Speciale

Quale sapere serve?

12 Maggio 2015

Mi è capitato di avere a che fare con studenti e studentesse pluri-ripetenti, fino alla terza volta nella stessa classe. Ho sempre pensato che il diritto alla formazione sia da garantire e ho sempre lavorato seriamente sul recupero delle conoscenze e delle competenze, che nel mio caso – insegno scienze sociali e filosofia in ex-istituto magistrale – al netto di programmi e contenuti significano acquisizione di capacità di critica e strumenti di decodifica della realtà. Quando un consiglio di classe si trova a decidere la situazione di studenti così problematici, i quali vivono sempre una qualche forma di disagio nel loro rapporto con la scuola e/o di deprivazione culturale di provenienza, ci si trova divisi tra il principio dell'accoglienza e quello del rigore nella valutazione. Posto che quasi sempre c'è stato un mancato riorientamento nel biennio, è arduo decidere cosa possa essere meglio per un ventenne che si ritrova in una nuova classe a riprovare nuovamente la conquista di un diploma di maturità, contro ogni ragionevole aspettativa di successo. In un caso recente ho votato, nel collegio docenti del mio istituto, contro l'accettazione di una re-iscrizione per la terza volta consecutiva al quarto anno. L'ho fatto per lo studente, perché non credo che sottoporlo ad altri due anni di stress intenso e di induzione alla menzogna e al sotterfugio – tale sarebbe stato a mio avviso il risultato di una continuazione nello stesso ambiente e senza adeguato supporto – sia volere il suo bene. Non credo, come qualche collega ha obiettato, perorando la sua richiesta di una nuova re-iscrizione, che fuori dal liceo ci sia “la strada”. Conosco anzi allievi dal percorso altrettanto tortuoso che una volta fuori dal liceo, con un buon riorientamento e riconosciuta la propria diversa vocazione, non solo hanno conseguito con successo un altro diploma, ma sono anche riusciti a continuare gli studi universitari.

 

Cosa insegnare a scuola, è un tema fondamentale, di cui si sono giustamente occupati molti ed è anche la domanda, clamorosamente rimossa, che tutti quanti si dovrebbero porre se nel frattempo non dovessero cercare di fare funzionare l'istituzione scolastica (difendendola dalla guerra che le forze politiche ed economiche le hanno implicitamente dichiarato). Quasi un lusso dunque poter riaprire un libro intelligente e denso come Il sapere che serve, di Saul Meghnagi (Donzelli 2012) che analizza la questione della formazione di ragazzi/e come processo di definizione dell'identità, con uno sguardo amplissimo e strumenti così raffinati da disintegrare le filastrocche sulla formazione che siamo costretti abitualmente a subire. L'analisi è complessa e supera i ragionamenti (meschini) degli ultimi anni, che più o meno sono stati: “c'è crisi quindi studiate di meno che non serve”. Quindi difficilmente verrà capita e recepita. Scrive Meghnagi che il nostro tempo porta con sé una mutazione generale dei processi di individuazione, nei termini dell'emergere di «un’identità fluttuante, debole e dai confini incerti». L'incertezza del futuro si accompagna a un progressivo ampliarsi degli ambiti di formazione delle persone, una moltiplicazione di agenzie e dei relativi sistemi di norme, regole e pratiche; contemporaneamente aumentano i fattori disgreganti e de-formanti, così come la sempre più ampia mobilità geografica delle famiglie propone nuove questioni di integrazione e nuovi problemi riguardo ai valori e alle immagini fondamentali del mondo. La scuola è ovviamente al centro di questi processi, ne è l'avamposto di vedetta e l'avanguardia che per prima deve farci i conti nelle pratiche quotidiane, con strumenti e know-how spesso inadeguati.

 

Vari profeti dell'apocalisse culturale e della crisi della scuola che elaborano le retoriche della lamentazione (reazionaria, neoliberista, filoprivatista, confessionale) nascono nel migliore dei casi dall'incapacità di cogliere tali processi, sulla base dell'equivoco di considerare la fine della formazione tradizionale, la Bildung, con la fine dell'educazione tout court. Confondono poi quella che è una crisi del sistema educazione, di cui i media per cui lavorano sono spesso i principali corresponsabili, con l'assenza di valori. Sono insomma incapaci di cogliere la plurivocità e la dialettica tra diversi valori storicamente determinati, dando per scontato, in definitiva, che il nuovo (ad esempio la cultura digitale in quanto tale) sia la barbarie: anche se la recente tendenza della Buona scuola va nel senso opposto dell'introduzione ottimistica della programmazione informatica fin dalla primaria. Quasi tutti i commentatori mainstream, sia che adottino la posizione nostalgica o quella dello storytelling renziano poi rimuovono, come hanno rimosso per anni la desertificazione culturale che i loro editori hanno promosso, che le difficoltà scolastiche sono innanzitutto reazioni di rifiuto degli «individui lasciati ai margini». Il rifiuto della scuola è innanzitutto un rifiuto dei codici di appartenenza di chi è già escluso, a meno che, sostiene Meghnagi, un'azione educativa mirata non riesca a fare della scuola lo spazio di accoglienza e supporto dell'individuo in vista di una sua emancipazione. Il che è inseparabile da un progetto politico e culturale legato alla forma della democrazia, tale da subordinare la performance scolastica e lo svolgimento dei contenuti alle variazioni di un percorso di trasformazione dell'individuo (é un'opinione personale ma, stando all'esistente, aggiungo io, la probabilità che ciò avvenga è pari a quella della colonizzazione di Marte).

