Speciale
Quando è il corpo a dire no
La negazione richiama interessanti distinzioni terminologiche e concettuali nella letteratura psicoanalitica e nelle traduzioni, soprattutto in riferimento alle implicazioni legate all’uso del linguaggio simbolico, rappresentativo della realtà. Nella relazione psicoanalitica il paziente conferma la presenza di quanto rimosso o di quanto rifiuta con la negazione e il diniego. Freud scrisse a tale proposito un interessante articolo nel 1925, Verneinung (OSF, X, 197-201). In tedesco, quella parola indica la negazione in senso logico o grammaticale, ma anche la smentita nel senso psicologico.
Lo scritto mantiene comunque una certa ambiguità nell’uso dei termini, che diverrà fonte di molteplici approfondimenti psicoanalitici e di distinzioni richiamando anche l’uso in tedesco del termine Verleugnen che si riferisce al rifiutare, rinnegare e smentire in senso psicologico. La traduzione in inglese (S.E., XIX, 143), inoltre, per rendere quella seconda accezione introdurrà il termine disaworal, mentre in italiano si usa ‘diniego’.
I significati delle parole emergono dalle concezioni proprie della cultura sottesa alla lingua in uso, ma in questa riflessione non mi addentro nelle questioni che un traduttore incontra, mi propongo invece di considerare le ricadute nell’approccio psicoanalitico orientato a comprendere le dissonanze, le incongruenze, i vuoti e le assenze per riannodare, collegare, intrecciare, distinguere, scoprire nonostante il trauma connessioni possibili tra mondo interno e mondo esterno che riattivino forme vitali latenti anche nella desistenza. Si può rilevare allora, che i due termini negazione e diniego poggiano su differenti stati psichici e richiedono approcci psicoterapeutici specifici.
La negazione, infatti, allude alla rimozione e permette di intravvedere una relazione terapeutica che può poggiare su un “common sense” implicito, come Wilfred Bion in Cogitations (1992) evidenzia considerando che l’uso del “non” richiede l’assunzione di una inclusione nel discorso dell’altro. Il diniego invece esprime uno scenario diverso di relazione del soggetto con l’ambiente esterno, governato più dall’apparato sensorimotorio, percettivo, emotivo e di risonanza affettiva che dal pensiero e dalle parole-concetto di un linguaggio simbolico.
Nel diniego prevalgono gli agiti, le incorporazioni somatiche del disturbo psichico, il rifiuto e il distanziamento. Si comprende allora che il lavoro analitico dovrà percorrere vie diverse per attivare un adeguato processo terapeutico nel caso in cui la parola è assegnata al corpo e non vi sia rappresentazione. Accade nel trauma, non solo inteso come evento catastrofico specifico che blocca lo sviluppo psichico, ma anche come somma di traumi della vita quotidiana che attaccano costantemente la spinta vitale, la naturale tensione a esistere con effetti patogeni gravi.
I vissuti angosciosi diventano tali da impedirne la mentalizzazione, nuclei psicotici riaffiorano dominati da emozioni massificate non controllabili dal proprio corpo. Agire lì nella difficoltà del vivere, che include lo stesso terapeuta, richiede molta energia e la capacità di affinare la qualità della risonanza relazionale nel processo psicoterapeutico poiché gli ostacoli interni ed esterni sono molteplici, invasivi e diffusi a seconda delle manifestazioni di uno stato psichico bloccato nell’introversione, nella desistenza afanica, nella pratica dell’indifferenza e dell’ambiguità come difesa da ogni forma di conflitto.
L’inclusione del terapeuta nelle stesse condizioni di alienazione, di esposizione ai limiti della socialità umana e della vivibilità, induce a tracciare quadri per lo più catastrofici, supportati dalle rilevazioni empiriche nei contesti di cura di problematici disturbi nello sviluppo psichico individuale e collettivo. Gli scenari su quello che manca o non c’è più difficilmente mostrano vie evolutive ed emancipative della situazione che invece hanno la necessità di poggiare su quello che c’è, sulle risorse in campo, sulle potenzialità soggettive e collettive.
Se ripercorriamo le prime esperienze evolutive del soggetto, di cui possediamo abbondanti conoscenze scientifiche fornite dalla ricerca in psicologia evolutiva, nell’Infant Research soprattutto, e dalle scoperte neuroscientifiche che le hanno avvalorate, abbiamo a disposizione una migliore comprensione degli elementi vitali potenzialmente presenti nel soggetto su cui possiamo psicoanaliticamente poggiare, sostenuti dalla risonanza relazionale volta a perseguire il compito trasformativo e formativo proprio della psicoterapia.
La letteratura psicoanalitica offre una ricchezza di contributi in tale direzione a partire dalle originali intuizioni ed elaborazioni propositive post-kleiniane di Donald Winnicott (1896-1971) e di Wilfred Bion (1897-1979) che assegnarono le basi evolutive ed emancipative di ogni soggetto, l’uno, alla forza dinamica e tensiva della creatività, e l’altro, al progressivo formarsi del pensiero a partire da afferenze sensoriali ed emotive elementari in trasformazione verso preconcezioni e concetti.
La negazione, quando si esprime nel corpo dando forma all’ignoto con un disturbo somatico, poggia su un apparato psichico tacito proprio dell’inconscio implicito quindi non rimosso, in quanto antecedente alla capacità di rappresentazione della realtà come Mauro Mancia evidenziò in Sentire le parole (2004) e poi in Psicoanalisi e neuroscienze (2007). Le manifestazioni del trauma percorrono le vie primitive degli affetti e delle emozioni di base e richiedono un accesso psichico che agganci e trasformi elementi di inconscio tacito in elementi pensabili e trattabili dalla coscienza. Si tratta nell’agire terapeutico di tornare lì all’origine per tentare di ricomporre e rimobilitare vitalmente elementi bloccati dall’insostenibilità psichica di un tempo prematuro o troppo fragile per concepire e realizzare il senso e il significato di quanto subito.
