Domani a Ravenna alla Festa di doppiozero / Primo Levi: molto più che un testimone

8 Aprile 2017

Domani Aldo Zargani sarà con noi a Ravenna, alla Festa di doppiozero.

 

“Gli esseri viventi hanno evoluto considerevoli adattamenti complessi, ma siamo ancora vulnerabili alle malattie. Una delle più gravi – e forse la più enigmatica – è il cancro. Un tumore canceroso si è adattato alla sopravvivenza in modo straordinario e grottesco. Le sue cellule continuano a riprodursi anche quando le cellule “normali” si sarebbero già fermate da tempo: distruggono i tessuti circostanti per farsi spazio e ingannano l’organismo in modo da farsi fornire energia per crescere ancora di più. Ma i tumori non sono parassiti esterni che hanno acquisito sofisticate strategie per sferrare un attacco al nostro corpo. Sono fatti delle nostre stesse cellule che ci si rivoltano contro”.

 

Questo è l’inizio di un articolo di Carl Zimmer, giornalista scientifico del NY Times. L’evoluzione delle specie fu descritta da Spencer assai prima di Darwin e Darwin la conobbe prima di scrivere il suo capolavoro, intitolato appunto L’evoluzione delle specie, nel quale l’originalità di Darwin, che è anche la nostra salvezza, consiste nell’inserire la casualità nell’evoluzione. L’evoluzione predestinata, oltre che essere un errore, è stata, come vedremo, causa di paurose degenerazioni filosofiche, politiche e morali che assumono, non casualmente, il nome di Spencerismo, sinonimo di evoluzionismo sociale, che servì a giustificare prima l’oppressione delle classi più umili e poi quella dei popoli assoggettati dal colonialismo.

 

Nella letteratura italiana sussistono due note lacune: mancano l’autobiografia e, da alcuni secoli, la divulgazione scientifica, che fino a non molto tempo fa si aveva l’impudicizia di chiamare “volgarizzazione”. I tre volumi Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, e anche Il sistema periodico sono narrazioni letterarie nelle quali all’autobiografia si intreccia la divulgazione scientifica.

Potrebbe essere questo il motivo per il quale Se questo è un uomo fu rifiutato nel 1947 dall’Einaudi. 

Qualcosa di nuovo, di estraneo, era penetrato nella cultura italiana, proprio su un tema e in un’epoca in cui era quasi impossibile evitare gli schematismi ostentati nel supermarket delle ideologie posthegeliane che avrebbe poi afflitto la seconda metà del secolo. 

Primo Levi scrive per tutti perché vuole che tutti comprendano. Vuole che entri nella conoscenza comune quel fenomeno atroce e impensabile che fu la distruzione dei popoli, l’annientamento delle coscienze, la complicità di massa, l’indifferenza, la parcellizzazione tecnologica del crimine per occultare la consapevolezza della responsabilità personale. 

E questo suo obbiettivo Levi riesce a raggiungerlo con il metodo della narrazione, della breve narrazione, assai prima di opere filosofiche come Le origini del totalitarismo di Hanna Arendt del 1951 e Destini personali, l’età della colonizzazione delle coscienze di Remo Bodei del 2002. Questi due saggi – che Primo Levi, quando scrisse Se questo è un uomo non poteva ovviamente conoscere, ma era già in grado di travalicare con la sua narrazione – oggi costituiscono strumenti per comprendere la straordinaria complessità dell’opera dello scrittore torinese che studia l’atto finale della degenerazione dell’umanità. E sulla quale ripeté più volte, fino alla morte, “Se questo è accaduto, si può ripetere, quando si verifichino tutte le condizioni necessarie per il reinnesco del meccanismo”. 

 

Il termine genocidio, creato dall’ONU nel 1946, si è rapidamente ossidato, per così dire. Per esempio coniugandosi al termine “genocidio culturale”, che è come se, quando ero bambino nel 1944, la crudeltà dei nazisti fosse consistita nello spingerli all’estremo di impedire agli ebrei lo studio dell’ebraico... 

