastasio, che il Met di Prato, uno dei Teatri di rilevante interesse culturale (Tric), ha annunciato di dover temporaneamente sospendere a causa dei tagli al bilancio da parte dei soci locali (qui la comunicazione con cui direttore e presidente spiegano l’accaduto: Che ne sarà di un progetto così importante, che nel tempo ha fatto scoprire e approfondire artisti, opere, questioni chiave del nostro presente alla comunità locale come nazionale, contribuendo ad alimentare un tessuto di rinnovamento fra l’Italia e l’estero? La direzione se lo sta chiedendo seriamente. 

La situazione è tragica ma non unica nel suo genere, se voci simili corrono anche per altre celebri, vecchie e nuove rassegne organizzate dalle strutture della ex stabilità: in Lombardia come in Emilia-Romagna, ma anche in Sicilia, fra l’anno scorso e questa primavera sono fioccati tagli (orizzontali o mirati) allo spettacolo dal vivo; gli enti territoriali – oberati dagli effetti della pandemia, della guerra, dei rincari – sembra che attualmente fatichino ad alimentare il settore come hanno fatto a questo punto, soprattutto in ottica capillare, suppletiva, decentrata (in senso concreto e ideale) rispetto alle azioni del governo centrale. 

Che territori praticamente leggendari per il loro investimento teatrale lamentino il passo indietro, farà nei migliori casi sorridere – nei peggiori, incazzare – coloro che da sempre operano in condizioni di marginalità, fragilità, scarsità di risorse e tutele, anche ma non soltanto al Sud; però parimenti non può non far preoccupare, in un’epoca come la nostra, in cui vengono sempre più messi in discussione diritti che giudicavamo ormai acquisiti e scontati.

Un inverno dei festival?

Si potrebbe rilevare che la crisi per ora stia colpendo soltanto le rassegne organizzate nell’area della ex stabilità dai grandi teatri metropolitani; e qualcuno potrebbe obiettare che questi erano andati nel tempo ad assorbire, a coprire funzioni fino a un certo punto delegate ai festival veri e propri, in un’ennesima sovrapposizione di profili e ruoli, tipica del nostro sistema-spettacolo. Mentre proliferano le omonime iniziative indipendenti, spesso molto piccole, in special modo nei territori più lontani dai circuiti consolidati. Ma uno spazio che si chiude non rappresenta quasi mai uno spazio che si apre. Tanto più che per farsi un’idea precisa della situazione bisogna aspettare le assegnazioni ministeriali alle decine di soggetti di tale comparto, dalle nuove istanze agli extra-Fus e non solo; intendo per il 2022, l’anno passato, perché – per ragioni normative – tali finanziamenti si stanno comunicando soltanto adesso, con tutta l’incertezza che ciò comporta soprattutto per i numerosi soggetti che non hanno uno “storico” su cui far affidamento (ma in realtà anche per gli altri, visto che proprio questi nuovi ingressi rischiano di toccare gli equilibri consolidati). 

La domanda, quindi, è che cosa ne sarà di quelle strutture e di quei progetti che dagli anni Settanta in avanti hanno bene o male garantito la rigenerazione artistico-politica del nostro sistema, rappresentando in tanti sensi uno spazio-tempo altro in cui pensare, creare, incontrarsi, rifondarsi, anche soltanto stare; e non consola pensare che una simile affermazione risulta oggi valida per sempre più numerose realtà, prospettive e pratiche che ritenevamo consolidate, dentro e soprattutto fuori il teatro. Anche perché, come sempre, non è mai soltanto un problema economico, e ciò risulta ancor più significativo: da qualche tempo, infatti, i più importanti festival italiani stanno riflettendo profondamente sulle mutazioni del loro senso, ruolo e funzione. Da questo punto di vista è possibile mettere in fila una lunga serie di riflessioni sparse ma intense, che sarebbe prezioso magari raccogliere tutte insieme: dal primo seminario proprio a Prato nel 2018 al talk durante Santarcangelo 2020 appena dopo il primo lockdown; fino al convegno della scorsa estate a Kilowatt, curato da Rodolfo Sacchettini, passando per il coordinamento del Festival del contemporaneo e le sue varie iniziative di riflessione e/o incontro. 

