Ragazzi di mezza vita

25 Ottobre 2024

«[...] Noi non potevamo vendicarci del mondo intero, ci servivano dei responsabili. Non eravamo cattivi, eravamo soltanto stanchi. Non eravamo neanche paladini, non volevamo salvare il mondo, ancora meno preservarlo. Volevamo, con ogni singola fibra muscolare che intesse il cuore, con la voracità più intima del sangue che preme sui nostri due miliardi di capillari ciascuno, che il mondo si estinguesse insieme a noi [...].»

Uno, Franco, Rita e Alì stanno prestando i loro servizi di camerieri nella residenza privata del senatore Caputo che ha raccolto i massimi esponenti delle sfere della vita pubblica per una cena di beneficenza all’insegna del lusso più spensierato e del consolidamento dei posti di potere.
Chi sono queste persone? Sono quelli che muovono i fili del mondo – e dei soldi, la verità più vera nel mondo inginocchiato al realismo capitalista.
Una scena che potrebbe richiamare alla mente i vari pasti interrotti del Fascino discreto della borghesia di L. Buñuel (1972) – solo che, a pochi metri sotto di loro, c’è una massiccia dose di GPL altamente esplosivo. I camerieri sono gli stessi che hanno trasportato fino alla residenza privata le bombole di gas di petrolio per far saltare in aria tutto. E tutti.


Questa è la prima scena di Figli vostri, romanzo d’esordio di Lorenzo Rossi Agenzia X, 2024), che, nell’andamento circolare, ne rappresenta anche l’epilogo: un libro che mette insieme le atmosfere altolocate dell’Ammaniti di Che la festa cominci – senza la dimensione sgangheratamente comica – e la rivendicazione dei paria che innerva le pagine infuocate di Fight Club di C. Palahniuk – senza l’indagine sulla crisi del maschile, perché è una crisi ben più grande, contro un sistema che ha rivelato già da tempo tutte le proprie falle per gran parte delle popolazioni mondiali.

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Lorenzo Rossi.

In una città metropolitana non meglio definita – che potrebbe essere Roma – e nella precarietà insita nella stessa forma di vita urbana, vive Uno, 29 anni, laureato in Filosofia, che lavora nella redazione di un giornale. È circondato da un ambiente umano depressivo, e la sua vita è costellata di lutti che infestano, fantasmatici, la sua quotidianità e, accanto a questi, Uno ha una interlocuzione continuativa con Cioran, nel cui nome c’è ben poco di casuale. Figura allucinatoria, iper-cosciente e nichilista, Cioran è la parte del protagonista che ha accelerato il processo di disincanto rispetto allo status quo, e lo martella domandandogli: “Perché continui ad alzarti?”. La vita è nulla se non lo scorrere dei giorni, nella totale assenza di una teleologia altra che non sia consumare la vita stessa.
In questo deserto dei sensi in cui Uno è ingolfato, la linfa vitale della trama si rintraccia nei due punti di svolta che permettono a Uno di passare al lato proattivo dell’esistenza, ovvero l’apparizione di Anna e il contatto più complice con il collega Franco.
Quest’ultimo vive per sabotare l’instupidente routine altrui: oltre a dispensare LSD nelle macchinette del caffè, coinvolge Uno nel gruppo “Figli vostri”, un collettivo insurrezionalista che cerca di combattere il vuoto di senso scrivendo messaggi di matrice politica – elemento che ricorda un po’ la Los Angeles vista attraverso gli occhiali di John Nada in Essi vivono di J. Carpenter (1988). Ma, soprattutto, Figli vostri tenta di riappropriarsi delle possibilità esistenziali attraverso calcolati attentati che hanno come obiettivo le cattedrali del capitalismo – banche, fast food, centri commerciali.