 

Meghnagi mostra chiaramente come il mercato del lavoro, legato ai processi di globalizzazione, mantenga e riproduca le diseguaglianze sociali, per di più in quadro di peggioramento e di arretramento delle conquiste di posizioni economiche della classe media, impoverita e sospinta verso il basso: la precarietà, in particolar modo tra i giovani, tende a diventare una condizione stabile, un'alternanza tra periodi di disoccupazione e mansioni periodiche e dequalificate.

«Traiettorie familiari e traiettorie lavorative connesse con variabili demografiche e socioeconomiche, combinate diversamente per i due sessi, determinano una condizione faticosa per molti nella definizione di progetti di lavoro e di vita».

La flessibilità diventa una risorsa e una chance solo per alcuni ristretti gruppi di élite che possono contare su risorse di famiglia e miglioramenti della loro condizione, finendo al contrario per «rafforzare vecchie diseguaglianze sociali e crearne di nuove, con un incrinamento di diritti di cittadinanza faticosamente e conflittualmente conquistati, di sicurezze e di garanzie solo di recente, e parzialmente, acquisite». Niente di nuovo per gli studiosi di scienze sociali; se non fosse che da quando insegno il principale ostacolo che incontro al cambiamento nel mondo scuola è la sostanziale ignoranza della sociologia elementare della scuola della maggior parte dei colleghi. Da qui l'insistenza con cui consiglio il libro ai docenti.

«La ricerca evidenzia la persistenza del fenomeno e, analizzando il rapporto tra istruzione e stratificazione sociale, ha confermato il permanere, nella scuola e nel suo rapporto con il contesto sociale, di diverse forme di diseguaglianza: ove non sussista negli accessi, vi è una diseguaglianza nelle sopravvivenze, definita dai tassi di abbandono, di ripetenza e di conseguimento dei risultati; è presente una diseguaglianza rispetto agli esiti e alle competenze acquisite, sanzionati dagli esami e dalle prove formali; sopravvive una diseguaglianza rispetto ai risultati, una volta terminati gli studi, in rapporto con la posizione sociale occupata» (Meghnagi).

Il problema principale risulta quello «della competenza di persone capaci di mutare e di valutare le forme e i modi con cui realizzare la propria crescita»: «più bassi sono i livelli di istruzione, più disagiate sono le condizioni sociali, più debole è la domanda formativa, più è necessario porsi il quesito di come portare alla formazione chi ne è stato precocemente escluso e non solo offrire la formazione. Per tutto ciò i fallimenti nella scuola dell’obbligo vanno combattuti con ogni forma possibile di sostegno, investendo prioritariamente sulle fasce più deboli». La formazione che serve, continua Meghnagi, deve tenere conto di due fondamentali obiettivi: le esigenze del sistema produttivo da un lato e, in prospettiva, quelle delle competenze di cittadinanza che riguardano i principi della democrazia e della convivenza civile. In tal senso sono cruciali le «competenze economiche, utili a capire cosa è la globalizzazione», il che non è facile per nessuno ma è un compito che va affrontato; così come le «competenze giuridiche», per conoscere diritti e doveri della cittadinanza e del lavoro. Meghnagi scrive chiaramente che alternanza di lavoro e formazione non possono essere più considerati il risultato di chi ha fallito lo studio e lancia seriamente il problema della «necessaria progettualità dei percorsi formativi dalla scuola al lavoro»: su tutto emerge in modo forte il tema dell'apprendistato, inteso come percorso che dia adito a veri titoli professionali. Credo che ogni docente come educatore e orientatore debba prendere in considerazione anche questo. Nessuno di quelli che conosco ne sa nulla, spesso neanche quelli che si occupano di orientamento.

 

Ho la sensazione che alcuni temi che pensavamo fossero di Don Milani siano invece ipoteche gentiliane. Le vibranti proteste dei miei colleghi e colleghe che di solito insorgono su questi temi, su posizioni umaniste, non hanno impedito che queste istanze fino ad ora siano raccolte dalla cultura di impresa più retriva. Ora ci tocca sentire la storia dei figli del ministro che raccolgono cassette di frutta d'estate. Qualcuno che sappia qualcosa di minorenni drop out e di marginalità sociale potrebbe dire qualcosa?

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