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Fioriture di primavera e politically correct

Dall’altro lato, tornando alle “fioriture di primavera”, il debutto delle enormi produzioni che hanno costellato gli ultimi mesi non ha scatenato grandi entusiasmi, anzi: io ne ho viste molto poche, ma si sente dire di progetti ambiziosissimi, scenografie straordinarie, anche attori incredibili, con un gran impiego di risorse pubbliche, a fronte però di risultati quando va bene alterni. Angélica Liddell – maestra assoluta della scena internazionale e autrice di un ultimo lavoro che ha molto diviso –spiega chiaramente la sua posizione nel saggio che accompagna la pubblicazione del suo Caridad nella collana Linea di Ert: da una parte, soprattutto di questi tempi, occorre difendere – al di là ovviamente del diritto dell’artista all’errore, sia nei percorsi emergenti che in quelli più consolidati –  l’arte, “il mondo della poesia che lotta per la sua stessa esistenza”; dall’altra parte, il teatro deve a suo avviso posizionarsi contro la logica del politically correct e dell’happy ending, del piacere a tutti i costi, del consenso che oggi domina dappertutto, dai sistemi di comunicazione ai progetti artistici e culturali. 

Al di là del valore della singola opera in sé, tanti dei lavori che ho visto in quest’ultimo periodo potrebbero essere annoverati in una simile impresa di dissenso, risultando se necessario anche sgradevoli, contro il compiacimento a tutti i costi sul piano formale come tematico. Potrebbe essere una strada, senza dubbio impervia e dall’esito incerto, ma su versanti simili si può scorgere ancora almeno una seppur minima possibilità per un “altro teatro”, come lo chiamava Nico Garrone; o – il che è circa la stessa cosa – per un altro mondo possibile attraverso il teatro. Ma – la domanda è sostanziale – chi vede questi spettacoli, a chi arrivano queste forme di protesta?

Critica alla critica

Mi spingo a condividere pubblicamente ragionamenti del genere, talvolta anche fastidiosi, stimolata da un’artista che amo, che ritengo una delle più grandi autrici e pensatrici della scena del nostro tempo, anche perché il suo saggio pubblicato all’interno del volume per Linea affronta temi di grande rilievo, che come di consueto toccano nervi scoperti e corde importanti: in fondo, si tratta delle dinamiche di potere in senso stretto e lato, diretto e indiretto, colte laddove informano il nostro agire in rapporto al teatro. 

Da questo punto di vista, appare un po’ paradossale che il testo si concretizzi come una lunghissima invettiva contro la critica. Non tanto perché il versante sia escluso dai processi presi in esame, sebbene la critica intesa in tal senso autorevole e autoritario, comunque potente, credo non esista più da molto, quantomeno in Italia; ma in quanto – anche qualora resistesse in quei termini – potrebbe rappresentare proprio la controparte dialettica di cui si va in cerca, un modo possibile per spiazzare la logica del consenso e sfuggire alle rideclinazioni pervasive in ottica di marketing di cui parla fra gli altri Angélica Liddell. Da tempo discutiamo con alcuni di questo problema: per esempio, dei rischi – non per forza interessati – dell’autocensura, di complicità e connivenza, della tentazione di alimentare modalità di pacificazione “a lieto fine” etc. 

Quasi nessuno ha detto niente sui vistosi tagli regionali che hanno colpito varie importanti realtà del nostro sistema-spettacolo nell’inverno 2022-23; sulla – gravissima! – prematura sostituzione delle Commissioni consultive del Mic in coincidenza al cambio di Governo, infilata all’ultimo minuto nel Milleproroghe 2023; oppure anche solo sulle iper-produzioni non sempre riuscitissime di cui sopra: le voci che si sono levate sono state davvero poche, pochissime. 

Per fare un altro esempio, mi ha molto stupito il silenzio che ha accolto lo speciale Al buio dell’ultima “Falena”, su cui ci sarebbe molto da riflettere, discutere, reagire, nonostante a sollevare il dibattito ci stia pensando adesso la direzione stessa della rivista. In generale, al giorno d’oggi, non è eccessivo dire che davanti a un articolo davvero critico – anche sferzante, anche esplicito – di norma non c’è nessuna reazione, se non magari ad personam, sottovoce nel chiacchiericcio pre- o post-teatro o sui social, comunque in privato (così, escludendo la diversità, funziona l’algoritmo di tali diffusissime piattaforme). Siamo chiusi in bolle con le pareti sempre più opache e spesse, su internet come nel lavoro e nella vita.

Qualcuno dirà che la critica ormai fa altro, tanto da essere diventata fortunatamente irriconoscibile. Ma altro cosa? Qual è il potere della critica in questa situazione, a chi parla, raccogliendo gli interrogativi di Angélica Liddell? Insomma, cosa può il teatro?

Gli effetti dei Decreti

Un tema che volenti o nolenti sta al fondo di tutte le questioni sparse elencate finora, di cui pochi parlano approfonditamente e sul quale invece ci sarebbe molto da discutere, è l’effetto – soprattutto lato, indiretto e a lungo termine – sul sistema teatrale italiano dei “nuovi” Decreti ministeriali, dal “rivoluzionario” DM 1° luglio 2014, passando per quello del 27 luglio 2017 che nella sostanza lo conferma, fino all’ultimo riassetto con le disposizioni per il triennio 2022-24.