Possiamo avvalerci di quanto sappiamo riguardo ai processi d’individuazione soggettiva. La vitalità del bambino si manifesta costantemente nel movimento e nell’attività di contatto esplorativo in cui a prevalere sono gli atti che eludono le forme di assoggettamento. In fase neonatale il bambino fa ricorso all’evitamento dello sguardo, al rifiuto del seno, al ritrarsi e spingersi in altra direzione, alla chiusura nel pianto assoluto, e verso i 18-20 mesi disponendo di una struttura cerebrale più sviluppata, affermerà la propria soggettività con la negazione passando da forme preverbali a un “no” verbale deciso e a volte di difficile conversione, poiché non legato a ragioni logico-razionali ma affettivo-relazionali.
Nello sviluppo evolutivo la negazione assume la qualità di risorsa nel processo d’individuazione e allo stesso tempo istituisce interruzioni, deviazioni, blocchi a seconda di come viene trattata nella relazione di accudimento e educativa. Si rilevano infatti nel diniego e nel rigetto la necessità di conservare un minimo livello di unità intrapsichica a fronte di relazioni affettive manipolatorie, confusive e incongruenti, fino alla messa in atto di forme di autodistruttività pur di affermare un limite invalicabile nell’intersoggettività. Secondo Luigi Pagliarani (1922-2001) sarebbe necessario occuparsi di un’educazione sentimentale che trasformi la “ragione affettiva” in “ragione poetica”, attivando la poiesis, azione che si fa linguaggio, creazione dell’esistente.
La riflessione filosofica di Paolo Virno (Saggio sulla negazione, 2010) pone la negazione come qualità umana distintiva, specie specifica, e in quanto tale è, non possiede accezioni né positive né negative, mentre buone e cattive possono essere le forme che assume nelle relazioni intra-interspecifiche e collettive. E per comprendere qualcosa di utile ai fini della cura o nella relazione educativa si dovrà entrare nella complessità dei processi sottesi alle manifestazioni esterne e agli esiti finali che si sono determinati. L’azione riguarda più la possibilità di arretrare agli elementi sorgivi e costitutivi di quel soggetto, alla complessità delle interazioni tra dati interni ed esterni al soggetto che progressivamente confermano l’istituirsi di certe condizioni involutive, ansiogene e traumatiche che vanno a depotenziare, interrompere o bloccare le opportunità evolutive presenti potenzialmente.
Posso esemplificare con il caso di un dolore improvviso che va a bloccare il corpo di un musicista e impedisce il movimento necessario all’uso dello strumento, interrompendo così improvvisamente il successo professionale e la vita stessa, che a quello strumento era stata totalmente dedicata. Ma qual è il vero elemento invalidante, sarà la domanda che si farà strada quando nessun trattamento fisioterapico e farmacologico aiuta a migliorare quella situazione fisica, aprendo anzi la via alla depressione e a diverse forme di desistenza dalla vita stessa fino al tentativo di suicidio.
Risulterà subito drammatico il costo di misurarsi con un black-out totale pervasivo che ogni giorno si manifesta nell’impossibilità di sostenere una relazione con qualsiasi cosa, persona, attività, conoscenza, sobillando l’ordine stesso del proprio contesto spazio-temporale e producendo grande angoscia, annichilimento e disorientamento. Eppure, in quel nulla fagocitante e rispecchiante qualcosa di solido, di fisico c’era: un blocco motorio da cui partire per esplorare quello che poteva arrivare da altri livelli di funzionamento e interazione dell’unità corpo-cervello-mente-psiche. Il linguaggio onirico e la creatività che poteva essere generata da quel “non so” cosa sento, cosa provo, cosa significano le parole che dico e ascolto, produrrà molteplici scenari in cui addentrarsi e comporre narrazioni che interpellavano le manifestazioni di una confusività propriocettiva e mentale. Era come se si continuasse a entrare in contatto con l’ombra di qualcosa che non poteva essere visto e nominato fino a quando non ci sarebbero state le condizioni per poterlo sostenere psichicamente e affettivamente.
Il lavoro analitico sostenne il processo psicoterapeutico nel costruire proprio quella possibilità di contenere la relazione con il perturbante, l’oscuro, il danno, la violazione ancora priva del linguaggio che si fa parola, e allo stesso tempo si aprì alla performatività del soggetto sofferente. La relazione terapeutica, infatti, potè servirsi di quanto emerse nella sintonizzazione delle rêverie in atto e dell’agentività del soggetto nonostante fosse danneggiata, devitalizzata e orientata all’autodistruzione. L’esito della paziente esplorazione che portò ad acquisire consapevolezza del significato di quel “no” agito dal corpo, divenne possibile nello sviluppo di un linguaggio capace di ricollocare quel dolore nel simbolico e attivare una performatività nuova di emancipazione dalla violazione e denegazione subita.
In psicoanalisi si è fatto strada il concetto di enactment, un concetto che viene dalla biologia e che fa riferimento alla capacità enattiva del soggetto, fondamentale per trovare risorse di possibile evoluzione da uno stato mortifero. Il “no” del corpo necessita di un viraggio di quelle stesse capacità performative dell’apparato psichico che in determinate condizioni si sono incagliate e depotenziate per trovare una nuova conformazione dinamica che sappia riconoscere e dare forma al desiderio.