E allora, malauguratamente e imprudentemente, gli ebrei americani hanno tirato fuori l’improvvida parola “Olocausto” che, salvo che in inglese, significa ancora quel che voleva dire al tempo degli antichi: “totale sacrificio delle vittime allo scopo di propiziarsi la benevolenza della divinità”. Bisogna ammettere che non c’era di peggio. Poi noi ebrei abbiamo escogitato il termine “Shoah” che vuol dire qualcosa fra “disgrazia e catastrofe”, mentre gli zingari per se stessi e quel che gli è successo, hanno inventato la parola “Porajmos” che vuol dire “divoramento”. Ma ci siamo esposti all’astio dei nostri nemici, coniando termini e concetti come “Unicità della Shoah”, e “ineffabilità” della medesima, parente degenere dell’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz di Theodor Adorno.

 

E tutto questo perché, maledizione, non c’è venuto in mente di applicare alla Shoah il terribile termine “Singolarità”, che indica quei fenomeni fisici per i quali non bastano le normali leggi della fisica. Per comprendere appieno che cosa significa “singolarità”, i buchi neri che divorano intere costellazioni costituiscono appunto un esempio di "singolarità”. 

Già nella prima pagina della prefazione all’edizione Einaudi del 1960 di Se questo è un uomo Primo Levi dice qualcosa di molto utile per noi oggi: “Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto… sull’inquietante argomento dei campi di distruzione… Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano…”.

 

Primo Levi fu liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945 e cominciò a scrivere il suo libro già nel 1946 con il suo ritorno a Corso Re Umberto a Torino. Allora nulla di quanto era successo era ancora conosciuto nel profondo, quando lui aveva 25 anni. Della macchina dello sterminio l’umanità conosceva solo poco più del prodotto finito: fotografie di cumuli di cadaveri ignudi e scomposti e racconti dolorosi e sconnessi dei rari superstiti che riuscivano a balbettare frammenti della tragedia. Non si pensava ancora alla materia prima, l’uomo inerme e normale all’arrivo nelle fabbriche della morte, al totale annientamento della civiltà ebraica dell’Est. E soprattutto nulla si sapeva, nella confusione di quell’epoca così vicina ai disastri della guerra più tragica dell’umanità, delle raffinate tecniche di distruzione prima della condizione umana, e poi della vita, da parte di carnefici anch’essi precedentemente deprivati della loro umanità. Tecniche tanto raffinate, afferma Levi, da dover essere state accuratamente progettate prima di essere applicate e perfezionate. Le SS, addestrate ad agire con meccanica implacabilità nella esecuzione del loro compito che consisteva esclusivamente nell’assassinio di massa, erano “vittime” anch’esse della conquista delle coscienze umane perpetrata dal totalitarismo europeo. Tutto questo non era ignorato da Levi, che usava ancora la parola “tedeschi” ( più tardi avrebbe precisato: “tedeschi semplificati”), e la usava allora giustamente, perché non era avvenuto, e nemmeno se ne intravvedevano le premesse, non era ancora avvenuto lo straordinario processo di redenzione della Germania attraverso l’analisi e l’accettazione delle proprie responsabilità, talmente gravi da non poter neppure essere altrimenti espiate. 

 

 

Più delle mie parole, possono esprimere questi concetti alcune fotografie scoperte recentemente, scattate dalle SS all’arrivo sulla Judenrampe degli ebrei ungheresi del 1944.    

 

 Adolph Hitler, nel Mein Kampf aveva scritto che: “La capacità delle masse di comprendere è molto limitata, ma la loro capacità di dimenticare è infinita”. 

La prefazione inizia con le tragiche parole “Per mia fortuna…”, e, nel primo capitolo, “Il viaggio”, le brevi frasi dell’arresto richiamano, nella loro laconicità, Franz Kafka. Come Kafka, Primo Levi racconterà di fatti, di fatti che sono indecifrabili perché trovano la loro origine nelle più oscure profondità dell’animo umano.

Kafka. I suoi romanzi e racconti cominciano sempre dal non detto (o dal caso?): Il Processo: “Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. poiché, senza che avesse fatto alcunché di male, una mattina venne arrestato.”; Il Castello: “… e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello”; “La metamorfosi”: “Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo…”; “Nella Colonia Penale”: “È una macchina curiosa, disse l’ufficiale all’esploratore, abbracciando con uno sguardo in un certo senso ammirato la macchina, che pur conosceva bene…”.