È vero che negli ultimi provvedimenti si sono manifestati degli aggiustamenti rispetto alla radicalità originaria di queste normative. “Ateatro” cita fra gli altri l’innalzamento del limite alle recite fuori sede per i Nazionali (dal 30 al 50% del totale) e delle produzioni firmate dai direttori (da 1 a 3 per anno). Tali disposizioni in effetti vanno a colpire i punti più “innovativi” dell’articolo in questione, che – presumibilmente nell’idea di intervenire su una doppia criticità manifesta nell’area della stabilità all’incrocio fra il sistema degli scambi e l’eccesso di auto-produzioni – ci avevano consegnato, da una parte, un panorama ingessato dall’altissimo numero di repliche in sede delle nuove produzioni, impossibilitate a girare; e dall’altra la nuova figura del direttore-manager, auspicabilmente orientato anche alla sostenibilità dei propri progetti. 

La materia è scivolosissima: come tante oggi, se osservata criticamente, rischia di sospingere verso posizioni che mai avremmo pensato, confondendo innovazione e conservazione. Per completare il quadro, possiamo aggiungere gli ormai noti minimi altissimi a cui i nuovi Decreti hanno obbligato: se nel complesso hanno spinto compagnie e teatri a indirizzarsi più o meno giustamente verso scelte sicure, aderenti ai (presunti) gusti del pubblico (sempre secondo la succitata logica del consenso), per un verso hanno scoraggiato le piccole imprese – vedi le varie rinunce al Fus da parte di Roberto Latini o Babilonia Teatri – e per l’altro hanno stimolato le grandi strutture a un reclutamento a dir poco bulimico, indirizzandole a produrre anche altri artisti (e pure artisti dell’“altro teatro”). La novità è stata accolta spesso con entusiasmo. Senza tener conto però che – a causa delle modalità contrattuali a disposizione – si tratta in genere di scritturare solo singoli registi/autori per progetti ad hoc, con un impatto ancora tutto da calcolare sul principio di base della nostra cultura teatrale, che si rintraccia da secoli nella forma-compagnia indipendente. 

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Lineamenti di un paesaggio teatrale

Fra i grandi teatri sempre più in espansione e le piccole realtà al limite della sopravvivenza, la ricerca del riscontro del pubblico e il blocco quasi totale del sistema-tournée, si disegna così rapidamente lo scenario attuale del nostro sistema teatrale: cristallizzato in una crescente, incredibile frammentazione interna. 

Magari sembra che nel bene o nel male qualcosa stia cambiando in questo triennio, ma basta dare un’occhiata alle prime assegnazioni 2022 uscite nell’ultimo periodo per ricredersi: confermano, infatti, una crescita diffusa nell’area che si chiamava della stabilità (soprattutto i Teatri Nazionali), mentre possiamo per ora solo provare a immaginare la decrescita che si abbatterà sulle compagnie (le assegnazioni per l’anno scorso devono ancora essere comunicate, il ché è a dir poco paradossale, visto che si tratta di imprese private, che investono e ci rimettono in proprio). 

In più, oramai, il danno è fatto. Anche su questi fronti si rifrangono ovviamente le linee di tendenza che segnano il nostro tardo-capitalismo in rovina e perciò sempre più feroce: dalla logica del consenso all’auto-emarginazione in micro-comunità sempre più chiuse; dal gap in termini di risorse e tutele fra i grandi centri metropolitani e i paesini di provincia che ricalca quello tradizionale, certo non scomparso, fra Nord e Sud; fino al doppio problema che sorge all’incrocio fra la necessità di creare una domanda di teatro talvolta fittizia e la difficoltà a distribuire le sovra-produzioni delle grandi strutture (non solo gli spettacoli più o meno deludenti a cui abbiamo accennato, ma anche creazioni straordinarie che pare sarà faticoso rivedere nella prossima stagione, come il bellissimo Anatomia di un suicidio de lacasadargilla

Gli esempi che si potrebbero fare in realtà sono tantissimi, ben diffusi. E viene da chiedersi: che succede ad artisti e gruppi indipendenti solidamente interlacciati ad alcuni grandi teatri, se e quando cambiano le direzioni artistiche che li hanno coinvolti, che forme di sostegno e tutela sono previste oltre la singola collaborazione, a medio e lungo raggio? E – soprattutto ora che si sta indebolendo il supporto da parte degli enti locali, che quantomeno in certi territori ha garantito a lungo l’autonomia degli operatori – che ne sarà del sistema delle compagnie indipendenti da dove tanti venivano e dove torneranno (e dove alcuni comunque ancora, per fortuna, ostinatamente stanno)? E c’è modo d’intervenire sulla forbice sempre più ampia che – qui come altrove – separa progressivamente sempre più i pochissimi “ricchi” dagli innumerevoli, crescenti “poveri”? E, ancora, che tipo d’iniziative si possono intraprendere per provare a ricucire i fili del tessuto connettivo della nostra cultura teatrale oramai del tutto sfibrato dal blocco delle tournée, dalla chiusura degli spazi indipendenti, dalla crisi dei festival, dall’impossibilità d’incontrarsi e rigenerarsi? 

