Straniero / Profughi bianchi, neri e color caffellatte

7 Luglio 2019

Sono stato profugo anch’io, nel mio piccolo, fatto non raro per “quelli dalla dura cervice”. Habiru vorrebbe dire, nell’antica lingua egizia, “straniero”. 

 

Sono stato profugo in Svizzera nel 1939. Ho visto le aspre montagne della Confederatio Helvetica, già innevate a settembre, ma non arrancavo a piedi lungo gli scoscesi pendii, le guardavo appiccicato al finestrino del treno. Arrivato a Basilea, per alcune settimane ebbi modo di imparare qualche frase di tedesco, e già quando stavo mescolandolo con l’italiano natio, venni confusamente a sapere che non sarebbe stata la mia lingua perché il papà, come tutti sanno, non fu accettato come insegnante al Conservatorio. La Confederatio non ci voleva, perché avevano già troppe grane da sbrigare con i profughi laceri, stanchi e disperati, quelli che venivano dall’Est. La mamma, il papà, con me e il fratellino vestiti con gli abitini migliori, tutti e quattro “veramente spiaciuti”, andammo a trovare il Rabbino Capo di Basilea che, nel mio ricordo, è Sigmund Freud, ma un Sigmund tenerissimo che offerse a noi bambini squisite caramelle, mentre spiegava la serie pressoché infinita di motivi per i quali la Comunità non ci poteva prendere in carico: “Dovete convincervi che i profughi dall’Est correrebbero tutti in Italia, dalla quale voi invece cercate di fuggire”. Questa frase sapeva di lampone, e poi aggiunse, col sapore di anice: “Andate a trovarli e vedrete!”. Nel campo di internamento comprendemmo che noi eravamo stranieri per quei polacchi disperati e loro lo erano per noi. Tornai in Italia in tempo per essere iscritto alla prima elementare della Scuola Ebraica di Torino, e anche per prepararmi con la famiglia alla Shoah, che venne, notte di bufera, puntuale nel settembre di 4 anni dopo.

 

“Non tutto il male vien per nuocere”, ma non credo che questa frase stereotipa conforterebbe tanto i profughi africani che stanno per essere rimpatriati dall’unico Stato democratico del MO, Israele, a godersi le loro siccità e le loro feroci tirannie.

Non è vero che l’ebraismo italiano è diviso e lacerato dalla faccenda dei profughi rinviati agli inferni da cui provengono. O, meglio, è vero sì, ma non è il peggio perché il peggio è che sono lacerato io di persona. Io, e come me molti ebrei italiani, penso anche a quelli libici, che provano dentro di loro, uno per uno, lo stesso atroce dolore. Vedremo poi.

In questo abnorme stato emozionale si è venuta ad aggiungere, per fortuna, la nomina a Senatore a vita di Liliana Segre, e poi l’ultimo libro scritto da Lia Levi, dedicato ai ricordi di suo marito Luciano, di quando era bambino, profugo in Svizzera. (I coniugi Levi Tas da sempre e per sempre sono stati, sono e saranno miei amici, vivi o morti).

 

Liliana e Lia: apparente gentilezza e sostanziale drammaticità di nomi come questi che si danno spesso anche alle bambine ebree e che, secondo alcuni, sono collegati a Laila, che vuol dire notte. E anche quello è un nome femminile ebraico, come Delia, Dalila (Dlilah in ebraico). La fidanzata che mi ha mollato di brutto si chiamava Dlilah… Sarebbero anche collegati a Lilith, dea della notte, ma anche demone della notte nei culti ancestrali poi rifiutati dal giudaismo monoteista. Lia sposò Giacobbe prima di Rachele mentre nel buio della notte spirava il potente vento del Sud e dell’inganno. 

Una volta andai a Milano per conoscere Liliana sapendo che anche lei voleva parlare con me. Raccontarmi della zia Mafalda, sorella di mia mamma, dei miei cugini Alberto che aveva la mia età e Graziella, che aveva l’età di Liliana. Furono carcerati assieme a San Vittore e assieme fecero il terribile viaggio verso Auschwitz. Il papà di Liliana le diceva sempre: “Se ci separassero, tieniti sempre vicina a Mafalda che mi sembra persona molto seria e responsabile”.