Anche Primo Levi, in Se questo è un uomo, ignora il lungo processo attraverso il quale si arrivò alla soluzione finale proprio perché essa è sufficiente in sé a descrivere il fatale accumularsi delle degenerazioni della Storia. Le tracce riesce però a farcele percepire negli esili segnali che gli giungono dal mondo stesso in cui vive fra i reticolati: “Abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci “Ricordati che devi morire” meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia”. E ciò può bastare per le religioni monoteiste con i loro aldilà.

Più tardi, assai più tardi, nel 1986, avrebbe descritto, con un’analisi mortale, l’area grigia nel Campo, quell’area del tradimento che trapela dai reticolati e, poco o tanto, ha infettato l’umanità, anche noi stessi. Qualcuno, troppi, allungano la propria miseria morale e vitale oltre i tre mesi prescritti dal disequilibrio tra alimentazione e lavoro, nuocendo agli altri in modo da ridurne, o annullarne, la vita media cioè la durata dell’agonia. Ma si rende altresì conto che l’innato tentativo di sopravvivere con ogni espediente arreca danno anch’esso agli altri. 

 

Circa l’ebraicità di Primo Levi, che, essendo ateo, non rispettava, a quanto mi risulta, neppure la prima delle 613 mitzvot (doveri): “Sappi che Dio esiste”, è un tema molto di moda in questi tempi, nei quali si dibatte del pluralismo della cultura ebraica. Io preferisco concludere, apoditticamente com’è mio uso, affermando, in accordo con Hitler, che non ho alcun dubbio: Primo Levi era ebreo. 

Per trasmettere al lettore la confusione del perfetto disordine del Lager ne analizza la lingua, degenerata anch’essa, nella quale “Domani mattina” vuol dire “Mai più” e il suo genio di scrittore lo costringe a non tradurre dalle innumerevoli lingue della Babele del Campo, quasi mai, le frasi indecifrabili che rendono ognuno mercé degli altri e tutti esposti senza alcuna difesa, senza comprendere, agli esecutori dell’eccidio industriale. Il lettore rincorre angosciato il senso delle frasi non tradotte, non l’afferra e invece si imbatte nelle assurde, ma funzionali, leggende del Campo: non esistono le camere a gas (negazionismo ancor oggi condiviso da Faurisson e dai suoi esegeti universitari italiani), quelli che sono stati selezionati vengono inviati a un convalescenziario, i partigiani polacchi stanno per attaccare Auschwitz, è questione di ore, forse di minuti… Non ignora naturalmente l’aiuto dei pochi uomini forti, non trascura che, anche all’interno del campo, la bontà non è del tutto spenta, ma il suo sguardo è principalmente attratto dalle implacabili regole del Lager concepite per rendere impossibile la sopravvivenza di ogni essere umano in quanto tale. Ad Auschwitz dunque è futile ogni atto di solidarietà e di resistenza? Su questo si dilungherà più tardi ne I sommersi e i salvati quando tratterà della quasi incredibile esistenza di nuclei organizzati di antifascisti che, per sopravvivere, dovevano rendersi invisibili al punto di apparire complici. “Dieci anni” gli biascica dopo la Liberazione il detenuto politico tedesco, divenuto un Kapò, “Dieci anni di Lager” mentre piange e, fra i singhiozzi, canta penosamente l’Internazionale. E questo può bastare per il socialismo. Afferma anche di trascurare le massime atrocità del Lager, mentre invece ne ricerca il male assoluto con la fredda empiria dello scienziato che constata e annota: “Il Lager non fornisce cucchiaio ai nuovi arrivati, benché la zuppa semiliquida non possa venir consumata altrimenti”. Così avviene che i “numeri grossi”, cioè gli ultimi arrivati, se non si procurano il cucchiaio, muoiono, oppure devono imparare subito che il cucchiaio clandestino costa mezza razione di pane.

 

La possibilità di sopravvivenza per i numeri grossi, vede con il suo occhio di scienziato, è anche limitata dal fatto che essi conservano un quoziente di umanità incompatibile all’integrarsi nella nuova realtà. Lo scrittore riesce a descrivere perfino la propria degradazione quando a un “numero grosso”, umano senza via di scampo, inerme e fiducioso, un ungherese che lo ascolta con occhi di speranza, racconta il sogno falso di quando si reincontreranno felici e liberi a… Napoli, a casa sua, lui che è di Torino. 