Infelici e stremati dalla prigione bestiale di una demi-vita, i personaggi del romanzo di Rossi si trovano intrappolati in una vita che non hanno scelto, prede di una rabbia che nasce proprio dalla sensazione di vivere in un mondo che non li vuole, in una realtà che non offre vie d’uscita – se non la disperazione che, ancora, non si è impallidita fino ad assumere la forma dello stadio terminale dell’angoscia.
Il secondo punto di svolta avviene quando Uno incontra Anna. Dopo essere uscito dall’appartamento in cui si trovava per scrivere un articolo su una zona colpita da furti, Uno si ritrova in macchina e, contro la sua volontà, offre rifugio ad Anna, che sta fuggendo dal supermercato dove ha commesso un furto.
A partire da questa scena, inizia una relazione fatta di timidi avvicinamenti, giornate improvvisate insieme, notti d’amore. Solo che Anna non esiste – o meglio, esiste dalla pagina in cui si manifesta fino a quella che ospita la caduta dell’illusione.


Questa epifania rappresenta la maggiore fragilità del libro: nell’agnizione seguente allo svenimento del protagonista, infatti, Anna va a infittire la schiera delle presenza illusorie che circondano Uno. Ma se le altre sono fatte di pensiero, o hanno tutt’al più una componente vocale, Anna invece ha un corpo e un appartamento dove intavola il suo rapporto con il protagonista.
Nelle pagine necessarie al cambiamento della condizione ontologica della ragazza, il passaggio non viene accompagnato con l’attenzione che meriterebbe; la sospensione dell’incredulità viene recisa in modo brusco. Fin troppo di fretta, infatti, Uno scopre che Anna è sì esistita ma il luogo in cui i due hanno vissuto la loro breve infatuazione è l’appartamento della signora De Angelis, madre della ragazza suicidatasi due anni prima – appartamento in cui Uno si era già ritrovato per la scrittura dell’articolo nella scena prima l’ingresso di Anna nella sua esistenza.

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Il riconoscimento della nuova realtà è condotta in modo un po’ approssimativo e, forse, chi legge può subìre la tentazione è quella di tornare indietro nelle pagine per intercettare spie disseminate nel testo – che pure ci sono ma emergono in quanto tali sono in una seconda lettura intenzionale.
Il narratore – omodiegetico e a focalizzazione interna – non anticipa nulla di questa torsione di trama, ma solo in alcuni passaggi strategici sorvola dall’alto la temporalità della trama (pag. 13: “Questa storia non inizia così, anzi forse è iniziata prima che io potessi saperne qualcosa”; pag. 214 “Ed è qui che torniamo a dove siamo partiti”).
La prima persona che, tra le odierne prospettive disponibili per scrivere, risulta essere la più frequentata, nella fattispecie del testo di Rossi si mette al servizio di un affresco generale e generazionale: è sì un “io” che dice e indica, ma indubbiamente la scelta di nominarlo “Uno” – e dunque non nominarlo – tiene dietro a questa esigenza. Egli è nessuno, eppure è centomila: ciò che viene lasciato senza caratterizzazione dà il via a un rispecchiamento nell’astrazione e, quindi, non depotenzia la prima persona ma ne mostra un uso diverso.

Per non rinunciare all’interconnessione tra analisi interna ed esterna al testo, non da ultimo esiste l’annosa questione dello stile.
Quella di Rossi è una lingua piana, paratattica, asciutta, che non cerca né immedesimazione né pathos a tutti i costi – al contrario, si ritrae davanti a questa possibilità. È lingua scarnificata e filtrata dal linguaggio audiovisivo e che, con riguardo alle dominanti formali e alle preferenze tematiche, ha forse assorbito di più la lezione dei grandi narratori anglofoni che non quella degli autori italiani.


C’è una certa congruenza tra mezzo espressivo e oggetto rappresentato, e se accettiamo l’idea che il contenuto sia forma sedimentata, questa congruenza emerge come una scelta ponderata. Il fraseggio secco e spesso interrotto rispecchia perfettamente un mondo pieno di fratture, e appare come l’unica lingua possibile per descriverlo; anche i dialoghi, stentorei e di impronta ermetica, rispondono a questo stesso principio, riflettendo l’insensatezza di un mondo che sta già bruciando e che si vuole solo far deflagrare ancora di più.

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