La questione della primavera

Ora che, dopo mesi e mesi di contrattazioni politiche, è stato nominato il nuovo Consiglio Superiore dello Spettacolo, sarà finalmente possibile procedere alla scrittura dei decreti attuativi del celebre Codice dello Spettacolo, accolto come rivoluzionario qualche anno fa ma finora rimasto a prender polvere nei cassetti. L’occasione è grande, l’aspettiamo almeno da quando Paolo Grassi nel dopoguerra cercava di far capire l’urgenza di una legge complessiva sul teatro. Tenendo conto degli effetti dei Decreti e più ampiamente della fisionomia del nostro sistema-spettacolo che hanno determinato, in un simile quadro si potrebbe evitare – come di norma accade – di confermare più o meno l’esistente (rendendolo stavolta ancor più strutturale!) per andare incontro alle varie istanze e richieste, cogliendo invece l’occasione per sistemare veramente le cose o almeno qualcosa. 

Al variare dell’esperienza, della prospettiva, dell’orizzonte, le urgenze ovviamente cambiano, faccio solo qualche esempio del tutto arbitrario e indicativo. Si potrebbe pensare a un vincolo sulle modalità di “ridistribuzione” delle risorse dai grandi centri e teatri alle piccole imprese e territori, normando qualcosa che comunque accade senza lasciarlo alla buona volontà e onestà dei singoli, o quantomeno fornendo loro gli strumenti amministrativi adatti. Oppure, ragionando in ottica comparativa, si potrebbe approfittarne per specificare le sempre meno chiare funzioni dei vari articoli e soggetti, differenziandoli non soltanto in termini tecnici e quantitativi. Più in dettaglio, si potrebbe ragionare seriamente sui rapporti fra la produzione e la distribuzione, mettendo in dialogo i due assi strutturali nel nostro sistema-teatro; o anche spiazzare simili principi oramai ben superati dai fatti e inventarne di nuovi, per esempio guardando anche alle attività altre, di confronto e di pensiero, che sono la sostanza autentica dell’esperienza teatrale e di cui c’è un assoluto bisogno (a fronte di tanto parlare di sostenibilità e profitto, lo sappiamo bene tutti che non campiamo di sbigliettamento). 

Ora, qualunque sia la proposta, è evidente che al nostro teatro forse serve più una rivoluzione che tirar avanti a campare sperando di sopravvivere com’è stato negli ultimi tempi (con gli esiti che abbiamo visto). E probabilmente l’unico modo per riuscire è provare a sfondare, tutti insieme, le bolle sempre più strette e limitate in cui ci siamo rinchiusi, abbandonando almeno per un momento la prospettiva individuale o di categoria – politically correct incluso – per ragionare collettivamente e trasversalmente, ricominciando a immaginare un “altro teatro”: ossia che ne sarà di noi da qui a cinquanta, cento, duecento anni. Per tornare alle domande di cui sopra, credo che la critica e le arti performative in genere possano fare questo: rompere le convenzioni, attraversare i confini, connettere mondi diversi.

Tanto tempo fa, un Festival di Santarcangelo – se non sbaglio diretto da Silvio Castiglioni con Silvia Bottiroli e Andrea Nanni –, anziché chiudersi con una gran festa, finì con una grande manifestazione degli addetti ai lavori, che protestavano – credo – contro tagli e disattenzioni da parte degli enti pubblici che lasciavano già allora presagire il peggio. Sul catalogo, la direzione aveva scelto di riportare una frase di Majakovskij, che dava il nome all’iniziativa di mobilitazione (nonché, ancora decine d’anni prima, a uno spettacolo della compagnia del direttore, quel Teatro di Ventura troppo presto rimosso dalle cronache e dalle storie del teatro, che tanto ha fatto per la scena indipendente, in Romagna e non solo). La questione, oggi come allora (e allora), era: “Per quel che riguarda il pane la cosa è chiara, per quel che riguarda la pace anche. Ma la questione cardinale della primavera va risolta, a ogni costo”.

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