 

Il capitolo “Al di là del bene e del male” così finisce: “Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere che cosa potessero significare in Lager le parole Bene e Male, Giusto e Ingiusto; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopraesposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato”.

Subito dopo, all’inizio del capitolo successivo, “I sommersi e i salvati” – che diventerà il titolo del libro ultimo e definitivo della sua vita – continua: “Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria.

A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. 

Noi siamo infatti persuasi che nessuna esperienza umana sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. 

Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale”.

 

Primo Levi al teatro delle dieci, 1963.


Nella prima metà del XIX secolo Charles Darwin scrisse L’origine delle specie, il testo fondamentale per la nostra civiltà e per la comprensione dell’Universo che ci ha generato. Ma, sempre nel XIX secolo, sopraggiunte le condizioni opportune, quella del colonialismo per esempio, venne partorita la teoria del darwinismo sociale, l’essere cioè ancora in corso la lotta per la vita fra gli uomini di razze inferiori destinate a soccombere e quelli delle razze superiori premiate con il dominio prima, e la sopravvivenza poi. Ma, così come l’evoluzione naturale compie errori che poi non riesce più a riparare, anche l’evoluzione delle idee nefande si sviluppa in forma maligna e cancerosa. Il nazionalsocialismo che ne fu il risultato fu una fede falsamente evoluzionista, con il dogma hitleriano di essere lui la natura, migliore della natura, e con il compito di accelerarne i lenti processi. Così si arrivò inevitabilmente allo sterminio dei popoli. Alla Judenrampe, disfatti dai viaggi interminabili, arrivarono milioni di esseri umani destinati comunque alla morte subito, o mediante l’umiliazione del non essere. E le foto di sopra paiono dimostrare che i nuovi arrivati avevano piena coscienza della fine che li attendeva: questa è l’ultima illusione che ho abbandonato.

 

Ma fra questa mescolanza di umanità giungevano casualmente persone in grado di lottare contro la fabbrica della morte, e fra di esse Primo Levi, che possedeva le quote morali, culturali, scientifiche, di resistenza fisica, di capacità di adattamento per conquistare non solo la scarsa possibilità di sopravvivere, ma la quasi unica capacità di osservare, studiare, giudicare come se una cavia riuscisse a comprendere l’esperimento di cui è vittima. Egli dunque fu in grado di descrivere in un libro di appena 194 pagine, non solo le caratteristiche, ma la fallacia della fase finale della quale era vittima, individuandone le insite e congenite crepe strutturali. 

In questa Apocalissi di 70 anni fa era divenuto possibile non più solo sotterrare documenti per un futuro sperato ma inimmaginabile, non solo testimoniare, non solo sopravvivere ormai inerti, ma descrivere, narrare, spiegare, giudicare: era divenuto possibile, “Per nostra fortuna”, Primo Levi ed è per questo che un non credente come me, che pur preserva parcelle di cultura ebraica, può pensare che Primo Levi fosse un “chiamato”, un nevih, un eletto, che avrebbe potuto contribuire, anche se poco, alla correzione, magari temporanea, della Storia malata. 

 

A quasi 10 anni ormai da queste considerazioni, occorre apportare modifiche e integrazioni che riassumo per capitoli qui di seguito:

 

- Si conferma il giudizio su Primo Levi, primo studioso della ”Storia malata”. Ma deve essere maggiormente sottolineato il suo metodo, di derivazione scientifica, che lo stesso Primo Levi non era in grado di includere nel fiume della scienza moderna, certamente in Se questo è un uomo, del 1946, ma anche in I sommersi e i salvati, che apparve, mi sembra, all’epoca del drammatico confronto che si può sintetizzare in quello fra Habermas e Nolte, certamente molto utile per il nostro orientamento oggi, ma che, a quell’epoca, forse contribuì a travolgere il sereno ottimismo di Primo Levi. La tesi erronea di Nolte consisteva non solo nell’equiparare i totalitarismi europei, come fece Hannah Arendt nel suo trattato Le origini del totalitarismo, ma nel tentativo fraudolento di considerare il nazismo alla stregua di una opposizione-imitazione delle degenerazioni del sistema sovietico. In sintesi, per Nolte, Auschwitz altro non è che una risposta ai gulag sovietici.