 

 

Separati gli uomini dalle donne e dai bambini, Liliana si avviò nella folla, ma quando la zia fu trascinata con i bambini verso un camion telonato con lo stemma della Croce rossa sul quale venivano accalcate anche le donne vecchie e malate, Liliana non salì sul camion e fece a piedi i 2-3 chilometri che separano il campo dì Auschwitz dalla sconfinata distesa di baracche e reticolati elettrificati che è Birkenau. Ma prima ebbe il tempo di vedere nel tumulto che la zia, tenendo strette al petto le testine di Alberto e Graziella, saliva sul camion diretto alla camera a gas. Spaventato dall’immagine della zia che stringeva a sé i due bambini, feci una domanda per aggrapparmi alla mia ultima illusione: ”Ma nessuno poteva ancora immaginare quel che sarebbe successo!” e Liliana mi rispose, guardandomi negli occhi con voce tanto netta e sicura da apparire all’improvviso dura : “Ma come non immaginarselo dopo quel viaggio, dopo l’arrivo ad Auschwitz con quelle SS, quelle rivoltelle, quelle spinte, quelle urla tedesche che coprivano i latrati dei cani feroci?”. E poi aggiunse: “Negli occhi di Mafalda ho visto l’incombere della notte della catastrofe…”

 

Liliana Segre saprà portare nel Senato di Roma lo sguardo degli innocenti che nessuno deve ignorare, neppure quelli che sono preoccupati per il destino della “razza bianca”.

La faccenda dei profughi africani non è, almeno per ora, da equiparare alla Shoah, ma Israele è un mondo di profughi, profughi ebrei (ebrei, ma non ne sembrano tanto convinti i Rabbinati di colà). I Paesi vicini sono ricolmi di profughi palestinesi ai quali si aggiungono, giorno dopo giorno, fuggiaschi di tutte le mattanze in corso, dall’Afghanistan alla Libia. E in Europa, in America, alla Diaspora ebraica si affiancano le Diaspore di tutto quel mondo. È forse troppo gridare che i profughi africani non sono un problema prioritario per Israele? Che debbono essere integrati? Certo, c’è un limite a tutte le possibilità, ma allo stato attuale nessuna civiltà tramonterà per il fenomeno del randagismo umano. Siamo soliti parlare sempre di noi stessi, noi ebrei, e va bene che sia così, ma vogliamo renderci conto che non c’è un solo abitante di questo Pianeta che non sia arrivato lì dove sta, in provenienza da qualche altra parte? Certo che il randagismo è incontrollato e incontrollabile, ne sanno qualcosa i Neanderthal… Certo che si può ripetere Auschwitz, ma si ripeterà se non saremo in grado di impedire le mostruosità che lo causarono. E inoltre fu Auschwitz dopo il 27 gennaio 1945 a provocare il nuovo randagismo, e non viceversa. I nuovi randagi erano europei, ebrei europei sopravvissuti che camminavano verso la Terra Promessa.

 

Su Israele pare ora che incomba la siccità, e non credo che questa calamità potrà essere risolta con il licenziamento delle cameriere o le cannucce obbligatorie da bibita, ma lo sarà da un progetto che già esiste e riguarda l’intera Regione minacciata dalla siccità. Shimon Perez, il solito sognatore socialista e utopista, parlava del Canale dal Mar Rosso fino al Mar Morto che smetterebbe una volta per tutte di essere morto, tanto che verrà chiamato dagli integralisti ambientalisti Mar Svenuto. L’acqua del Canale della Pace nella sua discesa di centinaia di chilometri genererà tanta energia elettrica anche per distillare l’acqua e la “Mezzaluna Fertile” si chiamerà “Mezzaluna delle Fontane”.

La Diaspora ebraica è connessa per sempre a Israele, ma anche viceversa, la Diaspora dovrà discutere, ma anche Israele: non approveranno il muro di Trump contro i sombreri randagi e, dai e dai, una cosa tira l’altra, tutto si può migliorare, gli arabi e gli ebrei potranno divenire “I Popoli che sognano”.

Questa è fantascienza, sì, ma preferibile a quella distopica della guerra perpetua, della morte di sete nel deserto e della morte per acqua nel Mar Mediterraneo.

In altri termini, e con più brutalità, bisogna saper dire a chi ha subito e superato la colonizzazione e a quelli che hanno subito e superato il genocidio: “Avete voluto la bicicletta? E adesso pedalate!”

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