 

- In occasione della morte, a 93 anni, di Nolte, mi è accaduto di leggere riabilitazioni delle sue idee che non cito perché non lo meritano. I massacri dei due totalitarismi non possono essere equiparati come tentano di fare gli allievi di Heidegger, quelli veri e quelli di secondo grado. Tuttavia occorre precisare che, mentre gli storici sono stati assai validi nel descrivere l’infausto cammino del nazismo, lo stesso non può dirsi per quanto si riferisce alle degenerazioni del comunismo. Qui di seguito perciò tento di intervenire, per quel che posso, nelle distinzioni necessarie fra i due spaventosi fenomeni.

 

- Di istinto ho usato la parola degenerazioni per quanto riguarda il comunismo, anche perché, per quanto riguarda il nazismo si può parlare di metodica realizzazione delle proprie motivazioni ideologiche già definite fin dal principio. Poi sappiamo che, nell’inferno del gulag, non esistevano le camere a gas, le selezioni per la morte coincidevano le aberrazioni contro il pensiero di artisti, politici, scienziati, studiosi con motivazioni assai difficili da distinguere ma che forse, fino a oggi, non sono state sufficientemente studiate. Ma non esisteva nel comunismo l’istituzione fondamentale del razzismo, e neanche quella dell’annientamento dei popoli; le infamie compiute dal comunismo contro i tedeschi del Volga, i tartari di Crimea e altri popoli, non comprendevano la loro eliminazione, ma la loro deportazione. La deportazione dei popoli è usanza antica dai tempi di Babilonia, mentre l’annientamento dei popoli era usanza dell’Assiria. Tuttavia nessuno storico che si rispetti ha mai confuso le caratteristiche dei due imperi… questa debolezza nei confronti del comunismo è suffragata dal fatto che in Occidente abbiamo visto e combattuto fascismo e nazismo, mentre non abbiamo subito la dominazione sovietica. Comunque noi non abbiamo deportato i tedeschi dell’Alsazia e della Lorena e nemmeno i germanofoni nel Sudtirolo. Il fascismo “moderato” italiano aveva raggiunto un accordo con il fascismo radicale tedesco che prevedeva l’espulsione dall’Alto Adige dei germanofoni che decidevano di essere austriaci e l’italianizzazione di quelli che decidevano di restare. Il radicale fascismonazista accettò di buon grado questa soluzione molto simile alla deportazione. Nolte aveva certamente torto, ma in Occidente resta ancora molto da fare. Basti pensare che la fine del nazismo fu una apocalissi, mentre quella del comunismo un tramonto molto simile a quello dell’Impero britannico: l’arrendersi di fronte alla realtà.

 

- Lo sviluppo delle neuroscienze accende molte speranze per un futuro, che non possiamo ancora individuare, all’idea fondamentale di Primo Levi dell’analisi scientifica di ciò che ha generato la “singolarità”. Molto tempo occorrerà perché si comprendano appieno le malattie mentali nella concretezza del cervello umano, ma le neuroscienze, inesauste, non si fermano allo studio del singolo individuo, anzi, di recente, hanno cominciato a studiare ciò che avviene negli sciami: se è certo che l’umanità è uno sciame e che sia assai più complesso di quelli degli insetti sociali, tuttavia possiamo cominciare a sperare che in un futuro non prevedibile si potrà descrivere quel che avviene in intere società, qualcosa di assai simile al panico, ma di natura più durevole e infettiva. Fortunatamente la colpa dell’intero popolo tedesco, già superata dagli storici e dai filosofi, potrà trasformarsi nella individuazione delle crisi epidemiche, alle quali vanno soggette intere società umane.

 

Oggi una parte dell’umanità è passata alla fase migrante, mentre un’altra parte permane nella fase stanziale. Viviamo dunque, anche ai nostri giorni, in presenza di fenomeni altamente epidemici, se è vero quanto si dice degli ottanta milioni di profughi in tutto il globo. L’Europa, che non riuscì a sopportare tredici milioni di ebrei e zingari, ben difficilmente sarà in grado di tollerare l’arrivo di qualche centinaio di migliaia di profughi. E questo vale per gli alti valori cui si ispira il nostro continente… 

Eppure giorno verrà nel quale conosceremo che cosa c’è nei cervelli della “zona grigia”.

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